Happy End

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Haneke e il crollo dei valori occidentali Valutazione 3 stelle su cinque

di Eugenio


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lunedì 2 aprile 2018

Ho sempre apprezzato il cinema di Haneke. Asciutto, lucido, intenso, capace di rappresentare con estrema salacità il crollo dei valori moderni, passati e presenti, le crisi che inevitabilmente portano a conseguenze ineluttabili sul destino di fragili vite, talvolta troppe ottuse per rendersi conto della loro precoce fine.
Il Nastro bianco, Niente da nascondere, Amour, questi alcuni recenti e famosi titoli. Temi, interpreti diversi, in comune sempre quella vita quotidiana, quella minaccia che sottende dentro l’essere umano pronta a esplodere e rivelare nefandezze e colpe immutate e immutabili.
Happy end, la recente “fatica” del cineasta austriaco, è forse più vicina a Niente da nascondere. L’inizio è similare: qualcuno col telefonino riprende in segreto la vita di qualcun altro. In questo caso, il mistero è presto svelato: si tratta di una delle giovani protagoniste della pellicola, avente come contesto la borghesia agiata di una famiglia di Calais, marcia fino al midollo in ogni suo esponente, ragazzina inclusa.
Con l’Iphone, la giovane smaliziata riprende in diretta la morte del criceto cui ha somministrato gli psicofarmaci della madre, depressa da tempo, che finirà in ospedale per overdose di medicinali, sotto lo sguardo assente del marito ora sposato con un’altra donna  e fratello di una ricca erede ( interepretato da Isabelle Huppert).
Attorno a una famiglia sventrata negli affetti e nella vita, si muovono immagini simboliche e pregne di significato come il crollo, all’inizio del film, di un muro di un cantiere ripreso da una telecamera di sorveglianza e la morte, per “incidente sul lavoro”, di un operaio.
L’emblema di un occidente allo sbando, incarnato nei valori di quell’Europa in totale abbandono, ben palesata dalla figura dell’anziano patriarca (un bravissimo Jean-Luis Trintignant), stanco di vivere, per la falsità dei suoi parenti, per la totale sfiducia di un mondo che ha fatto del nichilismo la sua onda di progresso, si specchia nei protagonisti di Happy end. Da un lato la ricca famiglia di Calais, con il padre di cui sopra, fedifrago e lontano per converso da ogni forma d’amore in quanto tale, il giovane rampollo fuori di testa, incapace di badare a se stesso (figuriamoci prendere in mano il patrimonio familiare) e dall’altro la voce dell’innocenza, quella della ragazzina, tuttavia anche lei smembrata da ogni valore e passiva interprete dei precetti del mondo che la circonda: le allusioni sessuali spinte su Social Network che palesano l’assoluta mancanza di cura del proprio corpo sono lo specchio entro cui riflette un’anima ancora incapace di spiccare il volo dal disincanto cinico, quello con cui vorrebbe accompagnare l’anziano “nonno” alla morte (e riprender quest’ultima col cellulare).
Insomma, Haneke dice tutto e niente in questo film. Fa riflettere brechtianamente lo spettatore con immagini caustiche dotandole di in un’ambientazione simbolica: Calais, città di confine,  città portuale, città di profughi in attesa di una partenza per una Eldorado promessa per la Gran Bretagna e oltre.
Ci parla di morti, distruzione, ossessione, della difficoltà che abbiamo oggi a guardar dentro noi stessi, dell’incomunicabilità con persone a noi care, dell’insano meccanismo di autodistruzione della solita borghesia ipocrita.
Insomma, carne al fuoco Happy End ne offre, la sceneggiatura è solida. Ma c’è un ma. Il film  non osa. Haneke rimane sulla superficie di un mondo patinato, algido e senza approfondire psicologicamente i suoi attori. Senza l’empatia calorosa di Amour, senza la crudezza nascosta de Il nastro bianco. Ed è un peccato. Perchè la freddezza in Happy end è la punta di un iceberg immenso, dura a sciogliersi, inscalfibile, come il cuore dello spettatore dubbioso ma consapevole di un film riuscito solo a metà.

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