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giovedì 27 gennaio 2011
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il paradosso all'ennesima potenza
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Ho visto il film ieri. Non sono una critica cinematografica, quindi il mio giudizio sarà quello di una persona normale che è andata a vedere un film "anormale", ma quando è finito mi sono fatta delle grandi risate, perchè è tutto così assurdo, paradossale, che la risata finale nasce da dentro, primo perchè non si hanno spiegazioni per quello che si è visto, secondo perchè ci si libera di una certa tensione accumulata durante l'ora e mezzo di durata.
Non posso dire che non mi sia piaciuto, l'ho trovato originale nella sua assurdità, i personaggi esagerati, le situazioni più grottesche che mai (penso all'infermiera che si fa chiudere nella cassa da morto senza rendersi conto fino all'ultimo di quello che le stava accadendo), tanto quasi come alcune situazioni dei film di Tarantino o dei fratelli Cohen.
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Ho visto il film ieri. Non sono una critica cinematografica, quindi il mio giudizio sarà quello di una persona normale che è andata a vedere un film "anormale", ma quando è finito mi sono fatta delle grandi risate, perchè è tutto così assurdo, paradossale, che la risata finale nasce da dentro, primo perchè non si hanno spiegazioni per quello che si è visto, secondo perchè ci si libera di una certa tensione accumulata durante l'ora e mezzo di durata.
Non posso dire che non mi sia piaciuto, l'ho trovato originale nella sua assurdità, i personaggi esagerati, le situazioni più grottesche che mai (penso all'infermiera che si fa chiudere nella cassa da morto senza rendersi conto fino all'ultimo di quello che le stava accadendo), tanto quasi come alcune situazioni dei film di Tarantino o dei fratelli Cohen. Sicuramente non si può raccontare, perchè non si riuscirebbe a decrivere le atmosfere surreali, senza musica, bianche e nere, nevose, tragicomiche, direi che questo film va solo visto, nel bene e nel male!
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epidemic
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mercoledì 26 gennaio 2011
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8 pieno
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visto appena uscito. Semplicemente stupendo. Dalla gran scelta del bianco e nero, al tono grottesco e comico allo stesso tempo. Una sceneggiatura vincente e una serie di gag veramente buone. Si candida sicuramente ai primi dieci titoli dell'anno....immaginando cosa uscirà nelle sale
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domenico a
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martedì 25 gennaio 2011
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un bunuel di altra epoca
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Abbiamo visto “ Kill me please – la morte dolce “ diretto da Olias Barco.
Dimenticate il titolo ( non perché sia brutto ma è forviante ), dimenticate le pubblicità o le brochure della produzione. Non è un film sulla dolce morte o almeno questa è presa da pretesto e da contesto per raccontare altro. Questo moderno regista che ha vari debiti creativi e narrativi col passato e il presente ( dal cinema Kammerspiel, dei tempi della Repubblica di Weimar, quello di Friedrich Wilhelm Murnau e del romeno emigrato in Germania Lupu Pick; ma anche dal cinema del maestro spagnolo Luis Bunuel; o anche, più modestamente, assai vicino ai film di umorismo nero di Benoît Délépine & Gustave Kervern ), ha costruito un film originale, anche in parte imprevedibile, ironico e nero, ma tuttavia anche se accettabile “ il colpo di scena “ della seconda parte ci sembra più un’idea originale e creativa che non una costruzione coerente del dramma.
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Abbiamo visto “ Kill me please – la morte dolce “ diretto da Olias Barco.
