reservoir dogs
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martedì 18 gennaio 2011
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calare il sipario perché la vita è una farsa
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In un bianco e nero alla Bergman, tra il silenzio della foresta, immersa nelle neve risiede una clinica diversa dalle altre, una clinica che ospita avventori alla ricerca della morte.
Il dottor Kruger (Recoing) è il medico che fa da Caronte per questo viaggio attraverso lo Stige che i pazienti hanno deciso di fare; tra di loro i personaggi più disperati: dal regista depresso cronico (Poelvoorde) alla cantante che ha perso la voce (De Paris) al giovinotto che tenta il suicidio dall'età di sette (Bramly).
Come in un film dei fratelli Coen, l'anarchia da parte della popolazione delle zone limitrofe che poco accetta le pratiche della clinica del dottor Kruger (elemento catalizzatore), scatena la follia repressa in ogni paziente che tende a ledere se stesso e gli altri.
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In un bianco e nero alla Bergman, tra il silenzio della foresta, immersa nelle neve risiede una clinica diversa dalle altre, una clinica che ospita avventori alla ricerca della morte.
Il dottor Kruger (Recoing) è il medico che fa da Caronte per questo viaggio attraverso lo Stige che i pazienti hanno deciso di fare; tra di loro i personaggi più disperati: dal regista depresso cronico (Poelvoorde) alla cantante che ha perso la voce (De Paris) al giovinotto che tenta il suicidio dall'età di sette (Bramly).
Come in un film dei fratelli Coen, l'anarchia da parte della popolazione delle zone limitrofe che poco accetta le pratiche della clinica del dottor Kruger (elemento catalizzatore), scatena la follia repressa in ogni paziente che tende a ledere se stesso e gli altri.
Olias Barco nel tema dell'eutanasia in continuo conflitto con l'etica e la religione ci mostra attraverso una steady-cam i movimenti convulsi di persone che hanno deciso di "calare il sipario" perché "la vita è una farsa".
In questa pellicola pare proprio che la follia si contagiosa così come lo affermava l'agente Daniels/Leddis in "Shutter Island".
La follia che intrisa al voler compiere un atto ad ogni costo ci mostra una donna che canta la Marsigliese ad un pubblico assente in un ultima esibizione che ricorda la Norma Desmond di "Viale del tramonto" e un uomo che si uccide con un bicchiere di veleno in quanto portatore di una idea fallimentare: un alternativa ad una morte violenta e più socialmente accettabile (perché retribuita con le donazioni dei suicidati).
Comincia come una commedia e termina come un film dell'orrore; quanto sarebbe piaciuta a Bunuel e a Ferreri questa storia surreale e grottesca.
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previsit
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giovedì 27 gennaio 2011
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il paradosso all'ennesima potenza
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Ho visto il film ieri. Non sono una critica cinematografica, quindi il mio giudizio sarà quello di una persona normale che è andata a vedere un film "anormale", ma quando è finito mi sono fatta delle grandi risate, perchè è tutto così assurdo, paradossale, che la risata finale nasce da dentro, primo perchè non si hanno spiegazioni per quello che si è visto, secondo perchè ci si libera di una certa tensione accumulata durante l'ora e mezzo di durata.
Non posso dire che non mi sia piaciuto, l'ho trovato originale nella sua assurdità, i personaggi esagerati, le situazioni più grottesche che mai (penso all'infermiera che si fa chiudere nella cassa da morto senza rendersi conto fino all'ultimo di quello che le stava accadendo), tanto quasi come alcune situazioni dei film di Tarantino o dei fratelli Cohen.
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Ho visto il film ieri. Non sono una critica cinematografica, quindi il mio giudizio sarà quello di una persona normale che è andata a vedere un film "anormale", ma quando è finito mi sono fatta delle grandi risate, perchè è tutto così assurdo, paradossale, che la risata finale nasce da dentro, primo perchè non si hanno spiegazioni per quello che si è visto, secondo perchè ci si libera di una certa tensione accumulata durante l'ora e mezzo di durata.
