Milano calibro 9

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Un film di Fernando Di Leo. Con Mario Adorf, Philippe Leroy, Barbara Bouchet, Frank Wolff.
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Poliziesco, Ratings: Kids+16, durata 101 min. - Italia 1972. MYMONETRO Milano calibro 9 * * * - - valutazione media: 3,12 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

sigaretta che lentamente si consuma Valutazione 5 stelle su cinque

di Davide Pulici


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martedì 16 novembre 2004

L’ultima immagine di Milano calibro 9 è una sigaretta che lentamente si consuma. Una sintesi perfetta dello spirito di tutto il film. I personaggi, quelli “buoni” e quelli “cattivi”, o meglio: quelli all’apparenza “buoni” e quelli sicuramente cattivi, si sono consumati pian piano, come quella sigaretta, nel corso della vicenda. E’ un processo che parte lento e del quale lo spettatore non si rende quasi conto, ma che man mano che avanza si fa sensibile fino a culminare in un vortice dal quale niente e nessuno viene risparmiato. La cenere è quel che resta, un laico pulvis et umbra sumus la morale. Nel primo capitolo della “Trilogia del Milieu” l’incedere progressivo e ineluttabile del destino è evidenza non solo concettuale: sciaguratamente nelle versioni del film oggi divulgate non ne è rimasta traccia, ma la copia cinematografica originale, con la sovrimpressione dei giorni e delle ore, insisteva, scadendola, su questa marcia di cose e uomini verso il nulla (di Leo scriverà anni dopo un romanzo poliziesco utilizzando il titolo Da lunedì a lunedì, che rimanda appunto all’arco temporale entro cui si svolge la parabola di Ugo Piazza in Milano calibro 9). Moschin è segnato fin dal momento in cui, appena fuori da San Vittore, quell’ignota sagoma rossastra ne spia i movimenti - la macchia di colore prevarica le tinte autunnali che dominano nel resto della pellicola, è un elemento estraneo e minaccioso inserito su consiglio dello scenografo-costumista Francesco Cuppini. Ma di Leo è astuto a non lasciare il tempo di riflettere e a depistare con la roboante entrata in scena dei vecchi compari. Eppure, di quando in quando, quel filo pendente riappare, discreto, ai margini dell’azione, svelandosi finalmente per un cappio che qualcuno è andato man mano stringendo intorno al collo dello scaltro Ugo Piazza e che lo fregherà, per un beffardo contrappasso, nella più ingloriosa delle disfatte. Gli estremi fotogrammi di pellicola testimoniano come la categoria del noir, di questo noir, sia straordinario strumento d’indagine filosofica, dopo che sociologica e antropologica. Nel precipitare finale di tutto, il gioco delle apparenze su cui si è retto il film - su cui si regge la vita – collassa, trasformando le implicazioni scontate nel loro esatto contrario: la furbizia in fesseria, l’amore in tradimento bieco, l’ostilità in rispetto. Che poi questo non abbia in Milano calibro 9 la freddezza del teorema o la pesantezza della dimostrazione, ma raggiunga “un lirismo criminale che ha riscontro solo in Huston Melville e Nick Ray” lo si deve solo a un maestro di cinema che è al contempo un ottimo conoscitore delle speci umane (due cose che non corrono necessariamente insieme). Con idee molto chiare, in partenza: le sceneggiature della trilogia - e quella di Milano calibro 9 in particolare - sono già i film, pochissime gli aggiustamenti in corsa e insignificanti, come in questo caso la figura dell’“Americano” mutata dall’originario “Foggiano”. Ne discende, fondamentale, la scelta degli attori, intelligente sia per i ruoli chiave che per quelli minori, dove il ritratto icastico eccelle sempre, anche con pochissimi tocchi. Gastone Moschin, per la prima volta sfruttato al di fuori del genere comico, si rivela un sensibile interprete, perfetto per la maschera granitica (un po’ da duro un po’ da buono) di Ugo Piazza. Un uomo del “Nord”, freddo, calcolatore, imprevedibile, con un’unica debolezza: quella, appunto, in cui il destino farà breccia. Adorf è il suo controcanto mediterraneo, la forza in movimento, bruta e irriflessa, tanto quanto Ugo ne incarna la potenza statica. Al di là delle considerazioni sulla giustezza dell’ethos criminale del tipo che di Leo rappresenta in Rocco - primo di una mirabile galleria di “iene” che si alterneranno sulla scena dei suoi noir - e dell’istrionismo di Adorf, il personaggio “spacca” come nessun altro in Milano ca libro 9, tant’è che di Leo gli lascia il grande assolo dell’incipit e chiude il film su di lui, smargiasso ottuso e feroce magnificamente ribaltato nell’inflessibile custode dell’onore e di quel codice morale che non può permettere di lasciare invendicata la morte di un “giusto”. E a seguire: la gran messa in luce della Bouchet, della quale il regista colse nello sguardo, appena conosciutala, le cattiverie che gli servivano, il grande Chino di Philippe Leroy, il vecchio, nostalgico boss cieco di Ivo Garrani, Standler, i commissari Wolff e Pistilli (sulla cui opposizione e sulla cui omogeneità con il resto del film si discute e si continuerà a discutere) i picciotti colti ciascuno in un vezzo, in un dialogo, in un tic che li fa veri e pregnanti, Milano stessa che entra come personaggio nella storia. E di Leo, come autore, in quella del cinema.

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