Dimenticate il titolo ( non perché sia brutto ma è forviante ), dimenticate le pubblicità o le brochure della produzione. Non è un film sulla dolce morte o almeno questa è presa da pretesto e da contesto per raccontare altro. Questo moderno regista che ha vari debiti creativi e narrativi col passato e il presente ( dal cinema Kammerspiel, dei tempi della Repubblica di Weimar, quello di Friedrich Wilhelm Murnau e del romeno emigrato in Germania Lupu Pick; ma anche dal cinema del maestro spagnolo Luis Bunuel; o anche, più modestamente, assai vicino ai film di umorismo nero di Benoît Délépine & Gustave Kervern ), ha costruito un film originale, anche in parte imprevedibile, ironico e nero, ma tuttavia anche se accettabile “ il colpo di scena “ della seconda parte ci sembra più un’idea originale e creativa che non una costruzione coerente del dramma. Abbiamo accennato al
Kammerspiel, perché il film privilegia l'analisi intimistica e psicologica dei soggetti narrati e li segue come se fosse sotto una lente d'ingrandimento, li segue con un bianco e nero non intellettualistico o di rimando cinematografico, un bianco e nero distaccato e algido, quasi da non riconciliato; ma la componente grottesca e surreale ci rimanda anche al Bunuel della “ Via Lattea “ o di “ Belle de Jour “ ( lì, il grottesco era rivolto al sesso, qui alla morte – ma le due cose non sono compatibili ? ) . Riprendendo il pensiero iniziale, diciamo che il film non è sulla dolce morte, provocatoriamente potremmo dire che è solo un pretesto l’eutanasia, l’autore ci vuole raccontare della difficoltà del vivere e dell’impotenza nei confronti delle complicazioni della vita. Un mondo che alle prime difficoltà si arrende e che se ha paura di soffrire figuriamoci se non ha paura di una morte cruenta e quindi sceglie di andare in un elegante e crepuscolare castello nella campagna innevata e si lascia morire chi con champagne e splendida ragazzetta sopra, chi chiede di avere come ultimo pasto le stesse portate del giorno del matrimonio e chi vorrebbe cantare davanti ad un pubblico “ La Marsigliese “. Quindi non devono essere particolarmente depressi se cercano il sesso o il cibo o stare al centro dell’attenzione prima della fine ( Lo sappiamo, Marco Ferreri non condividerebbe questa analisi e ci sbatterebbe contro “ La grande Bouffe “ ).
“ Kill me please – la morte dolce “ è il secondo film del regista francese Olias Barco ( il suo primo si intitolava “ Snowboarder “ ( 2003 ) - Gaspard è appassionato di snowboard, vuole diventare un professionista. Anche perché ha bisogno di sensazioni nuove e forti ed è in continua sfida con i propri limiti ), è andato in Belgio a girarlo con pochi soldi, con una piccola troupe e in poche settimana e molte difficoltà perché l’idea della morte è un argomento completamente rimosso da almeno una cinquantina d’anni in Occidente ( pensate al nostro Premier e a alla lotta che ha intrapreso con questo tabù passando tristemente – peggio del Don Giovanni – da una diciassettenne a una ventenne ) e anche il Cinema – arte nonostante tutto coraggiosa – ha lasciato poche tracce sull’argomento, “ Harold e Maud “, “ Kiss me “, “ Non è mai troppo tardi “, “ La mia vita senza me “ e per ultimo il film di Eastwood “ Hereafter “, realizzando un ottimo film, piccolo, ironico, cattivo, ma non perfetto, forse un po’ traditore con se stesso, un po’ egocentrico in una storia che pretendeva assoluta ‘ serietà ‘ nel messaggio.
Il Dr Kruger gestisce – anche grazie ad un finanziamento statale – in Belgio un castello in cui si pratica la dolce morte; secondo quello che dice e fa vuole dare un senso al suicidio. Ha creato una struttura terapeutica dove chiunque sia convinto del tutto può ricevere la morte come più preferisce. Kruger è separato dalla moglie, sta per affrontare un divorzio pesante, sta subendo un’indagine dalla finanza, la popolazione circostante è completamente ostile al suo lavoro e passa il tempo tra convincere persone a non morire e a rimboccare le coperte a chi è appena morto, eppure – nella sua nevrotica flemma – non perde mai la pazienza o ha scatti di qualsiasi genere , l’unico sfogo sono le sue corse quotidiane nella neve del bosco circostante il castello.
Nella sua clinica esclusiva giungono i personaggi più strambi, una cantante lirica che ha avuto il cancro e non può più cantare, un manager canadese che è stanco di perdere sangue dal naso continuamente perché da anni ha emorragie al cervello, un uomo che ha perso a poker tutto il danaro e anche la sua amata, un ricco erede lussemburghese con istinti repressi, una bella ragazza che ha bisogno di punture costanti ed è autolesionista, un vecchio cabarettista berlinese dalla voce rovinata e un depresso che vuole morire simulando una battaglia sul genere Vietnam. Dopo essersi consultati con Kruger sulle motivazioni che li spingono a morire ciascuno di loro ha diritto a esprimere un’ultima richiesta. Tutto procede con calma e ordine fino a quando scoppia prima un incendio nella cucina del castello e poi qualcuno inizia a sparare contro medico, infermieri e pazienti scatenando nei pazienti stessi quegli istinti naturali inespressi che potrebbero far cambiare idea sulla dolce morte. Ed anche il dottor Kruger.
