eugenio
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sabato 26 febbraio 2022
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la napoli cangiante di andò
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Due solitudini di numeri primi in un ambiente che di solitario ha ben poco, nei suoi vicoli che trasudano di criminalità e coralità, di veracità e luce, di ombre e dolore. Napoli è questo, un caleidoscopio sfaccettato, un Aleph per dirla alla Borges, in cui, ogni qualvolta la prospettiva è mutata, emergono nuovi e inaspettati afflati di amor vissuto.
Tra i suoi vicoli, quelli dei Quartieri Spagnoli contornati di palazzi dal fascino decadente e di criminalità, vive il professor Gabriele Santoro (Silvio Orlando) che insegna al Conservatorio, un uomo schivo, riservato, che sembra quasi costeggiare quella coralità napoletana, indifferente all’agitazione brulicante notturna sotto casa o alle osservazioni qualunquiste del giornalaio.
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Due solitudini di numeri primi in un ambiente che di solitario ha ben poco, nei suoi vicoli che trasudano di criminalità e coralità, di veracità e luce, di ombre e dolore. Napoli è questo, un caleidoscopio sfaccettato, un Aleph per dirla alla Borges, in cui, ogni qualvolta la prospettiva è mutata, emergono nuovi e inaspettati afflati di amor vissuto.
Tra i suoi vicoli, quelli dei Quartieri Spagnoli contornati di palazzi dal fascino decadente e di criminalità, vive il professor Gabriele Santoro (Silvio Orlando) che insegna al Conservatorio, un uomo schivo, riservato, che sembra quasi costeggiare quella coralità napoletana, indifferente all’agitazione brulicante notturna sotto casa o alle osservazioni qualunquiste del giornalaio. Santoro cammina come trascinato da un peso, da un rapporto contrastato con il fratello, neo-magistrato arrogante e di poche parole (Gianfelice Imparato), non ha una vita sociale, conosce appena i vicini.
Un giorno apre la porta per far entrare un corriere, e bastano pochi istanti per far sì che nella sua quotidianità bigia, entri Ciro (Giuseppe Pirozzi) il figlio del vicino del piano di sopra, assai spigliato, un intruso, che gli chiede aiuto. Aiuto sì, perché quel ragazzino di appena dieci anni, è in pericolo, avendo scippato e inavvertitamente fatto cadere per un “banale” furto, la moglie di un boss camorrista rivale. Non ha scampo come non lo avrà il professore, istintivamente, per quanto neglettamente, portato alla protezione, forse per una remora di un istinto paterno sopito da sempre, come lo sviluppo della pellicola suggerirà in un coacervo di sentimento e dramma.
In poche parole, è questa la trama de Il bambino nascosto, di Roberto Andò qui in duplice veste di regista e scrittore dell’omonimo romanzo. Un testo in cui Napoli è sempre presente come terzo incomodo di una ballata sofferta, in cui la legge e la sopravvivenza a un contesto sociale ove è meglio spesso non guardare o appoggiarsi a connivenze malavitose, lascia il passo a un confronto, un avvicinamento tra due specie differenti. Come due “animali” feriti, l’uomo e il bambino si “annusano” vicendevolmente, prima diffidenti, poi sempre più uniti come due frammenti di vetro capace di riflettere paura ma anche coraggio.
E forse è tale sentimento, il cuore e il motore pulsante della pellicola, un coraggio tradotto in presa di posizione che farà spezzare ogni indugio al grigio professore, in un percorso di redenzione per il bambino dall’ infanzia negata fra poteri sanguinari priva di spensieratezza e giochi e di una profonda incomunicabilità adulta, il cui spiraglio musicale non lascia adito a parole di aiuto.
E così i due non potranno far altro che attraversare i vicoli di una Napoli cangiante, dalle duplice natura, fino ai confini di un territorio in cui sarà possibile ritrovar finalmente quell’alba, prodroma di una primavera di bellezza da vivere insieme oltre la scure di una taciturna diffidenza.
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maria f.
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domenica 14 novembre 2021
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evviva i buoni flim!
