
Un enfant prodige nichilista e visionario.
di Mauro Gervasini
David Fincher (Denver, 28 agosto 1962) è il tipico enfant prodige. Appena maggiorenne, viene accolto come tirocinante alla ILM, la Industrial Light & Magic di George Lucas, e lavora agli effetti visivi di Il ritorno dello Jedi (1983). Mica male come apprendistato. Poi passa agli spot e ai videoclip. Marche tipo Nike e band come i Rolling Stones, per i quali firma nel tempo "Like a Rolling Stone", starring Patricia Arquette, e "Anybody Seen My Baby?" con Angelina Jolie. Nel 1986 fonda insieme a un altro regista di estrazione pubblicitaria, Dominic Sena, una casa di produzione indipendente specializzata in commercials ma che sogna ovviamente il grande schermo. All'inizio degli anni '90 i due amici sono pronti. David si inserisce nella saga di Alien e dirige il capitolo numero 3 (anzi, per essere precisi la versione "al cubo"), mentre Dominic si dà al thriller e gira Kalifornia (1993) con Brad Pitt e Juliette Lewis. Alien 3 quasi contraddice i precedenti, giganteschi episodi di Ridley Scott e James Cameron. Sigourney Weaver, calva come Giovanna D'Arco prima di bruciare, ingaggia con l'alieno un duello mistico e si ritrova incinta del mostro. I produttori non apprezzano e negano al regista il final cut, ora integrato nella versione in dvd, mentre il pubblico diserta le sale, o quasi. Nessuno però nega che il giovane cineasta abbia talento, e bastano tre anni per dimostrarlo.
Nel 1995 esce Seven, ed è un successo pazzesco. Sceneggiatura di Andrew Kevin Walker ma immaginario tutto fincheriano, il quale trova la cifra stilistica e visionaria degli anni '90 alternativa a quella di Quentin Tarantino. Mentre il secondo non disdegna l'affabulazione, il gioco, il pastiche linguistico, il primo cerca di trascrivere il nichilismo cupo anche tipico della musica di allora, da Kurt Cobain a Jeff Buckley, senza avere paura di sporcarsi le mani con forme di espressione di moda, come appunto i videoclip e la loro capacità di sintesi.
Il rischio, dopo un'opera simile, è quello di ripetersi all'infinito e invece il successivo The Game – Nessuna regola (1997) contraddice qualunque previsione. Il film è un sofisticato congegno di scatole cinesi che incastrano un uomo, Michael Douglas, continuamente costretto a salvarsi la pelle da un "gioco" di cui ignora origine e scopi. Deludenti risultati al botteghino e inizio di una nuova avventura ancora. Sempre attento a cogliere lo spirito nervoso del tempo, Fincher incontra Chuck Palahniuk e mette in scena il suo best seller Fight Club (1999), destinato a diventare un titolo di culto. Ma il risultato, almeno per chi scrive, non è all'altezza né della sua fama né del libro, che sceglieva una sorta di "giusta distanza" nei confronti di una materia narrativa osservata con empirica freddezza. Uno yuppie, Edward Norton, viene travolto dal tormentato magnetismo del Lucignolo Brad Pitt che lo converte alla religione della forza bruta liberatoria facendolo partecipare a pestaggi di gruppo. A prescindere da un epilogo confuso, Fight Club è velleitario e cade in tutte le trappole che la fascinazione della violenza dissemina sul proprio cammino, a partire dall'estasi estetica fascisteggiante.
Nel 2002 Fincher accetta un lavoro su commissione; "per" e "con" Jodie Foster realizza Panic Room. Echeggiano tematiche fobiche tipiche dell'immediato post 11 settembre ma l'impressione è che il regista sia rimasto incastrato nel concept anni 90 che egli stesso ha imposto. Con Zodiac (2007) cambia tutto. Come a voler fare i conti prima di tutto con se stesso, il cineasta ripensa questa volta il thriller classico raccontando una storia vera, quella dell'ossessiva ricerca negli anni del serial killer californiano Zodiac, senza che vi siano né finale né catarsi "come da copione". Un'operazione coraggiosa e antispettacolare che piace pochissimo al pubblico. Poi si lascia irretire da un blockbuster melodrammatico, Il curioso caso di Benjamin Button, storia di un tizio, Brad Pitt, nato vecchio e morto giovane. Qui, a sorpresa, il pubblico accorre e i premi scendono a pioggia, ma noi siamo d'accordo con Caparezza: visto al contrario è un film come tutti gli altri.
Ultimo scorcio di carriera. Da una grandiosa sceneggiatura di Aaron Sorkin, Fincher realizza The Social Network (2010), storia dell'inventore di Facebook Mark Zuckerberg. Quello che poteva essere sulla carta un banale biopic si trasforma in una riflessione molto amara e profonda sull'incidenza sociale dei new media. Al centro della scena un uomo leonardesco con 500 milioni di "amici" sulla bacheca di FB, ma in realtà solo come un cane. Millennium: Uomini che odiano le donne, nelle sale italiane dal 3 febbraio, nuovo titolo su commissione, è invece un ulteriore impressionante step della poetica fincheriana. Stieg Larsson è quasi un mero pretesto, mentre Mikael (Daniel Craig) e soprattutto Lisbeth (Rooney Mara) diventano i grimaldelli attraverso i quali indagare il perpetrarsi del male secondo percorsi estetici che adeguano il thriller alle fobie del nuovo millennio.