ghisi grütter
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mercoledì 15 gennaio 2020
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sulle macerie del “dopo” guerra
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“Dylda”, il titolo originale del film, è un doloroso dramma esistenziale sulle macerie della guerra. Dylda vuol dire “spilungona” (la protagonista), ma anche “goffaggine” ed è l’elemento costante di tutto il film che pervade ogni personaggio e ogni azione.
Siamo in Russia a Leningrado, una città stremata dalla alienazione dell’assedio, nell’autunno del 1945, il primo dopo la fine della Grande Guerra. In ospedale si curano i reduci, alcuni con ferite leggere, altri molto gravi. L’infermiera Iya (interpretata dall’esordiente Viktorija Mirošničenko) è una ragazza molto alta, chiamata per questo “Giraffa”, che collabora con il dottor Ivanovic (Andrey Bykov) nella cura dei malati.
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“Dylda”, il titolo originale del film, è un doloroso dramma esistenziale sulle macerie della guerra. Dylda vuol dire “spilungona” (la protagonista), ma anche “goffaggine” ed è l’elemento costante di tutto il film che pervade ogni personaggio e ogni azione.
Siamo in Russia a Leningrado, una città stremata dalla alienazione dell’assedio, nell’autunno del 1945, il primo dopo la fine della Grande Guerra. In ospedale si curano i reduci, alcuni con ferite leggere, altri molto gravi. L’infermiera Iya (interpretata dall’esordiente Viktorija Mirošničenko) è una ragazza molto alta, chiamata per questo “Giraffa”, che collabora con il dottor Ivanovic (Andrey Bykov) nella cura dei malati. Vive con Pashka, un bambino di due anni che tutti credono sia suo figlio, ma è figlio della sua amica Masha (interpretata dall’altrettanto esordiente Vasilisa Perelygina), ausiliare in guerra. Iya era tornata prima dal fronte, e l’hanno mandata a fare l’infermiera perché soffre di un disturbo post traumatico da stress, ipnosi epilettica senza convulsioni, si irrigidisce all’improvviso e rantola.
Quando Masha torna dal fronte, il piccolo Pashka non c’è più. Un incidente nell’abbraccio di Iya o una morte premeditata per non restituirlo alla legittima madre?
Nel film non c’è la risposta, ma è rappresentata invece la reazione di Masha che vuole generare subito un’altra vita. Dice a Iya: «Voglio una vita dentro di me, qualcosa a cui aggrapparmi», convinta che un figlio la possa guarire. Purtroppo scoprirà di non potere più avere figli in quanto in varie operazioni (o in una?) le hanno asportato l’utero, quindi chiede e impone alla amica Iya di generare per lei. Ma Iya non vuole rapporti sessuali con gli uomini, vuole stare solo con lei. Piena di sensi di colpa per non aver saputo vegliare su Pashka e di avergli causato la morte (involontariamente?), accetta passivamente di avere un rapporto sessuale con il medico dell’ospedale per cercare di rimanere incinta e risarcire l’amica.
C’è un ossimoro tra l’esteriorità brillante, narrata con uno sguardo pittorico a colori saturi e caldi come il verde, il rosso e l’ocra, e l'interiorità, fredda, distaccata, egocentrica. La guerra ha contato più di venti milioni di morti in Russia, ma le devastazioni e le macerie non si trovano solo fuori. Sono rimaste dentro ferite aperte da cui si cerca di guarire con fatica. E sono proprio le conseguenze della guerra, in un potente racconto per immagini, a essere le vere protagoniste narrate. Infatti il film mostra sia chi non avrà il coraggio di ritornare e affrontare la realtà del “dopo” e chi, come le due donne, troverà invece la forza di andare avanti nella compassione e nella solidarietà.
“La ragazza in autunno” è girato quasi completamente negli interni, squallidi e poveri, con gesti quotidiani esasperati ed esasperanti nella lentezza dei tempi reali.
Nel suo secondo lungometraggio Bagalov, regista russo non ancora trentenne, mostra una grande maturità tecnica ed espressiva del giovane regista . In questo film rappresenta persone e rapporti affettivi con una visione parossistica. Così anche lo strano rapporto tra Maha e Sasha (interpretato da Igor’ Širokov) un ragazzo agiato, ma insicuro e impacciato.
Kantemir Balagov, è un regista russo di 28 anni, allievo di Alik Sakarov, che si era già fatto notare due anni fa con la sua opera prima “Tesnota” (“Closeness” il titolo internazionale) ambientato” nel 1998 a Nalchik, nel Caucaso del Nord. Con questo film, vincitore del premio Certain Regard al Festival di Cannes, passato al Festival di New York e candidato per la Russia tra i Migliori Film Stranieri all’Oscar, proietta al passato una serie di problemi attuali come l’eutanasia, la maternità surrogata e l’omosessualità.