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Quando un libro ti cattura, vorresti che non finisse mai, centellini le pagine, rallenti la lettura, la medesima cosa avviene quando osservi un’opera d’arte…come un quadro, una scultura.
Di un dipinto ne consideri i particolari, i colori, la capacità dell’autore di avere dato profonda espressione allo sguardo, di avere curato le fattezze, le pieghe di un abito, i contorni. Per una scultura ci si sofferma alla dolcezza di un’ondulazione dei fianchi, a come l’artista ha reso possibile estrapolare da un pezzo di marmo un sentimento di paura, felicità, forza, cattiveria, e resti sorpresa nel considerare di quanta maestria sia stato capace, per esempio, il maestro Felice Tagliaferri che pur cieco ha realizzato opere stupefacenti.
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Quando un libro ti cattura, vorresti che non finisse mai, centellini le pagine, rallenti la lettura, la medesima cosa avviene quando osservi un’opera d’arte…come un quadro, una scultura.
Di un dipinto ne consideri i particolari, i colori, la capacità dell’autore di avere dato profonda espressione allo sguardo, di avere curato le fattezze, le pieghe di un abito, i contorni. Per una scultura ci si sofferma alla dolcezza di un’ondulazione dei fianchi, a come l’artista ha reso possibile estrapolare da un pezzo di marmo un sentimento di paura, felicità, forza, cattiveria, e resti sorpresa nel considerare di quanta maestria sia stato capace, per esempio, il maestro Felice Tagliaferri che pur cieco ha realizzato opere stupefacenti.
La medesima cosa avviene quando si assiste a un ottimo film come questo di Andò.
Può succedere che si vorrebbe rimandare la fine dello spettacolo per assaporare ancora un po’ la bellezza dei dialoghi, ascoltare i silenzi pieni di significato, le interpretazioni eccellenti e preziose di tutti gli attori.
Il film è ambientato a Napoli, città bellissima ma complessa, un pezzo di Paradiso in terra dove più che altrove convivono persone perbene e di malaffare e il vivere a volte è solo un campare.
Gabriele Santoro professore di pianoforte ha scelto un’esistenza solitaria e di vivere in solitudine, proprio in un quartiere dove tutto è in fermento, esattamente in subbuglio come il suo essere.
Presto dovrà chiarire a se stesso se continuare a sbirciare la vita degli altri o scendere in campo lasciando quella postazione di sola osservazione .
Ciro un bambino di dieci anni in pericolo di vita perché ricercato dalla camorra s’intrufola nel suo appartamento chiedendogli di nasconderlo, fra i due si stabilisce un rapporto di fiducia.
Si osservano, si studiano, nasce una vera amicizia e da persona sensibile, Gabriele, si prende cura del bambino, lo accudisce, e come un buon padre un giorno notando il suo volto afflitto e desiderando consolarlo gli dice. “Ciro sei triste, forse ti manca la mamma?” ma lui dribblando, da “ vero uomo che non vuole palesare i propri sentimenti” risponde: ” NO, m manc o cellulare”. (No. Mi manca il cellulare).
Forse anche questa risposta apparentemente inappropriata fa pensare a Gabriele che Itaca bisogna raggiungerla a tutti i costi, anche se la strada è lunga e tortuosa … Finalmente Gabriele Santoro stimatissimo professore di pianoforte, ha il coraggio di affrontare situazioni pericolose e strategie inimmaginabili pur di sottrarre il bambino a una morte sicura.
Il piccolo delinquente si affida all’anziano professore del quale forse intuisce che oltre alla vita presente può salvargli anche il suo futuro.
Opera eccellente.
