GRAVITY (USA/UK, 2013) diretto da ALFONSO CUáRON. Interpretato da SANDRA BULLOCK, GEORGE CLOONEY, ED HARRIS (voce)
La dottoressa Ryan Stone è un’esperta ingegnere biomedico alla sua prima missione spaziale, la STS-157. Assieme a lei sullo Space Shuttle Explorer c’è l’astronauta Matt Kowalski, alla sua ultima missione nello spazio prima del pensionamento. Durante una passeggiata all’esterno dello Shuttle per alcuni lavori di manutenzione sul telescopio spaziale Hubble, vengono avvertiti dal Controllo Missione di Houston che un missile russo ha colpito un satellite ormai in disuso, provocando un’esplosione che a sua volta ha innescato una reazione a catena di detriti che si muovono ad altissima velocità. Mentre l’equipaggio comincia più in fretta possibile il ritorno nell’Explorer per riatterrare prima che si può, i detriti colpiscono e danneggiano molto gravemente sia lo Shuttle che il telescopio, uccidendo il collega Shariff e gli altri colleghi, lasciando Stone e Kowalski da soli alla deriva nello spazio, poiché anche i ponti radio con Houston che garantivano il collegamento hanno riportato danni. Il comandante Kowalski, l’unico a disporre di uno zaino jet, riesce a recuperare Stone, che fluttuava nel vuoto senza controllo dopo l’incidente e a riagganciarla con un cavo. Con lo Shuttle in frantumi e attendendo la seconda micidiale ondata di detriti, la loro sola speranza è raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, distante pochi chilometri da dove stavano operando in orbita. Col propellente esaurito i due arrivano a destinazione, tuttavia Kowalski è costretto a sacrificarsi lasciandosi andare alla deriva nello spazio per evitare la medesima sorte anche alla dottoressa. Affranta dal sacrificio di Matt, Ryan, che ha quasi terminato la scorta d’ossigeno, riesce a penetrare nella stazione, lesa, disabitata e piena di oggetti fuori posto. Tenta di raggiungere il veicolo spaziale Sojuz in tutta fretta a causa del divampare di un incendio che la costringe a staccarsi dalla stazione, ma il paracadute di frenata, impigliatosi nella struttura dopo la sua apertura a causa dell’impatto coi detriti, le impedisce di staccarsi. Solo tornando all’esterno potrà liberare il paracadute, ma l’ennesimo getto portentoso di detriti la sorprende mentre cerca di svolgere l’operazione e solo a fatica riesce a re-infilarsi nel Sojuz, mentre la Stazione Spaziale Internazionale viene anch’essa demolita. Con la navetta russa pesantemente compromessa e senza paracadute non può tornare sulla Terra, pertanto ha come ultima risorsa quella di dirigersi verso la stazione cinese Tiangong 1. Dentro il modulo del Sojuz, la dottoressa ottiene un insperato contatto via radio e lancia il mayday, ma le risponde un radioamatore Inuit e non Houston come aveva per un momento auspicato. La donna sente, dall’altra parte, guaiti di cani e il pianto d’un neonato che per qualche istante la rasserenano. Il motore principale del Sojuz non s’attiva e Stone è già pronta a lasciarsi morire serrando l’erogazione d’ossigeno nella capsula. Improvvisamente, fuori dalla stazione, compare Matt – in realtà un’allucinazione dell’ingegnere – che la scuote con bonarietà dalla sua disperazione e le consiglia di adoperare i razzi di atterraggio del modulo della navetta russa per imprimere abbastanza movimento al fine di avvicinarsi alla stazione cinese. La Tiangong 1 viene così raggiunta, ma sta velocemente perdendo quota. A bordo della navetta di salvataggio cinese Shenzhou, sganciata dalla stazione cinese poco prima della sua distruzione all’ingresso nell’atmosfera, Stone affronta l’incandescente discesa nell’atmosfera terrestre e riesce ad ammarare nel lago di una landa desolata presso un luogo imprecisato, dove però stan già arrivando i soccorsi chiamati via radio durante la sua discesa. L’universo non è più l’ultima frontiera, non v’è alcunché da esplorare nell’ottavo film di Cuáron; si resta ad un passo dal pianeta Terra, ma lo scenario non si allontana comunque troppo dai deserti selvaggi del cinema western, un topos talmente straniante da confinare con il mistico, l’unico restato in cui permanga ancora la sensazione che ogni cosa possa avvenire, in cui si avverte la presenza dell’ignoto e dunque viene messa a dura prova l’essenza stessa dell’umanità pura e autentica. C’è tutto ciò nel blockbuster con Bullock e Clooney che Cuáron è riuscito ad imbastire senza spostarsi dalle consuete convenzioni hollywoodiane, quelle che impongono l’inevitabile coincidenza dell’avventura personale con un cambiamento interiore e l’elaborazione del trauma immancabile radicato nel passato. Eppure, al di là dei dialoghi ruffiani e di una tensione obbligatoriamente continua, tenuta con una padronanza della messinscena realizzata per intero in computer graphica che ha del magistrale, non è nemmeno troppo nascosto uno dei film più umanisti dell’annata, in questo agevolato anche dai racconti riportati dagli stessi due protagonisti, la prima che ricorda la figlia morta mentre giocava a scuola con una tenerezza straziante e il secondo che si rammenta di eventi goliardici del suo passato "carnevalesco". La visione prettamente statunitense dell’universo, un luogo di peripezie in cui l’uomo deve affrontare ogni sorta di avversità naturale, questa volta è fusa con quella promossa dal rivale di sempre, il cinema sovietico degli anni 1970, in cui lo spazio è il posto più vicino possibile alla metafisica: il teatro di visioni interiori che diventano realtà e di incontro con il sé più profondo, finché non si tocca addirittura l’idea di origine (o ritorno) proposta in 2001: Odissea nello spazio, quando, in un momento di struggente meraviglia, il corpo di Bullock sembra danzare con leggiadra lentezza. Per il regista e montatore messicano lo spazio può essere tutto questo al tempo stesso, come il suo film può essere tanto un blockbuster quanto un’opera che si ripromette di analizzare la profondità dell’animo umano, realizzata con una sceneggiatura (scritta col figlio Jonás) fitta di conversazioni e molto imperniata sulla recitazione (quale una pellicola a basso budget) e animata dall’immensa fantasia che consente alla già citata messinscena in computer graphica di strabiliare. Un lungometraggio, infine, che abbraccia la fantascienza pur senza trascurare il suo preponderante lato avventuroso, nel quale un uomo e una donna combattono in scenari naturali mozzafiato, capaci di far battere il cuore anche semplicemente quando un raggio di luce penetra dal vetro dell’oblò dell’astronave. 7 Oscar: regia, fotografia (Emmanuel Lubezki), montaggio (A. Cuáron e Mark Sanger), effetti speciali (Tim Webber, Chris Lawrence, David Shirk, Neil Corbould, Nikki Penny), sonoro (Skip Lievsay, Christopher Benstead, Niv Adiri, Chris Munro), montaggio sonoro (Glenn Freemantle), colonna sonora (Steven Price).
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