zarar
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giovedì 24 gennaio 2019
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il dolore come espiazione e salvezza
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Bella e significativa trasposizione filmica del diario dell’attesa che Marguerite Duras condensò in un lungo racconto autobiografico dello stesso titolo e in altri scritti minori. L’atteso è suo marito Robert Antelme, arrestato dalla Gestapo nella Parigi occupata del 1944 e deportato in un campo di concentramento in Germania. L’arresto del marito precipita Marguerite (nel film una brava Mélanie Thierry) in uno stato di angoscia in cui si scontrano sentimenti ed emozioni contrastanti (“un disordine formidabile del pensiero e del sentimento di fronte al quale mi vergogno della letteratura” scrive la Duras) . Intellettuale anticonformista, inquieta e determinata, sposata da due anni con Robert e sua fedele compagna nella Resistenza, Marguerite sta vivendo il dramma collettivo dell’occupazione nazista e quello personale di una crisi del suo matrimonio, a cui hanno contribuito – ci vien fatto capire – la lacerazione di un figlio nato morto e una relazione con il miglior amico del marito, Dionys Mascolo.
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Bella e significativa trasposizione filmica del diario dell’attesa che Marguerite Duras condensò in un lungo racconto autobiografico dello stesso titolo e in altri scritti minori. L’atteso è suo marito Robert Antelme, arrestato dalla Gestapo nella Parigi occupata del 1944 e deportato in un campo di concentramento in Germania. L’arresto del marito precipita Marguerite (nel film una brava Mélanie Thierry) in uno stato di angoscia in cui si scontrano sentimenti ed emozioni contrastanti (“un disordine formidabile del pensiero e del sentimento di fronte al quale mi vergogno della letteratura” scrive la Duras) . Intellettuale anticonformista, inquieta e determinata, sposata da due anni con Robert e sua fedele compagna nella Resistenza, Marguerite sta vivendo il dramma collettivo dell’occupazione nazista e quello personale di una crisi del suo matrimonio, a cui hanno contribuito – ci vien fatto capire – la lacerazione di un figlio nato morto e una relazione con il miglior amico del marito, Dionys Mascolo. Ora che Robert le è stato strappato violentemente, pubblico e privato si mescolano nello stesso dolore, insieme al rimorso di una fedeltà imperfetta, alla percezione che la scomparsa del marito renderebbe più semplice il suo rapporto con Dionys. Ma Marguerite sente che ora non può tradire il patto di solidarietà e amore che comunque la lega a Robert; e che lo sforzo di stargli vicino e il dolore e la frustrazione della lunga attesa sono un modo necessario di combattere l’orrore che lo ha travolto, di condividere la stessa battaglia che lui sta combattendo sulla sua pelle. Fa l’impossibile per seguirne le tracce, accettando anche il rischio e l’ambiguità di incontri ripetuti e vani coll’agente della Gestapo Rabier . E dopo la sconfitta della Germania, soffre – nel clima generale di rimozione - il periodo snervante dell’attesa di un possibile, incertissimo ritorno, consumandosi nell’angoscia, somatizzando fino ad ammalarsi, mentre nella sua immaginazione Robert soffre la fame, sta male, muore di mille morti...La vicinanza di Dionys è insieme un sostegno e un tormento. Dopo un tempo interminabile il marito tornerà, anche se distrutto nel corpo e nell’anima. La lunga angoscia di Marguerite si scioglierà in una crisi nervosa; con uno sforzo terribile si ricomporrà per accoglierlo. Robert ce la farà, sia pure con estrema fatica, con il suo aiuto… Due anni dopo, quella stessa Marguerite gli annunzierà che lo lascia per Dionys, da cui vuole un figlio. Il nazismo è caduto, Robert non è morto. Per l’inquieta Marguerite si aprono altre strade. Il momento del dolore è finito, ma è consegnato per sempre alla scrittura. Ed è su quel momento e su questa estrema tensione etica che la regia di E. Finkel, coadiuvata da un’ottima sceneggiatura e fotografia, si concentra: con gli intensi primi piani della protagonista, travolta dalle emozioni e insieme spettatrice fredda di se stessa e delle sue contraddizioni; con il suo disperato girovagare a vuoto; con gli sdoppiamenti stranamente naturali che traducono visivamente lo sdoppiamento del suo cuore, con le incursioni della bella intensa prosa della Duras, con i colori lividi di un Grosz, con il senso profondo di estraneità rispetto al mondo intorno di chi il dolore isola da tutto e da tutti: la massa di gente che le si muove intorno è sfocata o ridotta a rombante rumore di fondo, o a silhouettes indefinibili, fino al punto in cui gli incubi si confondono con la realtà e viceversa, in un roteare angosciante di immagini. Non c’è rifugio per l’angoscia di Marguerite, neppure il suo piccolo appartamento, reso come uno spazio di angustia, con lo stretto corridoio bianco e vuoto verso una porta inesorabilmente chiusa, le persiane accostate contro il mondo ostile, lo squillo minaccioso del telefono nel silenzio. Linguaggio visivo e verbale si fondono con grande sapienza formale in un continuum che scorre fluido dalle immagini, alla colonna sonora, ad un dialogo essenziale e incisivo, alle incursioni della voce narrante.
