Toni Servillo è un attore italiano, voce narrante, produttore, sceneggiatore, è nato il 25 gennaio 1959 ad Afragola (Italia). Toni Servillo ha oggi 66 anni ed è del segno zodiacale Acquario.
Toni Servillo, grande attore, promotore e creatore teatrale, smentisce ogni luogo comune. Si sa che gli interpreti di teatro (anche i massimi, da Eduardo De Filippo a Dario Fo), al cinema possono risultare indigesti; Woody Allen dice che alcuni (da Laurence Oliviera, John Gielgud) paiono avere accanto un'ombra che domanda: «Non sono bravo, non recito bene?», tanto «per loro una parte del piacere di recitare deriva dal mostrare al pubblico di quale eccezionale tecnica siano dotati». Ma non accade nulla di simile con Toni Servillo (né con Roberto Herlitzka o con Massimo De Francovich), bravissimi sullo schermo quanto sul palcoscenico.
Servillo ha dato un contributo decisivo al molto premiato Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino: era magnifico come protagonista impeccabile elaconico, manovratore di soldi in Svizzera per conto di Cosa Nostra, statua della solitudine che commette l'errore di innamorarsi di una ragazza barista Così bravo da indurre i distributori a far risorgere e rilanciare il primo film di Sorrentino da lui interpretato, L'uomo in più (2001), dramma della decadenza e del fallimento di luminose fragilità (il cantante, il calciatore). Bravo come lo si era visto recitare con la direzione di Mario Martone in Morte di un matematico napoletano(1992), nel bellissimo apologo politico La salita (1997), in Teatro di guerra (1998).
È un uomo asciutto, un napoletano di 46 anni elegante e implacabile, compagno di un'attrice rara, Anna Bonaiuto, sempre autonomo, di rado dipendente. Nel 1977 ha fondato il Teatro Studio di Caserta, nel 1986 ha collaborato con il gruppo Falso Movimento di Mario Martone, nel 1987 è stato tra i fondatori dei Teatri Uniti. Da attore e regista, ha lavorato sul tessuto poetico della lingua teatrale napoletana attraverso spettacoli come E Ha da passà ‘a nuttata e Sik-Siksu testi di Eduardo De Filippo o Zingari di Raffaele Viviani. Ha affrontato i classici in modi nuovi, rifiutando il «carcere della rappresentazione» a favore dell'imprevedibilità del mondo, di un'ottica surreale o visionaria: Il misantropo di Molière, L'uomo dal fiore in bocca di Pirandello.
La vasta e profonda esperienza non gli toglie affatto naturalezza né immediatezza, un calcolo razionale e insieme istintivo guida ogni suo movimento. Gli bastano un minimo gesto, un brillare furioso degli occhi, un piccolo spostamento, uno scatto d'energia o di sfinimento, per riflettere il caos del nostro mondo, come in uno specchio in frantumi.
Da Lo Specchio, 23 luglio 2005
È Toni Servillo, contemporaneamente sugli schermi nel divo di Paolo Sorrentino e in Gomorra di Matteo Garrone, dove rifulgono le sue doti d'attore, duttile e discreto. Ma la tradizione protagonistica italiana è raramente «soft», come si evince rivedendo qualche film famoso...
Toni Servillo, il grande attore, non somiglia affatto a Giulio Andreotti, e neppure ha voluto somigliargli: soltanto l'inquietudine delle mani congiunte e disgiunte, la testa affondata nelle spalle, le orecchie a ventola, la faccia immobile e imperturbabile possono suggerire il personaggio che il regista Paolo Sorrentino ha scelto per evocare la caduta dell'egemonia democristiana insieme al declino del potere dei politici nel suo film Il divo.
Il film ha rappresentato l'Italia in concorso al festival di Cannes, insieme con Gomorra di Matteo Garrone: se è raro in questi anni che siano stati selezionati per la Palma d'Oro ben due film italiani denuncianti piaghe del Paese (la camorra, la classe dirigente inadeguata), è rarissimo che tutt'e due questi film siano interpretati dallo stesso attore, Toni Servillo. In Gomorrail suo personaggio è molto difficile: un trafficante di rifiuti tossici, un delinquente in giacca e cravatta segnato però da un disordine criminale.