Come abbiamo già detto, un film fuori dagli standard, con un cast perfetto, una regia sicura e senza orpelli. Ha ottenuto il Premio Marco Aurelio d'oro nell’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma 2010.
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pipay
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martedì 18 gennaio 2011
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scritto e girato da chi non sa fare film
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Aggiungo un paio di cose al mio commento di qualche giorno fa. Alla fine del film, in sala è scoppiato spontaneo un applauso liberatorio, accompagnato da un generale sospiro di sollievo perché finalmente ci si era liberati dal supplizio di questo film. E ancora una cosa: per lo sconclusionato, confuso e irrisolto affastellamento di questa storia sgangherata appare evidente che il film (che aveva, se fosse stato fatto bene, moltissime possibilità per diventare un lavoro addirittura eccellente, come ho già affermato) è stato scritto e girato da CHI NON SA FARE FILM.
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reservoir dogs
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martedì 18 gennaio 2011
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calare il sipario perché la vita è una farsa
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In un bianco e nero alla Bergman, tra il silenzio della foresta, immersa nelle neve risiede una clinica diversa dalle altre, una clinica che ospita avventori alla ricerca della morte.
Il dottor Kruger (Recoing) è il medico che fa da Caronte per questo viaggio attraverso lo Stige che i pazienti hanno deciso di fare; tra di loro i personaggi più disperati: dal regista depresso cronico (Poelvoorde) alla cantante che ha perso la voce (De Paris) al giovinotto che tenta il suicidio dall'età di sette (Bramly).
Come in un film dei fratelli Coen, l'anarchia da parte della popolazione delle zone limitrofe che poco accetta le pratiche della clinica del dottor Kruger (elemento catalizzatore), scatena la follia repressa in ogni paziente che tende a ledere se stesso e gli altri.
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In un bianco e nero alla Bergman, tra il silenzio della foresta, immersa nelle neve risiede una clinica diversa dalle altre, una clinica che ospita avventori alla ricerca della morte.
Il dottor Kruger (Recoing) è il medico che fa da Caronte per questo viaggio attraverso lo Stige che i pazienti hanno deciso di fare; tra di loro i personaggi più disperati: dal regista depresso cronico (Poelvoorde) alla cantante che ha perso la voce (De Paris) al giovinotto che tenta il suicidio dall'età di sette (Bramly).
Come in un film dei fratelli Coen, l'anarchia da parte della popolazione delle zone limitrofe che poco accetta le pratiche della clinica del dottor Kruger (elemento catalizzatore), scatena la follia repressa in ogni paziente che tende a ledere se stesso e gli altri.
Olias Barco nel tema dell'eutanasia in continuo conflitto con l'etica e la religione ci mostra attraverso una steady-cam i movimenti convulsi di persone che hanno deciso di "calare il sipario" perché "la vita è una farsa".
In questa pellicola pare proprio che la follia si contagiosa così come lo affermava l'agente Daniels/Leddis in "Shutter Island".
La follia che intrisa al voler compiere un atto ad ogni costo ci mostra una donna che canta la Marsigliese ad un pubblico assente in un ultima esibizione che ricorda la Norma Desmond di "Viale del tramonto" e un uomo che si uccide con un bicchiere di veleno in quanto portatore di una idea fallimentare: un alternativa ad una morte violenta e più socialmente accettabile (perché retribuita con le donazioni dei suicidati).
Comincia come una commedia e termina come un film dell'orrore; quanto sarebbe piaciuta a Bunuel e a Ferreri questa storia surreale e grottesca.
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renato volpone
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lunedì 17 gennaio 2011
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scioccante
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Il bianco e nero del film, l'inverno e la neve avvolgono l'inquietante clinica del Dottor Kruger in un gelido brivido. I pazienti, volontariamente, invocano il suicidio assistito per un dolce trapasso. Esaudendo l'ultimo loro desiderio il Dottore somministra un veleno che li porterà nel sonno eterno in appena tre minuti. Il ritmo è dolce e delicato con gli infermieri che si prendono a cuore i malati e soffrono per il distacco, ma lentamente la tensione cresce, lo scenario cambia completamente, la dolcezza del suicidio invocato diventa paura per l'omicidio provocato. Le scene diventano crude, gelide nel rigore invernale, pura sofferenza in un grottesco dipinto che spinge al riso contraendolo subito in una smorfia di dolore.
