olga di comite
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sabato 1 marzo 2008
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tra fratello e sorella non mettere il dito
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LA FAMIGLIA SAVAGE di Tamara Jenkins
con Laura Linney, Philip Seymour Hoffman, Philip Bosco.
Una famiglia media dai normali fallimenti, salvo forse il fatto che i suoi membri sono un tantino più avvertiti, perché si tratta di piccoli intellettuali o aspiranti tali. Un padre non amato che è stato distratto, dispotico e narciso (attore di varietà); una figlia che sogna di diventare drammaturga, ma che a circa quaranta anni non ha avuto la grande occasione. In più coltiva stancamente un rapporto clandestino del tipo “ti uso quando posso” sul versante maschile e “ti uso perché non ho altro” su quello femminile. E infine un fratello, professore all’università di Buffalo, che insegna storia del teatro e cerca di ultimare una biografia di Brecht alla quale tiene molto; intanto perde la donna della sua vita perché non si decide a sposarla.
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LA FAMIGLIA SAVAGE di Tamara Jenkins
con Laura Linney, Philip Seymour Hoffman, Philip Bosco.
Una famiglia media dai normali fallimenti, salvo forse il fatto che i suoi membri sono un tantino più avvertiti, perché si tratta di piccoli intellettuali o aspiranti tali. Un padre non amato che è stato distratto, dispotico e narciso (attore di varietà); una figlia che sogna di diventare drammaturga, ma che a circa quaranta anni non ha avuto la grande occasione. In più coltiva stancamente un rapporto clandestino del tipo “ti uso quando posso” sul versante maschile e “ti uso perché non ho altro” su quello femminile. E infine un fratello, professore all’università di Buffalo, che insegna storia del teatro e cerca di ultimare una biografia di Brecht alla quale tiene molto; intanto perde la donna della sua vita perché non si decide a sposarla. Persone insomma che all’ombra della creatività si sentono o sono sostanzialmente immature di fronte al vivere quotidiano e alle sue scelte. Succede che il padre anziano, il quale vive lontano dai figli, rimanga del tutto solo e avviato verso la non autosufficienza per l’avanzare della demenza senile. E’ il momento della verità: i fragili equilibri dei componenti la famiglia vengono allo scoperto. La libertà di ciascuno è messa a repentaglio da quest’uomo irascibile divenuto quasi estraneo, ora indifeso e bisognoso di aiuto. L’evento scatena confronti tra i figli, sensi di colpa vissuti con diversa sensibilità dal maschio e dalla femmina, liti e bilanci, piccole bugie dette a se stessi per non confessare profonde frustrazioni. Ciò non toglie che i fratelli siano affettivamente legati e sotterraneamente non lontanissimi dal padre per quei legami sottili, e spesso intricati, che caratterizzano i rapporti parentali più stretti. Rientrando nella categoria dell’anziano che viene a rompere la mia routine, a soffocare le mie grandi o piccole libertà, a propormi da vicino la disperante fisicità del decadimento, il contenuto del film potrebbe sembrare di quelli che provocano la fuga dal botteghino. Invece l’opera di Tamara Jenkins, proveniente dall’anteprima torinese del festival di Moretti, è condotta con humor malinconico e discreto, con la giusta amarezza senza eccessi, con un’indagine sottile di sentimenti e reazioni che rifiuta lo psicologismo didattico. Semplice e diretto, cattura con naturalezza e intelligenza cuore e mente dello spettatore. Accorta anche la resa di atmosfere dimesse, senza i segni eclatanti dello squallore, come gli interni casalinghi dei protagonisti o l’interno del luogo “dove si va a morire da soli” che ospiterà il padre. Ottima la prova del trio di attori: non saprei dire chi è il migliore perché sembrano in perfetta sintonia. Il padre è Philip Bosco, il figlio Philip Seymour Hoffman, noto come interprete di Truman Capote, la sorella è Laura Linney, candidata all’Oscar.
Peccato che queste opere, fuori dal grosso battage pubblicitario, siano distribuite poco e male; di alcune si perde proprio la traccia dopo averle viste citate in articoli scarni non certo sulle prime pagine; di altre, come questa, si ha una fugace visione per pochi giorni e in orari non praticabili da tutti gli appassionati di cinema.