Recitando i due personaggi di Cannes, Toni Servillo è bravissimo. Naturalmente. Non c'è oggi attore che meglio di lui esprima il massimo di sentimenti ed emozioni con il minimo di mezzi: il suo modo di stare in palcoscenico o sullo schermo è perfettamente sobrio e insieme intenso, ha la facoltà di dire tutto e fare poco. È unico.
Eppure appartiene a suo. modo alla tradizione italiana dei grandi attori capaci di concentrare su di sé ogni attenzione del pubblico, che siano comici o drammatici. Mattatore è un termine italiano soltanto nell'uso teatrale o sociale; è d'origine latina ma ricalcato sullo spagnolo «matador» (letteralmente «uccisore»: il matador per antonomasia è il torero, un protagonista assoluto), significa «chi è capace di attirare tutti gli sguardi, chi si impone sugli altri, chi rimane al centro della scena» (Zingarelli).
Gli attori italiani possiedono quasi tutti, ciascuno a suo modo, la tendenza, riuscita oppure no, a essere mattatori: anche per questo nel nostro mondo dello spettacolo è tosi estesa la vecchia abitudine teatrale del capocomico-protagonista: pure al cinema, è frequente l'attore regista, soggettista, sceneggiatore, interprete, a volte anche produttore o adibito alla scelta delle musiche.
Agli opposti ma simili, ad esempio, sono il declamatorio Vittorio Gassman in Kean, genio e sregolatezza, testo teatrale di Alexandre Dumas adattato nel 1953 da Jean-Paul Sartre, debutto di Gassman nella regia cinematografica, vita turbolenta del celebre attore inglese Edmund Kean già portata sullo schermo varie volte; e Roberto Benigni, comico, nel classico infantile tragico-ridanciano Pinocchio. Sono ugualmente mattatori grandi attori come Gian Maria Volontè, trasformista sino a interpretare a perfezione, oltre a molti personaggi, Aldo Moro, l'ucciso presidente della Democrazia Cristiana, ne Il caso Moro di Giuseppe Ferrara; e Alberto Sordi, comico travolgente in quasi tutti i suoi film, personaggio drammatico in altri e soprattutto
in Una vita difficile di Dino Risi, storia d'un italiano esemplare. Sono mattatori Vittorio De Sica nel personaggio patetico-ridicolo de Il generale della Rovere di Roberto Rossellini, Totò nell'omaggio di Pasolini Uccellacci e uccellini, Giancarlo Giannitù in Pasqualino Settdbellezze di Lina Wertmüller, Omero Antonutti in Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani. Sono mattatori, a loro modo, anche due attori italiani sempre distintisi per un understatement, una sobrietà, una finezza che sfidavano la loro bellezza fisica: Massimo Girotti in Ossessione di Luchino Visconti, Marcello Mastroiannï in 8 e mezzo di Federico Fellini e in tanti altri film.
Inutile rifarsi allo spirito di gruppo e alla solidarietà di colleganza di molti attori francesi e inglesi o di gruppi teatrali come quello di Peter Brook, dove mattatore diventa il regista. Inutile evocare gli sforzi collettivi praticati soprattutto in teatro negli anni Sessanta o Settanta, nati o anticipati dall'aria del tempo e presto dimenticati. Il grande attore, figura monumentale oppure meschina, interprete di testi o film ricordabili soltanto per il suo nome, amato dagli spettatori e anche dai giornalisti o addirittura dai critici, rimane in Italia una figura infrangibile, inevitabile.
Quella italiana è più di una tendenza a essere mattatore: è una auto-passione, un egocentrismo d'artista, un bisogno quasi naturale d'essere al centro dell'attenzione, un dato antropologico non personale ma nazionale o almeno appartenente alle culture latine. In questo senso, persino Toni Servillo, con la sua eleganza, il suo gusto, la sua sobrietà «in levare», può essere definito un mattatore contemporaneo: al suo modo sublime, naturalmente.