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Il bianco e nero del film, l'inverno e la neve avvolgono l'inquietante clinica del Dottor Kruger in un gelido brivido. I pazienti, volontariamente, invocano il suicidio assistito per un dolce trapasso. Esaudendo l'ultimo loro desiderio il Dottore somministra un veleno che li porterà nel sonno eterno in appena tre minuti. Il ritmo è dolce e delicato con gli infermieri che si prendono a cuore i malati e soffrono per il distacco, ma lentamente la tensione cresce, lo scenario cambia completamente, la dolcezza del suicidio invocato diventa paura per l'omicidio provocato. Le scene diventano crude, gelide nel rigore invernale, pura sofferenza in un grottesco dipinto che spinge al riso contraendolo subito in una smorfia di dolore.
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emaspac
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lunedì 17 gennaio 2011
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violenza latente
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"Cosa voleva comunicarci, chi ha ideato questa storia?"
Gli aspiranti suicidi, nel film, sono delle persone fondamentalmente deviate, che andrebbero curate psicologicamente piuttosto che accompagnate nella loro devianza: la loro carica di irrispettosa violenza, intrinseca nella volontà di suicidarsi, si potrebbe dipanare anche sul prossimo, se l'omicidio non fosse limitato dalla fortissima censura sociale: ed il film questo intende dimostrare. Lo spartiacque avviene con lo sdoganamento dell'assassinio, che 'libera' i nostri pazienti dalla censura, ed avviene nel momento esatto in cui questi vengono assediati. Ognuno di loro estrinseca la mancanza di rispetto per la vita con la violenza omicida: da potenziale suicida ad omicida seriale.
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"Cosa voleva comunicarci, chi ha ideato questa storia?"
Gli aspiranti suicidi, nel film, sono delle persone fondamentalmente deviate, che andrebbero curate psicologicamente piuttosto che accompagnate nella loro devianza: la loro carica di irrispettosa violenza, intrinseca nella volontà di suicidarsi, si potrebbe dipanare anche sul prossimo, se l'omicidio non fosse limitato dalla fortissima censura sociale: ed il film questo intende dimostrare. Lo spartiacque avviene con lo sdoganamento dell'assassinio, che 'libera' i nostri pazienti dalla censura, ed avviene nel momento esatto in cui questi vengono assediati. Ognuno di loro estrinseca la mancanza di rispetto per la vita con la violenza omicida: da potenziale suicida ad omicida seriale. Solo la giovane donna, che è poi l'unica persona che aveva un gravissimo problema fisico, oggettivo, ritrova il senso delle cose. Il messaggio è chiaro, ed è fin troppo banale: è ipocrita chiamare servizio sociale una clinica che aiuta a suicidarsi, quando invece la società giustamente aspira ad aiutare i malati che esprimono gli stessi problemi mentali, con la stessa carica di violenza, magari verso il prossimo. Ognuno dei pazienti è un deviato perchè soffre palesemente di qualche mancanza affettiva/cognitiva: andrebbe aiutato a risolvere il conflitto, non portato alla morte.
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pipay
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domenica 16 gennaio 2011
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uscirà presto dalle sale...
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Il film, per l'originalità con cui è trattato il tema della morte, ovvero il desiderio di porre fine alla propria vita commissionando ad altri il "proprio suicidio", che dovrebbe avvenire in una clinica specializzata a tale macabro scopo; per l'insolita l'ambientazione: la clinica, appunto, immensa, appartata e dall'aspetto austero e sinistro; per alcune scene grottesche al limite del reale; per la singolare regia, che ha optato - tra l'altro - per l'abolizione del colore, avrebbe avuto parecchi elementi per diventare un lavoro ben fatto, interessante e non privo di spessore. Invece niente di tutto questo. Cosa voleva comunicarci, chi ha ideato questa storia? che nonostante tutto si rimane sempre ancorati alla vita, costi quel che costi, perché la morte non fa piacere a nessuno? Ebbene, qualunque fosse l'intento iniziale, è miseramente naufragato in un coacervo di personaggi strampalati, di situazioni assurde, irrisolte o inspiegabili.