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paola di giuseppe
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martedì 14 gennaio 2020
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storia di donne, di morte e resurrezione
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Leningrado,autunno 1945,la guerra è finita,la città riprende i suoi traffici, le strade si popolano, i feriti guariscono o si rassegnano a vivere senza gambe o braccia, le donne tornano a casa dal fronte.Donne-soldato, utile complemento per uomini che combattono.Masha è piccolina, un viso pulito e un sorriso dolce. Non può più avere figli, ha abortito troppe volte e il piccolo Pascka ha dovuto affidarlo a Iya.Morto l’ultimo compagno degli innumerevoli partners combattenti, non poteva più tenerlo con sé.
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Leningrado,autunno 1945,la guerra è finita,la città riprende i suoi traffici, le strade si popolano, i feriti guariscono o si rassegnano a vivere senza gambe o braccia, le donne tornano a casa dal fronte.Donne-soldato, utile complemento per uomini che combattono.Masha è piccolina, un viso pulito e un sorriso dolce. Non può più avere figli, ha abortito troppe volte e il piccolo Pascka ha dovuto affidarlo a Iya.Morto l’ultimo compagno degli innumerevoli partners combattenti, non poteva più tenerlo con sé. Iya è tornata dal fronte, l’hanno spedita a fare l’infermiera perché ha un disturbo post traumatico da stress, ipnosi epilettica senza convulsioni, si irrigidisce all’improvviso e rantola.Iya è una donna altissima, la chiamano giraffa.Il piccolo Paska è il suo giocattolo, ma poi Masha tornerà e il bimbo non sarà più il suo.Fra le due donne c’è un legame strano, misterioso,oltre l’affetto,l’amicizia, la solidarietà femminile.Su tutto regna ancora la fame, prostituzione per sopravvivere,donne alla deriva, rapporti di classe, di potere, alleanze effimere, incontri casuali come quello fra Masha e Sasha, tarato nel fisico e viziato dai genitori, figlio di ricchi esponenti di una nomenklatura che passa indenne attraverso tutte le guerre.Una sequenza memorabile, la più parlata in un film scandito dai blackout di Iya, dominato da silenzi, ellissi e rallentamenti improvvisi.In quel palazzo dal frontale spavaldamente palladiano si scontrano due donne di opposti destini, Masha e la madre di Sasha, e la miseria dell’una sarà fango gettato sull’ostentata opulenza dell’altra.Nata nella città siberiana di Irkutsk Viktoria Miroshnichenko è Iya. Alta oltre la media, magra da sembrare prosciugata fino alle ossa, di un biondo quasi bianco che ben interpreta i colori della sua terra,incarna il titolo originale del film, Dylda, in russo "spilungona" ma anche “goffaggine”.La goffaggine è nei gesti, nelle parole (poche), nelle relazioni reciproche, riassume tutto ciò che in un mondo devastato oltre ogni umana immaginazione si ricomincia a fare per rimettersi in equilibrio.Masha vuole un figlio che la risarcisca della perdita dell’altro, non può averlo e allora affida la missione a Iya; Sasha è un povero ragazzo tarato e insicuro, scopre il sesso con Masha e vuol sposarla.Nulla di più improbabile. Masha indossa per l’occasione un povero vestito verde brillante, affidare ai colori una rinascita alla vita si può, ma la derisione della dama con cane di razza che vive nella villa opulenta la rigetta nel suo tugurio. Balagov inonda la scena di colori caldi,l’interno della camerata d’ospedale è un luogo di allegria, sorride perfino il piccolo Paska agli scherzi dei malati;nel bar si beve, si balla; la grande sala del bagno pubblico femminile pullula di corpi nudi, ma che distanza dalle odalische di Ingres!Balagov, con la sua camera a mano, sembra accarezzare quei corpi che hanno subito violenze di ogni genere, segue da vicino le due ragazze, ne racconta i sorrisi tenui, gli occhi smarriti, la dolcezza e la forza che, nonostante tutto, sprigionano.Nascere e vivere al confine con la Cecenia certo ha avuto un ruolo determinante nella sua formazione e il magistero di un grande Maestro come Sokurov ha fatto il resto, il libro di Svjatlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna ha fornito molti spunti.Il suo è uno sguardo giovane e intenso sulla Storia, il talento innato una credenziale forte, si respira aria di vero cinema che da tempo mancava.E di poesia.
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ashtray_bliss
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mercoledì 2 dicembre 2020
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donne, guerra e violenza. virtuoso ritratto russo.
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Il giovane regista russo Balagov confeziona un memorabile lungometraggio, intimo e incisivo, poetico e al contempo crudo e feroce, che mette in primo piano l'esperienza femminile raccontandone il dramma, i traumi e il dolore, esplorando le ripercussioni della guerra a livello emotivo, psicologico e naturalmente fisico. Basandosi e ispirandosi al libro La Guerra non ha il Volto di Donna, Balagov restituisce un affresco visivamente potente e suggestivo che cattura lo spettatore grazie sopratutto all'uso impeccabile della fotografia: vivida, calda, avvolgente con i suoi marcati contrasti tra i colori dominanti rosso e verde, creando un'antitesi vigorosa- tanto metaforica quanto visiva- con gli ambienti esterni, freddi, spogli, decadenti, pienamente allineati col contesto storico e sociale che circonda le due indiscusse protagoniste, Iya e Masha, e anche col loro mondo interiore, sgretolato, profondamente e irrimediabilmente ferito.