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angeloumana
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domenica 20 gennaio 2019
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il dolore per sé
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La Douleur, dolore a profusione, a cominciare dal viso dolente della protagonista Mélanie Thierry, dolore che emana dalle parole che dominano le oltre due ore del film, riportate quasi integralmente, dal libro di Marguerite Duras. Ne risulta una trasposizione letteraria e letterale del libro ad opera del regista e sceneggiatore Emmanuel Finkiel (il cui padre ad Auschwitz perse i genitori e il fratello), un pochino snervante, o 'énervante' visto che siamo in Francia. Libro che l'autrice disse proveniente da un suo diario scritto nel '45, nascosto e dimenticato per anni e infine pubblicato nel 1985. Marguerite Duras è contrita, si strugge e si dispera per un ritorno - che sembra ormai improbabile dopo la liberazione - del marito scrittore Robert Antelme sposato nel '39, come lei membro della Resistenza durante l'occupazione tedesca di Parigi, ma rapito e deportato.
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La Douleur, dolore a profusione, a cominciare dal viso dolente della protagonista Mélanie Thierry, dolore che emana dalle parole che dominano le oltre due ore del film, riportate quasi integralmente, dal libro di Marguerite Duras. Ne risulta una trasposizione letteraria e letterale del libro ad opera del regista e sceneggiatore Emmanuel Finkiel (il cui padre ad Auschwitz perse i genitori e il fratello), un pochino snervante, o 'énervante' visto che siamo in Francia. Libro che l'autrice disse proveniente da un suo diario scritto nel '45, nascosto e dimenticato per anni e infine pubblicato nel 1985. Marguerite Duras è contrita, si strugge e si dispera per un ritorno - che sembra ormai improbabile dopo la liberazione - del marito scrittore Robert Antelme sposato nel '39, come lei membro della Resistenza durante l'occupazione tedesca di Parigi, ma rapito e deportato. E' appesantita inoltre dal senso di colpa per la relazione segreta che aveva col miglior amico del marito, Dyonis.
Quando le speranze di un ritorno si affievoliscono comincia a frequentarsi con l'agente francese della Gestapo, Rabier, l'unico che possa favorirla ad apprendere notizie di Robert e che si dice onorato di sedersi a tavola con una scrittrice, ma il cui interesse per la donna va oltre questo motivo “culturale”. La frequentazione la fà sentire vicina a Robert e può essere utile al gruppo che lotta per la cacciata dei tedeschi; nel film l'azione manca, la lotta è solo immaginata in conciliaboli intellettuali.
Le parole del diario e il film stesso paiono essere un memento di ciò che furono l'occupazione e le deportazioni tedesche: quando Parigi è liberata la gente ha desiderio di lasciarsi alle spalle la tragedia, Marguerite è tra le poche che ancora aspettano. Immagini di morte costellano la sua mente, non si era fatta luce sulla specie umana... non si parla degli ebrei. De Gaulle aveva proclamato il lutto nazionale solo per la morte di Roosevelt, e per il popolo e i suoi morti nulla. E da dove escono questi funzionari ben vestitinella Parigi liberata? Visse quel tempo e quell'attesa nel modo più tragico possibile; una sua inquilina invece era fiduciosa, confidava nel ritorno di sua figlia e le teneva una valigia pronta coi suoi vestiti.
Il dolore e quello struggimento di Marguerite però sono soprattutto rivolti a sé stessa, ne fanno una creatura egoista, reclusa in casa e nel suo dolore, oltreché nei suoi sensi di colpa. Nulla è dato sapere da dove traesse il suo sostentamento e le tantissime sigarette che fumava, a profusione anch'esse nel film. Si figurava il ritorno del marito, che poco dopo il matrimonio già tradiva, a volte immaginava che avrebbe bussato alla porta e se lo sarebbe visto davanti, a volte lo dava per morto. Lo rivede il 7-5-1945, le riportano a casa una materia non ancora morta, scrive. Quando poco alla volta, lentamente, egli torna debolmente alla vita essa scrive che Robert non è morto in un campo di concentramento, comunica a sé stessa che è morto altrove, di certo in lei.