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l'impiegata
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lunedì 18 febbraio 2008
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qui non siamo in america
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Nessun film più di questo si presta a dimostrare come la percezione dello spettatore sia enormemente influenzata dalla critica letta prima. Sinceramente: se non l'avessero scritto i critici, chi di noi (italiani, in primo luogo) si sarebbe sognato di definire "fallito, frustrato, nevrotico" il personaggio del fratello???
Insegna all'università (sputaci sopra: qui da noi si ammazzerebbe per una cattedra); scrive di ciò che l'appasiona, sperando nel successo ma senza mentire sui risultati; è cauto nell'assumersi l'impegno del matrimonio con una donna straniera (mentre l'anziano padre, addirittura, stipula contratti di non-coniugio) pur soffrendo per l'eventuale separazione e lasciando comunque, alla fine, aperta una possibilità; fa il suo dovere di figlio senza ipocrisie, chiamando le cose col loro nome e senza sensi di colpa nei confronti di un padre a cui sente di non dovere poi molto ("abbiamo fatto quel che era da fare, e più di quanto lui abbia mai fatto per noi").
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Nessun film più di questo si presta a dimostrare come la percezione dello spettatore sia enormemente influenzata dalla critica letta prima. Sinceramente: se non l'avessero scritto i critici, chi di noi (italiani, in primo luogo) si sarebbe sognato di definire "fallito, frustrato, nevrotico" il personaggio del fratello???
Insegna all'università (sputaci sopra: qui da noi si ammazzerebbe per una cattedra); scrive di ciò che l'appasiona, sperando nel successo ma senza mentire sui risultati; è cauto nell'assumersi l'impegno del matrimonio con una donna straniera (mentre l'anziano padre, addirittura, stipula contratti di non-coniugio) pur soffrendo per l'eventuale separazione e lasciando comunque, alla fine, aperta una possibilità; fa il suo dovere di figlio senza ipocrisie, chiamando le cose col loro nome e senza sensi di colpa nei confronti di un padre a cui sente di non dovere poi molto ("abbiamo fatto quel che era da fare, e più di quanto lui abbia mai fatto per noi").
Questa sarà magari una persona "nevrotica e frustrata" per gli americani, ma in un'Italia di disoccupazione intellettuale, renitenza al matrimonio anche con la vicina di casa, ipocritissima affezione a fantomatici "valori della famiglia".... mi pare un modello di coerenza e saggezza!
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(di everyone)
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bob
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venerdì 15 febbraio 2008
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la tazzina dove la metto? dov'era prima!
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Il Cinema Indipendente Americano vive oggi un buon momento. Ne e’ un esempio “La famiglia Savage”, scritto e diretto da Tamara Jenkins, che dopo l'ottima accoglienza ricevuta all’ultimo Festival di Torino e' da qualche giorno sugli schermi di (quasi) tutta Italia. Si tratta di un piccolo film, delicato, vero. Racconta, con i giusti toni sommessi, la storia agrodolce di due fratelli che si ritrovono a dover gestire l’improvvisa demenza senile dell’anziano (poco amato) padre. Fatto che li portera' nuovamente ad avvicinarsi, a crescere, a convivere con i sensi di colpa: e ovviamente anche a complicare ancora di piu' le loro vite gia' belle incasinate e piene di frustrazioni, sia professionali che sentimentali.