Una durezza insolita e gradita
Da Lo Specchio, Giugno 2008
Classe 1959, regista e attore campano di Afragola, Servillo è stato scoperto tardi dal cinema. La sensazione è che si sia svelato nel tempo e col tempo imponendo al suo percorso artistico passi e cadenze che si tengono ben lontani dai facili tralicci del successo fine a se stesso. Poche le partecipazioni sul grande schermo, ma tutte griffate, tutte d'autore, tutte nate e vissute negli umori, nelle atmosfere, nella cultura partenopei. Fin dall'esordio, nel 1992, in Morte di un matematico napoletano dì Mario Martone, regista col quale girerà, l'anno dopo, Rasoi. E dopo ancora, uno degli episodi dei VesuvIani e Teatro di guerra. Un sodalizio nato sui palcoscenico, luogo 1986, ad avvicinarsi al gruppo Falso Movimento e quindi a Mario Martone. Non disdegnando la classicità rivoluzionaria di Eduardo, dei quale da sempre riporta in scena i fili rossi della sua universalità (l'ultimo spettacolo, ancora in tournée in queste settimane, è guarda caso Sabato, domenica e lunedì. In queste ore l'attore si gode le ottime recensioni ricevute grazie alla sua mirabile interpretazione in Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino, unico film italiano ad aver partecipato in concorso al Festival di Cannes (nelle sale uscirà in autunno). Il suo Titta De Girolamo è un personaggio che Sorrentino gli ha cucito addosso come un sarto di vecchia scuola, sfruttando al millimetro la sua capacità mimetica, la sua duttilità negli sguardi impercettibili, la sua essenzialità eduardiana. Un gioco di sottrazione che è somma di molteplici esperienze e talenti, istinto e ricerca, lavoro e spudoratezza. Un molo, questo di Titta, esatto contraltare del cantante confidenziale sul palco e tracimante esagerazioni nella vita, che lo stesso Sorrentino gli aveva regalato due anni or sono in L ‘uomo in più , dove indossava i panni scomodi di un Franco Califiino che non riusciva a rimanere negli argini di un Fred Bongusto: sguardi ironici, sbirciate perplesse, affondi repentini e improvvisi in una tragicità antica che Servillo fa entrare nella “modernitá” con l'arma del salace sospetto. Metaforizzando la condizione dell'Uomo che Non è Più in una disarmante tragedia dell'Uomo Ridicolo (come “spiega“ e ci mostra magistralmente in Luna rossa di Antonio Capuano. Vederlo aggirarsi nella hall del grande albergo, scenario raggelante di Le conseguenze dell'amore, è uno spettacolo nello spettacolo, un film nel film, un documentario sul mestiere dell'attore. Un attore che non ha bisogno di urlare, di smorfie, di scene-madri, di dazi regalati da bonari copioni. Chi ama il teatro, i testi e le parole lo sa. E coinvolge chi guarda e ascolta nel suo vortice, nell'emozione della follia recitativa che vive in un'altra dimensione, lontana dalle povertà mortali. A Cannes anche i critici stranieri che non lo conoscevano hanno cominciato ad accorgersi che in giro, da qualche parte, su anonime e prestigiose tavole di legno che sputano polvere e sogni, si aggira un grande commediante che ci piacerebbe vedere più spesso avvolto dalle ambigue ombre e dalle diaboliche luci del cinema.
Da Film Tv, n. 22, 2004
Avevamo lasciato Toni Servillo legato mani e piedi mentre una gru lo immergeva in una colata di cemento. Il volto immobile alla Buster Keaton. Così finiva Le conseguenze dell'amore, il più premiato film di Paolo Sorrentino. Fra il 2004. Poi l'attore è sparito dal grande schermo, impegnato in teatro, la sua vera passione. Adesso Toni Servillo ritorna al cinema con La ragazza del lago, opera prima di Andrea Molaioli, un noir psicologico tratto dal romanzo della norvegese Karin Fossum Lo sguardo di uno sconosciuto (Frassinelli, pp. 304, euro 16) che sarà presentato a Venezia il 2 settembre alla Settimana della critica e uscirà nelle sale il 14 settembre.
Da mafioso riciclatore di soldi sporchi a commissario alle prese con un caso complesso: una ragazza trovata morta sulla riva di un lago, nuda ma composta con cura commovente come se l'assassino avesse voluto preservarla dallo scempio della morte rispettandone la bellezza. Ma il commissario Servillo è anche alle prese con un dramma familiare, la moglie (Anna Bonaiuto), afflitta da Alzheimer, è ricoverata in una clinica e la loro figlia adolescente vive la separazione come un abbandono.