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Il film, per l'originalità con cui è trattato il tema della morte, ovvero il desiderio di porre fine alla propria vita commissionando ad altri il "proprio suicidio", che dovrebbe avvenire in una clinica specializzata a tale macabro scopo; per l'insolita l'ambientazione: la clinica, appunto, immensa, appartata e dall'aspetto austero e sinistro; per alcune scene grottesche al limite del reale; per la singolare regia, che ha optato - tra l'altro - per l'abolizione del colore, avrebbe avuto parecchi elementi per diventare un lavoro ben fatto, interessante e non privo di spessore. Invece niente di tutto questo. Cosa voleva comunicarci, chi ha ideato questa storia? che nonostante tutto si rimane sempre ancorati alla vita, costi quel che costi, perché la morte non fa piacere a nessuno? Ebbene, qualunque fosse l'intento iniziale, è miseramente naufragato in un coacervo di personaggi strampalati, di situazioni assurde, irrisolte o inspiegabili. Tutto si è perso tra le pieghe di un progetto cinematografico o vicenda che si distrugge da sola, che non lascia niente di buono, che comunque rimane abbozzata, irrisolta e anche piuttosto noiosa. Credo che questa "specie" di film uscirà presto dalle sale, poco visto o dimenticato con l'amarezza di aver perso un'ora e mezza del proprio tempo.
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martedì 9 novembre 2010
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grottesco, paradossale, tragicomico
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Il dottor Kruger (Aurelien Recoing) è il direttore di una clinica in cui si pratica il suicidio assistito: un sorso di veleno è offerto come viatico per il sonno eterno per chi ha deciso di farla finita, salvo accertarsi prima dell'effettiva volontà di morire del paziente. Già frequentata da personaggi eccentrici ed un po' svitati, la clinica diverrà oggetto di ostilità da parte degli abitanti della zona, innescando così un gioco al massacro in cui finiranno per morire praticamente tutti.
Qualunque tentativo di riassumere banalmente in termini di trama questa commedia nera del poco noto regista belga Olias Barco è inevitabilmente riduttivo: il suo valore sta nella galleria di pazienti bizzarri e strampalati che popolano la clinica, chi vuole morire durante un ultimo amplesso, chi cantando la Marsigliese, chi fingendosi un soldato in Vietnam, chi in realtà non vuole morire affatto; nelle atmosfere assurde e grottesche, nella paradossalità delle situazioni e dei dialoghi, nel finale tragicomico dal sapore apocalittico; nel fascino di una fotografia in bianco e nero un po' retrò; nello sguardo ironico (il discorso di Kruger sul costo sociale del suicidio, il suo interesse per le eredità dei pazienti) e nei momenti più esilaranti (il tale che racconta di aver perso la moglie a poker!).
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Il dottor Kruger (Aurelien Recoing) è il direttore di una clinica in cui si pratica il suicidio assistito: un sorso di veleno è offerto come viatico per il sonno eterno per chi ha deciso di farla finita, salvo accertarsi prima dell'effettiva volontà di morire del paziente. Già frequentata da personaggi eccentrici ed un po' svitati, la clinica diverrà oggetto di ostilità da parte degli abitanti della zona, innescando così un gioco al massacro in cui finiranno per morire praticamente tutti.
Qualunque tentativo di riassumere banalmente in termini di trama questa commedia nera del poco noto regista belga Olias Barco è inevitabilmente riduttivo: il suo valore sta nella galleria di pazienti bizzarri e strampalati che popolano la clinica, chi vuole morire durante un ultimo amplesso, chi cantando la Marsigliese, chi fingendosi un soldato in Vietnam, chi in realtà non vuole morire affatto; nelle atmosfere assurde e grottesche, nella paradossalità delle situazioni e dei dialoghi, nel finale tragicomico dal sapore apocalittico; nel fascino di una fotografia in bianco e nero un po' retrò; nello sguardo ironico (il discorso di Kruger sul costo sociale del suicidio, il suo interesse per le eredità dei pazienti) e nei momenti più esilaranti (il tale che racconta di aver perso la moglie a poker!). Fra le righe, la critica alla superficialità con cui talvolta si sposano convinzioni senza indagarne fino in fondo le conseguenze (il mito della "dolce morte") ed il ritratto di un'umanità squinternata, di cui, mostrandoci le stravaganze nella morte, Barco ci narra indirettamente le manie e le nevrosi in vita. Marco Aurelio d'oro al Festival di Roma.
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