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Il Cinema Indipendente Americano vive oggi un buon momento. Ne e’ un esempio “La famiglia Savage”, scritto e diretto da Tamara Jenkins, che dopo l'ottima accoglienza ricevuta all’ultimo Festival di Torino e' da qualche giorno sugli schermi di (quasi) tutta Italia. Si tratta di un piccolo film, delicato, vero. Racconta, con i giusti toni sommessi, la storia agrodolce di due fratelli che si ritrovono a dover gestire l’improvvisa demenza senile dell’anziano (poco amato) padre. Fatto che li portera' nuovamente ad avvicinarsi, a crescere, a convivere con i sensi di colpa: e ovviamente anche a complicare ancora di piu' le loro vite gia' belle incasinate e piene di frustrazioni, sia professionali che sentimentali. Il film e' narrato in modo sincero, autentico, senza fare troppe concessioni alla retorica, specie nella sua brillante ed intensa parte iniziale. Ed e' privo o quasi (il pianto davanti alle uova) delle furbizie tipiche tanto del cinema Hollywoodiano (vedi il recente “Non e’ mai troppo tardi”) che di un certo Cinema Indipendente, quello costruito ad arte per piacere un po' a tutti (vedi il sopravvalutato "Little Miss Sunshine). Certamente alla buona riuscita del film contribuisce la presenza del produttore Alexander Payne, gia' regista del brillante “A proposito di Schmidt”, film tra l'altro affine a questo per tematiche trattate. Per carita', non tutto fila per il verso giusto, perche' nella parte centrale del film non mancano alcune divagazioni e ripetizioni, alcuni momenti di stanca che lo rendono sinceramente po' palloso. Ma dove non brilla la regia, arriva in aiuto il fine lavoro di recitazione di tutto il cast. Sotto questo punto di vista, non sorprende certo la prova di Philip Seymour Hoffman, al solito splendido nella caratterizzazione del suo personaggio, un docente di Storia del Teatro perennemente alla ricerca di un riconoscimento accademico: come anche quella di Laura Linney, sulle cui spalle si regge la gran parte del film, nella parte della fragile sorella aspirante commediografa. Ruolo che gli ha regalato una meritata nomination Oscar. Di pari livello, se non la migliore, e' poi l'interpretazione dello scorbutico e anziano padre fatta dal caratterista Philip Bosco: bravissimo. "La famiglia Savage" e' in definitiva un buon film, con alcuni passaggi veramente molto belli. Ad esempio quelli iniziali, con le immagini quasi oniriche della piccola e soleggiata cittadina dell'Arizona in cui viveva il padre: quella in cui la Linney durante l'amplesso (con il piu' che maturo amante) tiene la zampa al cane. Oppure quelli che sottolineano i crescenti sensi di colpa dei due figli, come l'amara conversazione tra loro e il padre al ristorante per decidere "cosa fare" dopo la sua morte. O ancora quello in cui i protagonisti devono riordinare una stanza sommersa di libri, caotica ma con "una sua logica" e una tazzina da the' finisce per esser spostata "giusto" nel punto dove era situata poco prima. E anche la scena finale, che non svelo, chiude il film in modo cinematograficamente perfetto. Voto:7,5
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darjus
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giovedì 20 marzo 2008
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la normalità dell'ironico squallore d'america
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Si respira un'aria dimessa nella famiglia Savage, nucleo frammentato e assai ridotto, insieme di solitudini e d'insoddisfazioni, di sogni, speranze infrante e rimpianti, famiglia normale, per quanto non così comune nella composizione, con le sue tristezze e le sue mediocrità. Le vicende dei due fratelli, e del loro bizzarro padre, narrate con la giusta levità e sincerità dalla Jenkins, ci accompagnano per un'ora e mezza di avvilente quotidianità, senza accentuati melodrammi per disorientarci, né buonismi per emozionarci. Senza pretesa di realismo, ma come puro racconto di vita, della sua ironica banalità, delle sue difficoltà e delle sue piccole e insignificanti gioie. Un film ottimamente "normale" che riesce a mantenere un giusto distacco, evitando pretese sociologiche o documentaristiche e rimanendo intimista senza divenire enfatico, e ad evocare - tratteggiandola con nitore ed efficacia - un'America nascosta, triste e stanca, benché sempre più diffusa.
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Si respira un'aria dimessa nella famiglia Savage, nucleo frammentato e assai ridotto, insieme di solitudini e d'insoddisfazioni, di sogni, speranze infrante e rimpianti, famiglia normale, per quanto non così comune nella composizione, con le sue tristezze e le sue mediocrità. Le vicende dei due fratelli, e del loro bizzarro padre, narrate con la giusta levità e sincerità dalla Jenkins, ci accompagnano per un'ora e mezza di avvilente quotidianità, senza accentuati melodrammi per disorientarci, né buonismi per emozionarci. Senza pretesa di realismo, ma come puro racconto di vita, della sua ironica banalità, delle sue difficoltà e delle sue piccole e insignificanti gioie. Un film ottimamente "normale" che riesce a mantenere un giusto distacco, evitando pretese sociologiche o documentaristiche e rimanendo intimista senza divenire enfatico, e ad evocare - tratteggiandola con nitore ed efficacia - un'America nascosta, triste e stanca, benché sempre più diffusa. Piccola caduta, che tradisce il resto, sul finale: posticcio e un po' troppo lieto. Bravissimi gli attori, senza i quali la pellicola perderebbe tutto il suo spessore. ***
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fedson
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domenica 26 maggio 2013
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i fratelli savage
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Due fratelli che non si vedono da tanto tempo, si rincontrano per prendersi cura del padre, ormai anziano e mentalmente disturbato. Cercando vari modi per risolvere la questione, i due impareranno a conoscere se stessi e i loro problemi: John è un docente universitario di drammaturgia frustrato, stanco, che cerca di scrivere qualcosa di concreto ottenendo ben pochi risultati; Wendy sogna di diventare drammaturga di successo ma con scarsi risultati. Uno dei punti chiave del film è senz'altro il rapporto genitori-figli, che Tamara Jenkis mette a fuoco con la figura principale del padre della famiglia Savage, Lenny, un uomo che ha passato da parecchio la pensione e che ha sotterrato il proprio affetto per i figli col passare del tempo.