Non posso dire che non mi sia piaciuto, l'ho trovato originale nella sua assurdità, i personaggi esagerati, le situazioni più grottesche che mai (penso all'infermiera che si fa chiudere nella cassa da morto senza rendersi conto fino all'ultimo di quello che le stava accadendo), tanto quasi come alcune situazioni dei film di Tarantino o dei fratelli Cohen. Sicuramente non si può raccontare, perchè non si riuscirebbe a decrivere le atmosfere surreali, senza musica, bianche e nere, nevose, tragicomiche, direi che questo film va solo visto, nel bene e nel male!
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nalipa
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mercoledì 27 aprile 2011
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per vivere o
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sopravvivere non occorre, nel modo più assoluto, prendersi troppo sul serio....e perché no! Anche la morte, dal momento che non la conosciamo, non dobbiamo per forza, o per paura ...di questa sconosciuta...prenderla ..., troppo....sul serio....specie in quanto si tratta di morti "scelte come soluzione"...quindi non serie?!....Forse.
Mi é sembrato un po' questo, in parte il signifato di questo film con un cast di ottime facce appartenenti ad ottimi attori. Certo qui si parla di persone...un tantinello eccentriche che credono di poter scegliere la morte e quindi porre fine alle loro vite grame, credono ...poveri illusi..... perché qualcosa non va per il verso giusto e succedo un gran pasticcio.
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sopravvivere non occorre, nel modo più assoluto, prendersi troppo sul serio....e perché no! Anche la morte, dal momento che non la conosciamo, non dobbiamo per forza, o per paura ...di questa sconosciuta...prenderla ..., troppo....sul serio....specie in quanto si tratta di morti "scelte come soluzione"...quindi non serie?!....Forse.
Mi é sembrato un po' questo, in parte il signifato di questo film con un cast di ottime facce appartenenti ad ottimi attori. Certo qui si parla di persone...un tantinello eccentriche che credono di poter scegliere la morte e quindi porre fine alle loro vite grame, credono ...poveri illusi..... perché qualcosa non va per il verso giusto e succedo un gran pasticcio.
Comunque anche se bizzarro e..grottesco offre ottimi spunti di riflessione.
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disincantato83
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venerdì 17 giugno 2011
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i diritti non riconosciuti
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Dovrebbe essere più che evidente, a una persona razionale, il diritto di disporre della PROPRIA vita. Non riconosciuto (come del resto tanti altri) dalla nostra "civiltà" ancora molto barbarica e poco civile. Una civiltà rimasta abbarbicata a superstiz... pardon, fedi, che null'altro rispecchiano dal primitivo terrore per l'ignoto, che si cerca di vincere inventandosi una spiegazione (ovviamente indimostrabile, e perciò da "credere e basta") a ciò che non si conosce.
Certo: ognuno è libero di confortarsi come meglio crede. Ma è giusto IMPORRE tali forme di "consolazione" agli altri? Dovrebbe essere una domanda retorica.
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Dovrebbe essere più che evidente, a una persona razionale, il diritto di disporre della PROPRIA vita. Non riconosciuto (come del resto tanti altri) dalla nostra "civiltà" ancora molto barbarica e poco civile. Una civiltà rimasta abbarbicata a superstiz... pardon, fedi, che null'altro rispecchiano dal primitivo terrore per l'ignoto, che si cerca di vincere inventandosi una spiegazione (ovviamente indimostrabile, e perciò da "credere e basta") a ciò che non si conosce.
Certo: ognuno è libero di confortarsi come meglio crede. Ma è giusto IMPORRE tali forme di "consolazione" agli altri? Dovrebbe essere una domanda retorica. Tuttavia per la Santa Inquisizione non lo era. E non è stato, purtroppo, il solo né l'ultimo caso in cui è stato valicato il labile confine tra irrazionalità e prevaricazione: dal credere ciecamente, in maniera non logica e non motivata, in qualcosa, al pretendere d'imporlo con la forza, il passo è breve. Così, chi crede che un certo Dio (di cui non si conosce né il numero di telefono, né l'indirizzo -neanche di posta elettronica- né altro di documentato e dimostrabile) ci abbia assegnato questa vita come un compito da portare a termine, dal quale non si ha il diritto di esimersi, pretende che anche chi non ci crede debba essere sottoposto a questa regola. Qualcuno sa trovare, per definire ciò, parole diverse da "fondamentalismo" "fanatismo religioso" "talebani cattolici" (che, come quelli islamici, fondano la propria ottusa prepotenza sull'autorità statale)?