Un intrigo giallo, ma soprattutto psicologico, ben congegnato. Incontriamo Toni Servillo a Torino, impegnato sul set superblindato del nuovo film di Paolo Sorrentino, Il Divo, in cui interpreta Giulio Andreotti. E di cui si sa pochissimo: per esempio che il trucco richiede tre ore e mezzo di lavoro. Perciò forse non è un caso se l'orecchio destro di Servillo ha cominciato a sanguinare (ma l'interessato tiene a precisare che non sì tratta di un film biografico e quindi non giocherà sulle somiglianze). «Niente a che vedere con l'Andreotti di Oreste Lionello del Bagaglino, perché il film racconta un pezzo di storia italiana: inizia dalla caduta del settimo governo Andreotti, nel 1992, e si chiude alla vigilia del processo di Palermo. Anni cruciali in cui avviene il passaggio dalla prima alla Seconda repubblica, Tangentopoli, l'omicidio Falcone. Sul film non dico di più, parlo invece volentieri della Ragazza del lago. La sceneggiatura mi è piaciuta dal primo momento e mi ha fatto pensare a Dürrenmatt. Mi incuriosiva interpretare un commissario di polizia, un personaggio che ha alle spalle una letteratura immensa. Primo fra tutti Ingravallo». Lei è notoriamente un uomo colto, ma con tutti i commissari mutuati dai romanzi, cita proprio Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda? «Va bene, allora diciamo tutti i marescialli di Mario Soldati. D'accordo?».
Inutile insistere, Toni Servillo è un uomo fuori dal tempo e dalle mode. Ama la buona letteratura e va pazzo per la musica classica, di cui possiede una collezione di oltre un migliaio di cd. «Sono anche un ammiratore di Giorgio Scerbanenco. E di Maigret. Insomma, mi piaceva l'idea della sfida con un'icona della letteratura. In questo caso un personaggio che cerca di uscire dalla nicchia del genere per andare oltre. Molaioli ha puntato ai contenuti e l'ha fatto con grazia e con coraggio. Per me è sempre una gioia lavorare a opere prime, partecipare a un'atmosfera aurorale».
Con Molaioli indossa i panni del commissario Sanzio, con Sorrentino quelli di Andreotti, Il Divo uscirà in primavera insieme a Gomorra di Garrone, dove lei è protagonista di un episodio. Sta diventando un attore di moda?
«Si, ci sono tre film in uscita, anzi quattro con Lascia perdere Johnny di Fabrizio Bentivoglio, ma è un caso. Non facevo cinema dai tempi delle Conseguenze dell'amore. Ho detto diversi no, perché ero impegnato in teatro. Infatti cerco sempre di girare tra la primavera e l'estate, fuori dalla stagione delle repliche. Dopo Il Divo comincerò le prove della trilogia della villeggiatura di Goldoni per il Piccolo di Milano».
Non sarà di moda, ma lavora con una generazione di registi indipendenti invidiabilissima. Con Sorrentino è al terzo film, una coppia collaudata.
«Il nostro rapporto è un mistero. Abbiamo un'intesa perfetta ma non siamo amici, nel senso che non ci frequentiamo mai. È un aspetto misterioso della nostra relazione».
E per metodo di lavoro chi preferisce, Sorrentino o Garrone?
«Sorrentino è uno che ha sempre tutto il film in testa. Arriva sul set e sa perfettamente dove mettere la macchina da presa. Garrone no, improvvisa. Entrambi hanno una grande capacità visionaria e sono molto attenti alla recitazione. Che non è scontato. In un'epoca che privilegia le immagini cercare l'espressività in un dialogo ben costruito richiede un grande capacità d'autore. Con Garrone è stato affascinante entrare in un'atmosfera diversa, c'è del metodo nella sua follia. Matteo cerca l'attimo e crea le condizioni con scrupolo. Ed è più silenzioso di Paolo».
Preferisce un regista che la lascia libero di esprimersi o uno come Sorrentino che le alita sul collo?
«Mi affido totalmente a chi dirige. Mi piace molto essere guidato e spesso neanche capisco ciò che faccio. Il film mi diventa chiaro solo quando vedo il primo montaggio».