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Due fratelli che non si vedono da tanto tempo, si rincontrano per prendersi cura del padre, ormai anziano e mentalmente disturbato. Cercando vari modi per risolvere la questione, i due impareranno a conoscere se stessi e i loro problemi: John è un docente universitario di drammaturgia frustrato, stanco, che cerca di scrivere qualcosa di concreto ottenendo ben pochi risultati; Wendy sogna di diventare drammaturga di successo ma con scarsi risultati. Uno dei punti chiave del film è senz'altro il rapporto genitori-figli, che Tamara Jenkis mette a fuoco con la figura principale del padre della famiglia Savage, Lenny, un uomo che ha passato da parecchio la pensione e che ha sotterrato il proprio affetto per i figli col passare del tempo. Sarcastico, severo, scontroso e "demente", Lenny sarà il punto che farà rincontrare, dopo tanti anni, i due fratelli Savage, unendoli in una sorta di "avventura" alla ricerca della miglior casa di riposo in circolazione per il loro vecchio. La loro riunione, la si può considerare un'avventura perché in questa i due scopriranno quali sono le loro passioni, i loro segreti, i loro punti deboli, i ricordi del passato sia dell'uno sia dell'altra e, di conseguenza, la loro felicità. E' un viaggio alla ricerca dei rapporti di un tempo e della felicità ormai soppressa e regredita, quello che scrive Jenkis a proposito dei Savage. Un viaggio alla scoperta delle proprie passioni che, per raggiungerle, bisogna lasciarsi alle spalle il passato, oppure affrontarlo. I Savage, mostrati alla luce da una coppia di attori formidabili, sono un po' ciò che risiede in ognuno di noi. Sono personaggi che incarnano, nascondendosi, emblemi nascosti nell'anima di ciascuno di noi: solitudine, problemi irrisolti, stanchezza riguardo la frustrazione dovuta alla misera futilità della vita, fallimento ma anche voglia di riscatto, voglia di provare e riprovare, voglia di ricominciare. In sintesi: tutti ci sentiamo un po' dei Savage, e questo è dato dalla profonda sceneggiatura che va ad insediarsi nelle nevrotiche vite di due personaggi cinematografici scritti in maniera impeccabile. L'umile cast che questo "piccolo-grande" film indipendente vede, è composto sostanzialmente da due attori che, in coppia e recitativamente in sintonia, sfoderano le loro armi, andando a tenere alto il livello della pellicola in tutta la sua durata: Laura Linney, grandissima interprete di numerosi film indipendenti, raffigura perfettamente l'idea di una donna in sfida con se stessa, desolata dei suoi scarsi risultati, ma che conserva sempre quella "ridicola" voglia di ritentare per andare avanti; Philip Seymour Hoffman, da tempo una completa garanzia in ogni film che interpreta, è immenso e perfetto nel ruolo di un uomo insicuro delle sue scelte, perfino del suo sposalizio con una donna che lo lascerà proprio per la sua indole di "perfetto perdente", scegliendo invece di andare a nozze col fallimento. La prima, meritevole di candiatura al premio Oscar ed il secondo, vincitore dell'Indipendent Spirit Award e nientemeno che una nomination al Golden Globe. I fratelli Savage emozionano, e tra tratti di commedia, spezzoni di tragedia e spicchi di romanticismo, riescono, uniti nelle loro forze, ad intraprendere una vera e propria scoperta di valori umani che ogni famiglia che si rispetti conserva nel proprio cuore. Performances a regola d'arte!