Nessuno nega che la convivenza sociale presupponga delle regole coercitive. Proprio questo distingue il barbaro, l'uomo-bestia, dall'uomo evoluto. Ma affinché sia davvero così, le regole devono rendere ogni individuo libero nella massima misura in cui può esserlo senza intaccare la libertà altrui. Si potrebbero fare, al riguardo, mille esempi, e da molti potrebbe venir fuori che tante regole vigenti non fanno altro, invece, che ampliare ingiustificatamente la "libertà" di alcuni, soffocando quella altrui (e naturalmente, una libertà sopraffatoria non merita questo nome, in quanto io godo una VERA libertà solo quando l'altro è altrettanto libero). Per restare in tema: partendo dal diritto alla vita -che costituisce una libertà inalienabile di tutti- a rigor di logica, appare evidente che, se il divieto di omicidio è giustamente volto a tutelare tale diritto (impedendo che uno impedisca ad altri di goderne), non altrettanto si può dire per il divieto di suicidio, atto con il quale uno non intacca la sfera di nessuno, viceversa tale divieto intacca la propria. Non c'è un vero diritto alla vita, se non comprende quello alla morte.
Il film meriterebbe 5 stelle per l'interesse del tema che tratta, e una per come lo tratta, in quanto non contiene alcuna coraggiosa critica contro il bigottismo confessionale delle attuali legislazioni. Anzi, finisce per dare l'impressione di condividere lo sdegno nei confronti del medico della clinica: degli abitanti del villaggio non si disapprovano le intenzioni, ma soltanto i metodi, cioè il fatto che essi attentino a loro volta alla vita (in tal caso altrui, non propria, ma tanto non fa differenza), di cui viene quindi ribadita, in sostanza, la sacralità intangibile, la non-liceità del disporne. A ciò contribuisce anche il tratteggio, piuttosto caricaturale, dei ricoverati, che naturalmente vengono dipinti come dei deviati, esaltati ecc. Come per far passare il messaggio che uno NON PUò, essendo perfettamente sano di mente, e senza avere alcun disturbo psichico (e perfino senza alcuna di quelle malattie terminali che sembrano condizione indispensabile per poter soltanto dibattere del diritto a farla finita), averle semplicemente piene della dura lotta quotidiana che è la vita, e perciò aver lucidamente e consapevolmente deciso di ritirarsene, senza con ciò nuocere a nessuno.
Mi piacerebbe, non tanto suicidarmi, quanto farmi ibernare, e ripassare tra alcuni secoli (facciamo millenni...) per vedere se nel frattempo l'umanità sarà uscita dalle grotte e avrà smesso di prostrarsi e pregare i fulmini, e sarà diventata un po' più razionale e "sapiens", smettendo di impedire ai propri simili di esercitare i propri più basilari diritti.
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pipay
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giovedì 3 marzo 2011
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Innanzitutto una premessa: gli ingredienti per fare un buon film cerano tutti. Non può sfuggire, tanto per cominciare, l’originalità con cui è trattato il tema della morte, ovvero il desiderio di porre fine alla propria vita commissionando ad altri, dietro pagamento, il “proprio suicidio”. A questo macabro scopo dovrebbe servire una clinica specializzata, situata in mezzo a un bosco, su un’altura appartata. L’edificio è immenso, simile a un castello, dall’aspetto austero e sinistro. Bislacchi e pieni di complessi sono i clienti, che si rendono protagonisti di scene grottesche e al limite del reale. Ma i loro propositi, di conseguire un trapasso consapevole e ambito, ma anche discreto e appartato, vengono stravolti da una serie di circostanze imprevedibili e di omicidi a catena.