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carloalberto
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martedì 9 novembre 2021
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un messaggio devastante
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I primi tre versi della poesia “Itaca” di Kavafis, recitati dal professore di conservatorio mentre si rade allo specchio, evocano per suggestione la solitudine e la diversità del protagonista, uomo colto e sensibile che ha scelto di vivere in un quartiere degradato di Napoli. Brani di musica classica eseguiti al pianoforte riecheggiano nelle vuote stanze dell’appartamento in cui campeggia una grande libreria, un’oasi di cultura nel mezzo della barbarie. Queste le premesse promettenti del film di Andò. Lo sviluppo del plot in parte delude le aspettative. L’incontro del professore con il bambino non è reso nella maniera più felice, soffre fin dalle prime battute che i due si scambiano di un approccio pedagogico e maternale che si materializza immediatamente nelle apprensioni e nelle cure prestate per un po’ di febbre e soprattutto nella preparazione del cibo per il piccolo infermo.
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I primi tre versi della poesia “Itaca” di Kavafis, recitati dal professore di conservatorio mentre si rade allo specchio, evocano per suggestione la solitudine e la diversità del protagonista, uomo colto e sensibile che ha scelto di vivere in un quartiere degradato di Napoli. Brani di musica classica eseguiti al pianoforte riecheggiano nelle vuote stanze dell’appartamento in cui campeggia una grande libreria, un’oasi di cultura nel mezzo della barbarie. Queste le premesse promettenti del film di Andò. Lo sviluppo del plot in parte delude le aspettative. L’incontro del professore con il bambino non è reso nella maniera più felice, soffre fin dalle prime battute che i due si scambiano di un approccio pedagogico e maternale che si materializza immediatamente nelle apprensioni e nelle cure prestate per un po’ di febbre e soprattutto nella preparazione del cibo per il piccolo infermo. Troppo netta ed inverosimile appare la contrapposizione tra il padre orco, che vuole consegnare il figlio ai suoi carnefici, ed il mite e protettivo professore salvifico. Ma quel che è peggio sono i cliché che abbondano tra i personaggi minori. Il fratello magistrato, cinico ed indifferente, tutto preso dalla sua carriera, sembra riproporre emblematicamente l’idea che si sta diffondendo, per interessi politici innominabili, di una magistratura lontana dalla società civile e chiusa nelle faide interne per ambizione e smania di potere. Così come, in modo altrettanto pericoloso, per il messaggio subliminale sotteso, è il personaggio del funzionario di polizia, tratteggiato come una figura ambigua e volgare, probabilmente corrotto e contiguo ai clan. Se si aggiunge che Roberto Herlitzka, nel ruolo del vecchissimo padre di Orlando, dopo una vita passata in magistratura, afferma che preferisce l’amore alla legge, il quadro è completo. L’anarchismo del buon samaritano, secondo Andò, sembra essere l’unica soluzione alla tragica condizione della maggioranza dei cittadini onesti di questo Paese, tenuti in ostaggio da quattro malavitosi organizzati. Ma il finale è ancora più devastante, perché indica nella fuga all’estero la sola via di salvezza.
A prescindere dai contenuti, il film è un buon noir drammatico, incentrato su un personaggio che sembra cucito su misura per Silvio Orlando, che si esprime ai massimi livelli, nella parte a lui più congeniale, per fisiognomica e temperamento, del mite eroe colto ed amorevole, tornato subito nei ranghi, dopo la parentesi da boss galeotto, per la verità poco credibile, in Ariaferma. Straordinaria l’interpretazione, assolutamente naturale, anche del piccolo Giuseppe Pirozzi e di due ottimi attori napoletani, Salvatore Striano, specializzatosi nel fare il camorrista e Lino Musella, un volto predestinato al grande cinema, che in questo film trova uno spazio adeguato per disegnare un personaggio complesso, forse il meglio riuscito, un angelo caduto, aspirante pianista cacciato dal conservatorio, trasformatosi in uno spietato killer. Apprezzabile il cammeo di Herlitzka, che ha perso ormai la memoria, ma significativamente recita la prima strofa dell’idillio Le ricordanze, vale a dire tutto passa ma la bellezza resta.
La bellezza, la cultura, la musica, l’amore universale, rischiano di apparire mere chiacchiere se intese come panacea per i mali della nostra società. La parola dimenticata, il concetto che il vecchio magistrato avrebbe dovuto contrapporre alla Legge, è la Giustizia ed in primo luogo la giustizia sociale.
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