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baba
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venerdì 29 febbraio 2008
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interno di famiglia
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Sun City non è la copertina che traduce l’Utopia ingiallita del buon Campanella. Non è una città in cui girano filosofi, maestri, insegnanti seguiti da attenti cittadini desiderosi di apprendere l’arte del progresso collettivo. Non è neppure il tentativo ardito di una piccola comunità postsessantottina in cui la proprietà privata è bandita come il più sacrilego attentato alla felicità umana. Sun City, Stati Uniti, Arizona, è il paradiso degli umani elefanti, stracci di pelleossacataratte che svernano gli ultimi anni in un quartiere che pare uscito dagli Studios: casette linde tutte identiche, giardini ariosamente impeccabili, navette che spolano da un campo all’altro di golf, da mattina a sera, sempre che l’artrosi non impedisca lo swing.
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Sun City non è la copertina che traduce l’Utopia ingiallita del buon Campanella. Non è una città in cui girano filosofi, maestri, insegnanti seguiti da attenti cittadini desiderosi di apprendere l’arte del progresso collettivo. Non è neppure il tentativo ardito di una piccola comunità postsessantottina in cui la proprietà privata è bandita come il più sacrilego attentato alla felicità umana. Sun City, Stati Uniti, Arizona, è il paradiso degli umani elefanti, stracci di pelleossacataratte che svernano gli ultimi anni in un quartiere che pare uscito dagli Studios: casette linde tutte identiche, giardini ariosamente impeccabili, navette che spolano da un campo all’altro di golf, da mattina a sera, sempre che l’artrosi non impedisca lo swing. E’ la cartolina ideale per polli ultrasessantenni: sole corroborante, spiaggia di candida battigia, popolazione che se non hai colori muriatici sul viso ed una robusta carta di credito ti fissa con ribrezzo. E’ il luogo più dorato che un figlio possa immaginare quando di babbo e di mamma gli importa solo l’eredità e non gli ultimi palpiti prefunerari; il posto che tacita qualsiasi germe di coscienza irrequieta, di timor d’ingratitudine non celata.
La famiglia Savage ha tre cuori che cuciono vite a centinaia di miglia tra loro: John insegna letteratura, ha il chiodo di Brecht, da anni perlustra le vie di un saggio sul drammaturgo tedesco che riesca a schiudergli conferenze, pubblicazioni internazionali, la gloria dei peana; Wendy lotta con racconti sempre respinti, velleità di scrittrice che sbattono contro borse di studio mai vinte, farmaci nel beautycase che pillolano ogni giorno segmenti di coraggio fittizio; infine c’è il vecchio che in fondo troppo vecchio non è, un’entità astratta di padre sulla costa opposta alla loro, alle prese con una nuova realtà femminile dopo la prima moglie ed i due figli.
Ognuno si cuoce nel fardello che ha scelto senza cura alcuna per l’altro, una telefonata ogni tanto per i saluti di circostanza, qualche parola generica, la promessa: ci vediamo presto, sapendo bene che la volontà tira altrove. Ma la malattia non ha riguardo per esistenze che non si odiano semplicemente perché s’ignorano: l’Alzheimer sbuca fuori quando meno te l’aspetti, succhia ossigeno al cervello, la pompa dell’intelletto batte botte, singhiozza lucidità, lentamente s’irradia nei nervi del collo, delle cosce, del piede; ti minora riducendoti ad un bimbo impertinente, ad un confuso scherzo di memoria. Ed il vecchio padre si ritrova solo. La compagna che fuori dal matrimonio lo aveva accolto resta fulminata all’improvviso ed un minuto dopo la sua beneamata figliola si avvoltoia rapida su beni propri ed altrui: ben gli sta, alle coppie di fatto!