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Innanzitutto una premessa: gli ingredienti per fare un buon film cerano tutti. Non può sfuggire, tanto per cominciare, l’originalità con cui è trattato il tema della morte, ovvero il desiderio di porre fine alla propria vita commissionando ad altri, dietro pagamento, il “proprio suicidio”. A questo macabro scopo dovrebbe servire una clinica specializzata, situata in mezzo a un bosco, su un’altura appartata. L’edificio è immenso, simile a un castello, dall’aspetto austero e sinistro. Bislacchi e pieni di complessi sono i clienti, che si rendono protagonisti di scene grottesche e al limite del reale. Ma i loro propositi, di conseguire un trapasso consapevole e ambito, ma anche discreto e appartato, vengono stravolti da una serie di circostanze imprevedibili e di omicidi a catena. La loro vita, quella vita che a loro sembrava un fardello inutile e senza importanza, da eliminare senza tanti rimpianti, ma in modo programmato, viene messa in pericolo senza più possibilità di controllo. E il disegno della morte, della propria morte, attesa, inseguita e quasi sognata, viene brutalmente sconvolto. La situazione di ognuno, così, paradossalmente, si capovolge in un caparbio e disperato tentativo di restare in vita, anche a costo di mettersi l’uno contro l’altro. E nella clinica, nelle sue stanze e all’esterno delle sue mura comincerà a regnare il caos completo. Il regista belga Olias Barco, che ha anche scritto la sceneggiatura, non ha un lungo curriculum ed ha optato, tra l’altro, per l’abolizione del colore a favore di un bianconero che, in verità è uno dei pochi ingredienti validi del film. Anche certi esterni, con la campagna e gli alberi innevati, sono indubbiamente suggestivi. Il film, insomma, avrebbe avuto parecchi elementi per diventare un lavoro ben fatto. Invece niente di tutto questo. Cosa voleva comunicarci chi ha ideato questa storia? Che nonostante tutto si rimane sempre ancorati alla vita, costi quel che costi, perché la morte non fa piacere a nessuno? Ebbene, qualunque fosse l’intento iniziale, è miseramente naufragato in un coacervo di personaggi strampalati, di situazioni assurde, irrisolte e inspiegabili. Il tutto aggravato da un montaggio poco controllato, quasi caotico e fuorviante. Tutto si è perso tra le pieghe di un progetto cinematografico che si distrugge da solo, che comunque rimane abbozzato, irrisolto e anche piuttosto noioso. Il film ha ricevuto il Marco Aurelio d’oro al recente Festival di Roma. Riconoscimento su cui si potrebbe discutere. Il lavoro rimane infatti una storia sgangherata, ed è un vero peccato perché aveva, ripeto, potenzialità non indifferenti per diventare persino un capolavoro. Ma poteva essere scritto e diretto meglio. Probabilmente uscirà presto dalle sale cinematografiche.
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vanessa zarastro
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venerdì 15 novembre 2013
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omicidio assistito??
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Un tema interessante, delicato ma importante quello del suicidio assistito, o dell’eutanasia, che in alcuni paesi è ammesso. In fondo il film di Olias Barco ha un risvolto moralista. Nella clinica svizzera nulla va come dovrebbe andare, tutto va storto e, nel finale, il civilissimo dott. Kruger sembra pentirsi del suo stesso mestiere; molti dei pazienti che volevano morire, invece, uccidono mentre altri invece riscoprono il piacere della vita. In questa farsa macabra realizzata in bianco e nero con un budget ridotto, sembrerebbe sostenuta la tesi che solo i pazzi vogliano davvero morire.
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domenico a
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martedì 25 gennaio 2011
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un bunuel di altra epoca
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Abbiamo visto “ Kill me please – la morte dolce “ diretto da Olias Barco.
Dimenticate il titolo ( non perché sia brutto ma è forviante ), dimenticate le pubblicità o le brochure della produzione. Non è un film sulla dolce morte o almeno questa è presa da pretesto e da contesto per raccontare altro. Questo moderno regista che ha vari debiti creativi e narrativi col passato e il presente ( dal cinema Kammerspiel, dei tempi della Repubblica di Weimar, quello di Friedrich Wilhelm Murnau e del romeno emigrato in Germania Lupu Pick; ma anche dal cinema del maestro spagnolo Luis Bunuel; o anche, più modestamente, assai vicino ai film di umorismo nero di Benoît Délépine & Gustave Kervern ), ha costruito un film originale, anche in parte imprevedibile, ironico e nero, ma tuttavia anche se accettabile “ il colpo di scena “ della seconda parte ci sembra più un’idea originale e creativa che non una costruzione coerente del dramma.
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Abbiamo visto “ Kill me please – la morte dolce “ diretto da Olias Barco.