Interpreta sempre personaggi malinconici. Titta, il mafioso riciclatore, e il commissario Sanzio sono simili.
«Sì, tutti e due hanno un tormento. Quello di Titta è segreto e tale rimane fino alla fine, l'altro ha una moglie malata e un'umanità più spessa».
Anche con Andreotti e con il personaggio di Gomorra non ci sarà molto da ridere.
«Fossi in lei non ne sarei così sicura».
Perché non ha mai interpretato un ruolo comico?
«A teatro scelgo io cosa fare e poiché mi manca la dimensione del tragico scelgo le commedie. Al cinema sono anni che chiedo di scriverne una per me, ma pare che far ridere la gente sia la cosa più difficile al mondo».
Da Il Venerdì di Repubblica, 17 Agosto 2007
Nato ad Afragola in provincia di Napoli nel 1959, regista e attore, nel 1977 fonda il Teatro Studio di Caserta. Nel 1986 inizia a collaborare con il gruppo Falso Movimento, interpretando Ritorno ad Alphaville di Mario Martone e mettendo in scena E… su testi di Eduardo De Filippo. Nel 1987 è tra i fondatori di Teatri Uniti, di cui è direttore artistico dal 1999. Ha partecipato come attore e regista alla creazione di spettacoli in lingua napoletana come Partitura (1988) e Rasoi (1991) di Enzo Moscato, Ha da passà a nuttata (1989) dall’opera di Eduardo De Filippo, Zingari (1993) di Raffaele Viviani, fino a Sabato, domenica e lunedì (2002), pluripremiata rivisitazione del capolavoro eduardiano. Con Il misantropo (1995) e Tartufo (2000) di Molière, e con Le false confidenze (1998/2005) di Marivaux, tutti nelle mirabili traduzioni di Cesare Garboli, realizza un trittico sul grande teatro francese fra Sei e Settecento. Tra le sue regie figurano inoltre L’uomo dal fiore in bocca (1990/96) di Luigi Pirandello, Natura morta (1990) dagli atti del XXIII congresso del P.C.U.S., De Pirandello a Eduardo (1997), versione con interpreti portoghesi de L’uomo dal fiore in bocca abbinata a Sik Sik, l’artefice magico di Eduardo De Filippo, al Teatro San Joao di Porto, Benjaminowo: padre e figlio (2004) di Franco Marcoaldi e Fabio Vacchi, Il lavoro rende liberi (2005) di Vitaliano Trevisan. La sua più recente regia è Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni (2007) al Piccolo Teatro di Milano e si appresta nella prossima stagione ad un’importante tourneè internazionale. A teatro è stato diretto da Memè Perlini, Mario Martone, Leo De Berardinis, Elio De Capitani, ed ha collaborato con Franco Battiato, Mimmo Paladino e Antonio Ballista. Al 1999 risale il suo debutto da regista nel teatro musicale con La cosa rara, di Martin y Soler su libretto di Lorenzo Da Ponte per la Fenice di Venezia, cui fanno seguito sempre a Venezia Le nozze di Figaro di Mozart, poi Boris Godunov di Mussorgskij e Arianna a Naxos di Richard Strauss per il Sao Carlos di Lisbona, Il marito disperato di Cimarosa e Fidelio di Beethoven, entrambi per il San Carlo di Napoli e L’Italiana in Algeri di Rossini al festival di Aix en Provence. Ha esordito al cinema con i film di Mario Martone Morte di un matematico napoletano (1992), Rasoi (1993), La salita (1997), Teatro di guerra (1998). E’ stato protagonista con Paolo Sorrentino ne L’uomo in più (2001), Le conseguenze dell’amore (2004), nel film per la televisione tratto da Sabato, domenica e lunedì (2004) e ne Il divo. E’ stato inoltre diretto da Antonio Capuano in Luna rossa (2001), da Elisabetta Sgarbi in Notte senza fine (2004) e da Andrea Molaioli ne La ragazza del lago (2007. Per le sue interpretazioni ha ricevuto vari riconoscimenti in Italia e all’estero fra cui il Nastro d’argento, la Grolla d’oro ed il David di Donatello.