Così la realtà porta il conto a John e Wendy, gli ricorda che qualcuno ha messo il seme, il pasto, una prima educazione e che ora bussa, tremante e stordito, alle loro porte. Niente è più come prima: Brecht appare ancora più lontano, i farmaci diventano frenetici tentativi di sedare ogni tumulto di infelicità, la lettura colta viene sostituita dalle brochure dei cronicari, anche se il nome e la foto camuffano il misfatto. Due solitudini sono costrette a convivere tempi, luoghi, ricerche, pannoloni, spese, decisioni: più razionale, fin troppo, lui; impulsiva, ma caotica e perennemente insoddisfatta, lei. Se il film fosse stato di produzione timbrata a cinque stelle, con distribuzione levigata nel mondo e lanci pubblicitari fino in cielo, avremmo avuto uno sviluppo consolatorio: fratello e sorella finiscono per intendersi, si capiscono, si perdonano, formeranno una famiglia coi loro rispettivi amanti e festeggeranno il 4 luglio tutti insieme in giardino davanti al barbecue. Ma la Jenkins, per fortuna, regista, sceneggiatrice, donna del tutto indipendente, non vuole consolarci in modo sconsiderato, ha scelto attori strepitosi che non hanno nulla del patinato divo che finge di calarsi nell’ordinaria mediocrità del vivere. Laura Linney e Seymour Hoffman odorano di rabbia, scompostezza, frustrazioni, speranze che covano come cenere e che teniamo sepolte perché non si disperdano del tutto. Grazie a loro la regista mostra come due fratelli, distanti da Caino e Abele ma neppure complici, possano trovare un piccolo equilibrio, un abbozzo di sincera comunicazione partendo da stadi di insofferenza abissale. Le baruffe certo continuano, qualche colpetto di gelosia assesterà ancora il suo tiro rancoroso, ma almeno finisce quel doloroso ignorarsi che spesso scandisce la nostra quotidiana camminata nel mondo. Almeno tutti e due, a modo loro, guarderanno al padre non più come ad un oggetto da parcheggiare a distanza, ma come nervi e sangue che li hanno alimentati e che ora bisogna accompagnare nel campo che più non frutta. Sapranno accettare la morte senza ipocrisia, senza camere costosamente dorate che nascondano la verità; impareranno a scrutare in un segno la voce dell’ultimo giorno. Un infermiere gli spiega che la fine è vicina quando le dita dei piedi si arricciano, che non è un fatto scientifico e spiegabile, ma pare accada così, e allora Wendy fruga fra le lenzuola l’arco del pollice, fissa il bonsai mignolo del babbo con la dolcezza ingenua di chi in qualche modo, inaspettatamente, vorrebbe sperare in un giorno, almeno un giorno supplementare per quel padre pure così snaturato. E noi ci riconosciamo in quel gesto, e rimaniamo sorpresi a pensare che troppe volte è la morte a riportarci in vita visi e tumulti che credevamo, fingendo con noi stessi, di aver già dimenticato.
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sassolino
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domenica 27 gennaio 2008
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nei paraggi di woody allen
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In solido equilibrio tra dramma e commedia, nella migliore tradizione cara a woddy allen, è un intenso spaccato sul ricambio generazionale che a poco a poco allarga lo sguardo su solitudini quotidiane, identità da riscattare e fratellanze da ritrovare. Ben servito da una fotografia crepuscolare che intristisce ancor più l'intera scenografia e magnificamente recitato rimane un discorso aperto sui padri che non ci sono più, sulla mancanza di un riferimento parentale. Per il minimalismo dei sentimenti, per la delicatezza della sceneggiatura, corroborato da ottimi dialoghi assomiglia quasi a un film europeo o più poeticamente a una bottiglia di spumante che tenuta aperta oltre un giorno perde intensità.
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In solido equilibrio tra dramma e commedia, nella migliore tradizione cara a woddy allen, è un intenso spaccato sul ricambio generazionale che a poco a poco allarga lo sguardo su solitudini quotidiane, identità da riscattare e fratellanze da ritrovare. Ben servito da una fotografia crepuscolare che intristisce ancor più l'intera scenografia e magnificamente recitato rimane un discorso aperto sui padri che non ci sono più, sulla mancanza di un riferimento parentale. Per il minimalismo dei sentimenti, per la delicatezza della sceneggiatura, corroborato da ottimi dialoghi assomiglia quasi a un film europeo o più poeticamente a una bottiglia di spumante che tenuta aperta oltre un giorno perde intensità. Da vedere e rivedere.
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eugenio
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sabato 6 luglio 2013
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melo’ e comicità alla jenkins
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La famiglia Savage della regista Tamara Jenkins, generalmente nota per la puerile commedia on the road Little Mrs Sunshine. Il tono qui si fa diverso, il contesto più drammatico. Due fratelli, Wendy (la candidata all’oscar Laura Linney) e John (Hoffman) dalle antitetiche vite solo accumunate dal fallimento esistenziale (la prima dalle frustrate aspirazioni drammaturgiche , il secondo professore reso cieco dalla sua ricerca biografica di Brecht al punto da non rendersi conto dell’allontanamento della moglie e della crisi del suo matrimonio) sono “costretti”, loro malgrado, a riavvicinarsi all’anziano padre malato di Alzhaimer.