Dimenticate il titolo ( non perché sia brutto ma è forviante ), dimenticate le pubblicità o le brochure della produzione. Non è un film sulla dolce morte o almeno questa è presa da pretesto e da contesto per raccontare altro. Questo moderno regista che ha vari debiti creativi e narrativi col passato e il presente ( dal cinema Kammerspiel, dei tempi della Repubblica di Weimar, quello di Friedrich Wilhelm Murnau e del romeno emigrato in Germania Lupu Pick; ma anche dal cinema del maestro spagnolo Luis Bunuel; o anche, più modestamente, assai vicino ai film di umorismo nero di Benoît Délépine & Gustave Kervern ), ha costruito un film originale, anche in parte imprevedibile, ironico e nero, ma tuttavia anche se accettabile “ il colpo di scena “ della seconda parte ci sembra più un’idea originale e creativa che non una costruzione coerente del dramma. Abbiamo accennato al
Kammerspiel, perché il film privilegia l'analisi intimistica e psicologica dei soggetti narrati e li segue come se fosse sotto una lente d'ingrandimento, li segue con un bianco e nero non intellettualistico o di rimando cinematografico, un bianco e nero distaccato e algido, quasi da non riconciliato; ma la componente grottesca e surreale ci rimanda anche al Bunuel della “ Via Lattea “ o di “ Belle de Jour “ ( lì, il grottesco era rivolto al sesso, qui alla morte – ma le due cose non sono compatibili ? ) . Riprendendo il pensiero iniziale, diciamo che il film non è sulla dolce morte, provocatoriamente potremmo dire che è solo un pretesto l’eutanasia, l’autore ci vuole raccontare della difficoltà del vivere e dell’impotenza nei confronti delle complicazioni della vita. Un mondo che alle prime difficoltà si arrende e che se ha paura di soffrire figuriamoci se non ha paura di una morte cruenta e quindi sceglie di andare in un elegante e crepuscolare castello nella campagna innevata e si lascia morire chi con champagne e splendida ragazzetta sopra, chi chiede di avere come ultimo pasto le stesse portate del giorno del matrimonio e chi vorrebbe cantare davanti ad un pubblico “ La Marsigliese “. Quindi non devono essere particolarmente depressi se cercano il sesso o il cibo o stare al centro dell’attenzione prima della fine ( Lo sappiamo, Marco Ferreri non condividerebbe questa analisi e ci sbatterebbe contro “ La grande Bouffe “ ).
“ Kill me please – la morte dolce “ è il secondo film del regista francese Olias Barco ( il suo primo si intitolava “ Snowboarder “ ( 2003 ) - Gaspard è appassionato di snowboard, vuole diventare un professionista. Anche perché ha bisogno di sensazioni nuove e forti ed è in continua sfida con i propri limiti ), è andato in Belgio a girarlo con pochi soldi, con una piccola troupe e in poche settimana e molte difficoltà perché l’idea della morte è un argomento completamente rimosso da almeno una cinquantina d’anni in Occidente ( pensate al nostro Premier e a alla lotta che ha intrapreso con questo tabù passando tristemente – peggio del Don Giovanni – da una diciassettenne a una ventenne ) e anche il Cinema – arte nonostante tutto coraggiosa – ha lasciato poche tracce sull’argomento, “ Harold e Maud “, “ Kiss me “, “ Non è mai troppo tardi “, “ La mia vita senza me “ e per ultimo il film di Eastwood “ Hereafter “, realizzando un ottimo film, piccolo, ironico, cattivo, ma non perfetto, forse un po’ traditore con se stesso, un po’ egocentrico in una storia che pretendeva assoluta ‘ serietà ‘ nel messaggio.
Il Dr Kruger gestisce – anche grazie ad un finanziamento statale – in Belgio un castello in cui si pratica la dolce morte; secondo quello che dice e fa vuole dare un senso al suicidio. Ha creato una struttura terapeutica dove chiunque sia convinto del tutto può ricevere la morte come più preferisce. Kruger è separato dalla moglie, sta per affrontare un divorzio pesante, sta subendo un’indagine dalla finanza, la popolazione circostante è completamente ostile al suo lavoro e passa il tempo tra convincere persone a non morire e a rimboccare le coperte a chi è appena morto, eppure – nella sua nevrotica flemma – non perde mai la pazienza o ha scatti di qualsiasi genere , l’unico sfogo sono le sue corse quotidiane nella neve del bosco circostante il castello.
