Scegliendo questa volta gli anni Cinquanta, Scorsese con Shutter Island rilegge con la consueta originalità un altro periodo importante della storia americana, evidenziandone luci e ombre e sottolineandone aspetti ambigui come già aveva fatto con la rappresentazione di una violenza iperrealista nel secondo Ottocento in Gangs of New York, oppure raccontando la scalata verso il successo di un uomo ambizioso, folle e geniale, ideale metafora della società statunitense degli anni Trenta e Quaranta, in The Aviator, ancora con il suo ormai abituale attore-feticcio Leonardo DiCaprio.
In questo noir dall’atmosfera molto gotica e resa claustrofobica da una sapiente fotografia, il tema del reducismo, che cinematograficamente ha sempre reso bene e non solo quando si racconta il Vietnam o l’Iraq, si sposa assai bene con quello della follia e dei fantasmi del passato, personale o collettivo che sia. Il protagonista della storia, reduce di guerra, agente FBI, vedovo, espressione di una morale inattaccabile e solida, conduce un’indagine su un’isola-manicomio criminale, durante la quale emergono le sue ossessioni e i suoi sensi di colpa per gli orrori della seconda guerra mondiale, sensi di colpa che sono per certi aspetti quelli dell’intero Occidente democratico, che ha visto di cosa sono stati capaci i nazisti ma non ha saputo impedirlo in tempo. Così, quando ravvisa a poco a poco una serie di inquietanti stranezze nel comportamento di psichiatri e poliziotti che operano nel manicomio-penitenziario, conduce lo spettatore a parallelismi e facili conclusioni, tali da indurre a leggere la storia come quella di un uomo solo ed eroico che scopre l’orrore degli esperimenti del governo americano, che per studiare il cervello umano e la possibilità di pilotarne il funzionamento, utilizza in modo simil-nazista cavie umane reclutate fra malati mentali veri o presunti.
Ma l’abilità di Scorsese di sovrapporre più chiavi di lettura e di disorientare con nuove rivelazioni, come già in Departed, a poco a poco svela che la faccenda è meno lineare di quel che sembra e fomenta una serie di dubbi sul rapporto fra realtà e costruzione mentale. Le rivelazioni finali non sono proprio definitive, perché rimane la sensazione che il confine fra costruzioni onirico-allucinate e fatti reali sia assai labile. E così si riflette sul tema del male e della violenza (altro déjà vu in Scorsese) come natura quasi incorreggibile dell’essere umano, declinata però in duplice versione: quella del singolo disposto a tutto, che la usa come meccanismo di difesa o come espressione dei propri fantasmi interiori o del proprio disturbo mentale, e quella delle nazioni e dei governi a volte verso i propri stessi cittadini, fil rouge quest’ultimo che rimanda anche per l’ambiguità del messaggio a un classico come il Kubrick di Arancia Meccanica.
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