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La famiglia Savage della regista Tamara Jenkins, generalmente nota per la puerile commedia on the road Little Mrs Sunshine. Il tono qui si fa diverso, il contesto più drammatico. Due fratelli, Wendy (la candidata all’oscar Laura Linney) e John (Hoffman) dalle antitetiche vite solo accumunate dal fallimento esistenziale (la prima dalle frustrate aspirazioni drammaturgiche , il secondo professore reso cieco dalla sua ricerca biografica di Brecht al punto da non rendersi conto dell’allontanamento della moglie e della crisi del suo matrimonio) sono “costretti”, loro malgrado, a riavvicinarsi all’anziano padre malato di Alzhaimer. Come accade in tutte le “normali” famiglie che si accorgono troppo tardi delle sofferenze del genitore - forse perché troppo presi a inseguire fugaci sogni fallimentari- il triste evento segnerà in meglio la vita dei due fratelli socialmente insoddisfatti lasciando capire loro forse, che c’e’ qualcosa di più importante della carriera.
Così come descritto, il film non sembra aggiungere nulla di già visto alle commedie drammatiche made in USA tuttavia va dato atto alla regista di evitato le trappole comuni da melò come la partecipazione sofferta al dolore e la descrizione chirurgica di una malattia degenerativa difficilmente rappresentabile senza retorica costruendo un “prodotto” originale a livello scenico nel quale le situazioni più struggenti sono contrappuntate da vivide frecce avvelenate di caustico umorismo. Una bella scoperta che merita di essere esplorata sino in fondo, un ritratto realista e impietoso di un rapporto recuperato tra due fratelli che impareranno attraverso questa dolorosa sfida a conoscersi e rivalutare le loro stesse esistenze.
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charles
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venerdì 15 febbraio 2008
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incompiuto
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Metto due stellette più per delusione che per analisi critica.
Credo che "The Savage" raccolga, presso queste pagine, più entusiasmo di quanto meriti. La chiave di volta l'ha offre, secondo me, la stessa (brava) Tamara Jenkins in sceneggiatura quando, tramite i due protagonisti, definisce, in un incerto ed efficace slancio di autocritica, la commedia scritta da Wendy Savage (alias Laura Linney)e presentata alla Fondazione Guggenheim per richiederne il finanziamento, un "dramma narcistico piccolo borghehse" dotato di "realismo magico"...
Io non griderei al capolovoro o, per parlare come My Movies, alle 4 o 5 stellette. Direi piuttosto che ci sono momenti interessanti nella regia comunque educata, che la musica funziona bene, che la recitazione è quasi sempre di grande caratura (meglio gli uomini, amante sposato compreso) e, su tutti, che è sapiente e graffiante l'equilibrio melodrammatico tenuto costantentemente dalla sceneggiatura, anche e soprattutto nei dialoghi.
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Metto due stellette più per delusione che per analisi critica.
Credo che "The Savage" raccolga, presso queste pagine, più entusiasmo di quanto meriti. La chiave di volta l'ha offre, secondo me, la stessa (brava) Tamara Jenkins in sceneggiatura quando, tramite i due protagonisti, definisce, in un incerto ed efficace slancio di autocritica, la commedia scritta da Wendy Savage (alias Laura Linney)e presentata alla Fondazione Guggenheim per richiederne il finanziamento, un "dramma narcistico piccolo borghehse" dotato di "realismo magico"...
Io non griderei al capolovoro o, per parlare come My Movies, alle 4 o 5 stellette. Direi piuttosto che ci sono momenti interessanti nella regia comunque educata, che la musica funziona bene, che la recitazione è quasi sempre di grande caratura (meglio gli uomini, amante sposato compreso) e, su tutti, che è sapiente e graffiante l'equilibrio melodrammatico tenuto costantentemente dalla sceneggiatura, anche e soprattutto nei dialoghi.
Il punto è che sento che c'è qualcosa di incompiuto ed allora mi chiedo: visto che non siamo a teatro, dove sicuramente il dramma della Jenkins si sarebbe egregiamente compiuto, perchè cercare ostinatamente una posizione drammaturgica a metà strada tra un freddo e troppo dialogato dramma borghese, nell'accezione "teatrale" del termine, ed un pessimismo magico, per definirlo come la regista, che personalmente trovo più convincente e riuscito.
Consiglierei a Jon Savage (alias Seymour Hoffman) che piange parlando di realismo magico, e, con permesso, a tutti quelli che hanno visto "The Savage", di rivedere American Beauty di Sam Mendes.
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