Nella sua clinica esclusiva giungono i personaggi più strambi, una cantante lirica che ha avuto il cancro e non può più cantare, un manager canadese che è stanco di perdere sangue dal naso continuamente perché da anni ha emorragie al cervello, un uomo che ha perso a poker tutto il danaro e anche la sua amata, un ricco erede lussemburghese con istinti repressi, una bella ragazza che ha bisogno di punture costanti ed è autolesionista, un vecchio cabarettista berlinese dalla voce rovinata e un depresso che vuole morire simulando una battaglia sul genere Vietnam. Dopo essersi consultati con Kruger sulle motivazioni che li spingono a morire ciascuno di loro ha diritto a esprimere un’ultima richiesta. Tutto procede con calma e ordine fino a quando scoppia prima un incendio nella cucina del castello e poi qualcuno inizia a sparare contro medico, infermieri e pazienti scatenando nei pazienti stessi quegli istinti naturali inespressi che potrebbero far cambiare idea sulla dolce morte. Ed anche il dottor Kruger.
Come abbiamo già detto, un film fuori dagli standard, con un cast perfetto, una regia sicura e senza orpelli. Ha ottenuto il Premio Marco Aurelio d'oro nell’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma 2010.
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(di aterio)
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guidobaldo maria riccardelli
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martedì 19 aprile 2016
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lo spreco di un soggetto accattivante
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L'idea di partenza aveva potenzialità, potenzialità che avrebbero potuto trovare concretizzazione in declinazioni svariate, dal drammatico e serioso, al grottesco e farsesco, fino ad arrivare ad un intrigo a tinte gialle.
Nella pratica si fatica ad individuare una direzione compiuta, procedendo a singhiozzo, tanto su valli impegnate e poco convinte, quanto su pianure di umorismo nero poco riuscito e divertente, con un insieme di personaggi alla fine della fiera poco definiti, macchiette appena tratteggiate e poco empatiche.
Si cerca, discretamente qui, di roveresciare le consetudini di genere, svuotando il senso di sopravvivenza, per alcuni, e facendolo riscoprire, per altri; anche qui, però, emergono tutti i limiti della pellicola, concedendo un minimo spazio al personaggio di gran lunga più interessante ed importante (la giovane Julia) a favore di un epilogo non troppo logico nè ragionato.
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L'idea di partenza aveva potenzialità, potenzialità che avrebbero potuto trovare concretizzazione in declinazioni svariate, dal drammatico e serioso, al grottesco e farsesco, fino ad arrivare ad un intrigo a tinte gialle.
Nella pratica si fatica ad individuare una direzione compiuta, procedendo a singhiozzo, tanto su valli impegnate e poco convinte, quanto su pianure di umorismo nero poco riuscito e divertente, con un insieme di personaggi alla fine della fiera poco definiti, macchiette appena tratteggiate e poco empatiche.
Si cerca, discretamente qui, di roveresciare le consetudini di genere, svuotando il senso di sopravvivenza, per alcuni, e facendolo riscoprire, per altri; anche qui, però, emergono tutti i limiti della pellicola, concedendo un minimo spazio al personaggio di gran lunga più interessante ed importante (la giovane Julia) a favore di un epilogo non troppo logico nè ragionato.
Va dunque catalogato tra gli esperimenti falliti, pur proponendo aspetti interessanti, quindi degni di visione.
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moniquette
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domenica 30 gennaio 2011
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un piccolo noir
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La morte indotta da una mano estranea fa' porre quesioni di ordine etico; qui la morte arriva da chi definisce gli operatori della clinica "assassini" e poi... spara!
Un film che mette in luce con scioccante surrealismo i controsensi delle ideologie che puntano il dito contro l'eutanasia e poi uccidono in nome di altri "ideali" e che cerca di spiegare con una teoria di stampo funzionalista il ruolo "sociale" di queste cliniche della dolce morte.
Il film usa personaggi grotteschi per rendere più digeribile un contenuto altrimenti indigesto, in cui forse, anche noi arrivati lì per vedere il film, non vogliamo arrivare ad immedesimarci.