Il film è candidato all'Oscar 2019 per il miglior straniero, ma forse non ha il peso e l'originalità giusti, riposa troppo sulla letteratura della Duras: parteggiamo per il nostro Dogmane Marcello Fonte!
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cinefoglio
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domenica 3 febbraio 2019
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istantanea di la douleur
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Se sperimentare il dolore vuol dire abbandonarsi a più di due ore di sublimi immagini, suoni e volti, tanto veri quanto scavati dalle lacrime, La Douleur si dimostra essere l’opera adatta.
Emmanuel Finkiel ci trascina in una Parigi ormai prossima alla liberazione, ma ancora permeata dalla presenza nazista ed infettata dal collaborazionismo.
Una città che vive nell’incertezza del domani, ritmata dai copri fuoco delle parate aeree e dalle lunghe file per consegnare pacchi e lettere ai cari, imprigionati per le loro idee politiche, e dalla vita bohémien a quella partigiana e clandestina.
In una città che si riempirà di festa, allegria e giubilo per l’imminente vittoria, in realtà, non ci sarà tregua per l’angoscia e la disperazione di tutte quelle madri, mogli e familiari che aspettano i propri adorati tornare: chi dalle prigioni, chi dalla Germania, chi dai campi di concentramento.
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Se sperimentare il dolore vuol dire abbandonarsi a più di due ore di sublimi immagini, suoni e volti, tanto veri quanto scavati dalle lacrime, La Douleur si dimostra essere l’opera adatta.
Emmanuel Finkiel ci trascina in una Parigi ormai prossima alla liberazione, ma ancora permeata dalla presenza nazista ed infettata dal collaborazionismo.
Una città che vive nell’incertezza del domani, ritmata dai copri fuoco delle parate aeree e dalle lunghe file per consegnare pacchi e lettere ai cari, imprigionati per le loro idee politiche, e dalla vita bohémien a quella partigiana e clandestina.
In una città che si riempirà di festa, allegria e giubilo per l’imminente vittoria, in realtà, non ci sarà tregua per l’angoscia e la disperazione di tutte quelle madri, mogli e familiari che aspettano i propri adorati tornare: chi dalle prigioni, chi dalla Germania, chi dai campi di concentramento.
In questa lunga finestra temporale viene narrata (o meglio auto-descritta) l’iniziale lotta, e la seguita attesa di Robert, marito e compagno di ideali, della scrittrice-giornalista Marguerite Antelme, interpretata da una trasportante Mélanie Thierry.
La premessa doverosa è che la pellicola gode di un controllo ed una qualità dell’immagine davvero elevata, dove i colori, le luci ed i movimenti non sono solo risultano corretti, ma regalano quel grado in più di coinvolgimento emotivo e sensoriale che incanta: con il sapiente uso dello sfocato e dei fuori campo, si costruiscono dei veri e propri quadri, rarefatti ed inaccessibili quando il sentimento è troppo forte, scientifici e sporchi quando calati nella realtà delle circostanze, astraendosi dal mero inconscio della protagonista.
Una buona immagine non fa il film, certo, ma concorre alla creazione di un’estetica e di un gusto, qui potenziato dai suoni microscopici e persistenti, come il ticchettio del pendolo (metronomo dell’attesa), od i tacchi che battono su delle scale infinite (che sanno molto di The Believer 2001), e ancora i rumori delle vie cittadine e dei cafè, del bruciare armonico dei mozziconi di sigaretta.
A bilanciare il disequilibrio esistenziale della scrittrice provvederanno due figure virili: il Gestapo Pierre Rabier che, in duplice gioco di apparente ancora di salvezza per Robert e stanatore dei compagni della resistenza, avrà voce finché le bandiere a svastica non saranno ripiegate e portate lontano dalla capitale; Dionys Mascolo, amico e futuro amante, che in gesti di affezione (ed anche qualcosa di più) si prodiga per il recupero del compagno e marito di lei, fino a sostenere Marguerite nel suo più elevato momento di dolore.
Il centro della pellicola, e di qualsivoglia scelta artistica, è la molteplicità delle forme del dolore della protagonista, interpretate in maniera sensazionale, raccolte in un caleidoscopio di forme: dalla presa di coscienza alle difese psicologiche; dalla delicatezza degli sguardi all’urlo incontrollabile della sofferenza più profonda; dal rifiuto di ciò che si è tanto aspettato al sorriso-maschera dei tanti e sovrapposti pensieri che avvelenano la mente.
Un film denso ma non spietato, intriso di elementi di contestazione e di critica (anche allo stesso governo De Gaulle) nel panorama della Memoria, tutto parigino, dei dimenticati. Combattenti e lottatrici contro un nemico ancora più forte dell’assolutezza della morte: l’incertezza della speranza ed il dolore partorito da essa.
02/02/2019
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