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La morte indotta da una mano estranea fa' porre quesioni di ordine etico; qui la morte arriva da chi definisce gli operatori della clinica "assassini" e poi... spara!
Un film che mette in luce con scioccante surrealismo i controsensi delle ideologie che puntano il dito contro l'eutanasia e poi uccidono in nome di altri "ideali" e che cerca di spiegare con una teoria di stampo funzionalista il ruolo "sociale" di queste cliniche della dolce morte.
Il film usa personaggi grotteschi per rendere più digeribile un contenuto altrimenti indigesto, in cui forse, anche noi arrivati lì per vedere il film, non vogliamo arrivare ad immedesimarci.
La storia si intreccia sulle caratterizzazioni e le situazioni portati all'estremo.
Con una colonna sonora più groove sarebbe potuto essere un piccolo noir alla Tarantino.
Invece l'atmosfera è ovattata dalla neve, movimentata solo dai colpi dei fucili e dalla scacchiera di un pavimenti psichedelico.
La fotografia e i costumi si fanno ricordare.
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martedì 9 novembre 2010
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grottesco, paradossale, tragicomico
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Il dottor Kruger (Aurelien Recoing) è il direttore di una clinica in cui si pratica il suicidio assistito: un sorso di veleno è offerto come viatico per il sonno eterno per chi ha deciso di farla finita, salvo accertarsi prima dell'effettiva volontà di morire del paziente. Già frequentata da personaggi eccentrici ed un po' svitati, la clinica diverrà oggetto di ostilità da parte degli abitanti della zona, innescando così un gioco al massacro in cui finiranno per morire praticamente tutti.
Qualunque tentativo di riassumere banalmente in termini di trama questa commedia nera del poco noto regista belga Olias Barco è inevitabilmente riduttivo: il suo valore sta nella galleria di pazienti bizzarri e strampalati che popolano la clinica, chi vuole morire durante un ultimo amplesso, chi cantando la Marsigliese, chi fingendosi un soldato in Vietnam, chi in realtà non vuole morire affatto; nelle atmosfere assurde e grottesche, nella paradossalità delle situazioni e dei dialoghi, nel finale tragicomico dal sapore apocalittico; nel fascino di una fotografia in bianco e nero un po' retrò; nello sguardo ironico (il discorso di Kruger sul costo sociale del suicidio, il suo interesse per le eredità dei pazienti) e nei momenti più esilaranti (il tale che racconta di aver perso la moglie a poker!).
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Il dottor Kruger (Aurelien Recoing) è il direttore di una clinica in cui si pratica il suicidio assistito: un sorso di veleno è offerto come viatico per il sonno eterno per chi ha deciso di farla finita, salvo accertarsi prima dell'effettiva volontà di morire del paziente. Già frequentata da personaggi eccentrici ed un po' svitati, la clinica diverrà oggetto di ostilità da parte degli abitanti della zona, innescando così un gioco al massacro in cui finiranno per morire praticamente tutti.
Qualunque tentativo di riassumere banalmente in termini di trama questa commedia nera del poco noto regista belga Olias Barco è inevitabilmente riduttivo: il suo valore sta nella galleria di pazienti bizzarri e strampalati che popolano la clinica, chi vuole morire durante un ultimo amplesso, chi cantando la Marsigliese, chi fingendosi un soldato in Vietnam, chi in realtà non vuole morire affatto; nelle atmosfere assurde e grottesche, nella paradossalità delle situazioni e dei dialoghi, nel finale tragicomico dal sapore apocalittico; nel fascino di una fotografia in bianco e nero un po' retrò; nello sguardo ironico (il discorso di Kruger sul costo sociale del suicidio, il suo interesse per le eredità dei pazienti) e nei momenti più esilaranti (il tale che racconta di aver perso la moglie a poker!). Fra le righe, la critica alla superficialità con cui talvolta si sposano convinzioni senza indagarne fino in fondo le conseguenze (il mito della "dolce morte") ed il ritratto di un'umanità squinternata, di cui, mostrandoci le stravaganze nella morte, Barco ci narra indirettamente le manie e le nevrosi in vita. Marco Aurelio d'oro al Festival di Roma.
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