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Il giovane regista russo Balagov confeziona un memorabile lungometraggio, intimo e incisivo, poetico e al contempo crudo e feroce, che mette in primo piano l'esperienza femminile raccontandone il dramma, i traumi e il dolore, esplorando le ripercussioni della guerra a livello emotivo, psicologico e naturalmente fisico. Basandosi e ispirandosi al libro La Guerra non ha il Volto di Donna, Balagov restituisce un affresco visivamente potente e suggestivo che cattura lo spettatore grazie sopratutto all'uso impeccabile della fotografia: vivida, calda, avvolgente con i suoi marcati contrasti tra i colori dominanti rosso e verde, creando un'antitesi vigorosa- tanto metaforica quanto visiva- con gli ambienti esterni, freddi, spogli, decadenti, pienamente allineati col contesto storico e sociale che circonda le due indiscusse protagoniste, Iya e Masha, e anche col loro mondo interiore, sgretolato, profondamente e irrimediabilmente ferito. Tanto da servire come specchio narrativo di una società dilaniata e piegata che prova disperatamente a rimettersi in piedi, a guarire, a costruirsi un futuro seppur basato su mere illusioni e sogni infranti, irrealizzabili a causa delle circostanze, della miseria e povertà. E di cui le protagoniste diventano i simboli.
Ci troviamo infatti a Stalingrado all'alba dell fine della Seconda Guerra Mondiale e seguiamo inizialmente la vita di Iya, una giovane infermiera dal viso pallido e dalle gambe lunghissime tanto da guadagnarsi l'appellativo di "giraffa", che presta il suo servizio presso un ospedale assistendo soldati ricoverati in reparto ma diventando anche, all'occorrenza, angelo di morte, dispensando salvezza dalle sofferenze insopportabili dei reduci di guerra. Ma lei stessa soffre di un disturbo da stress post traumatico che si manifesta con una forma di epilessia che porta ad avere delle assenze, dei blocchi in cui il tempo e lo spazio per lei si fermano creando un vuoto. Un vuoto che si dimostrerà fatale per il piccolo Pashka, figlio dell'amica Masha ancora sul fronte, morto innocente durante uno degli episodi della giovane infermiera. Inizia così a tessersi e delinearsi questo dramma intenso e vibrante che echeggia i classici della letteratura russa e con sguardo asciutto e privo di pietismi esplora le dinamiche che regolano il rapporto tra le due donne ma anche col mondo esterno. Un rapporto costruito sulla reciproca fiducia e amicizia, forse anche attrazione, ma che presto si tramuterà in qualcosa di ambiguo e sinistro con Masha che inizia a manifestare un comportamento manipolatorio e persuasivo nei confronti dell'amica, rea confessa dell'involontario omicidio. Ma la voglia di realizzarsi come persona attraverso la maternità è più forte di Masha che non si arrende nemmeno davanti all'evidenza clinica, quella che bruscamente le comunica che non può più aver figli. Una rivelazione pesante come un macigno per la giovane ragazza che decide allora di usare la sua amica come mamma surrogato per realizzare il suo sogno, a tutti i costi.
Ecco allora che il regista presta uno sguardo preciso, delicato ma profondo, sulla fragilità della psiche femminile. Specialmente quella di una donna che è stata sul fronte, ma non come soldatessa. Quella di cui il corpo è stato sfruttato, martoriato, abusato. In un potente e memorabile, visivamente ed emotivamente, dialogo verso la fine della pellicola la stessa Masha rivelerà alla donna borghese che siede di fronte a lei, di essere grata del suo corpo poichè le ha permesso di sopravvivere. Ma il prezzo da pagare è stato altissimo e va ben oltre l'umiliazione e il dolore fisico. E' quello dei diritti riproduttivi negati, strappati via con la forza per evitare gli aborti continui, e permettere ai soldati di "distrarsi". E Iya non è meno segnata o ferita, nel corpo e nell'anima, da ciò che ha visto, ciò che lei stessa probabilmente ha subito e manifestandosi col disturbo epilettico.
S'instaura così il doloroso ma necessario discorso sul dolore e sulla violenza di cui è intriso questo racconto; violenza di genere, naturalmente, ma anche quella provocata dalla guerra e successivamente dalla povertà e disparità sociale. Emblematica e caratteristica è ancora una volta la relazione tra Masha e Sasha, giovane borghese che s'innamora e s'impietosisce delle precarie condizioni in cui versano le giovani apprestandosi ad aiutarle economicamente. Ma il contrasto sociale si manifesterà appieno soltanto in ultimo, durante il pranzo a casa della famiglia di Sasha, dove le discrepanze, le inuguaglianze e ingiustizie sociali verranno prepotentemente a galla, in un crescendo che trasporta al suo interno dolore e rabbia, amplificando e infiammando le differenze sociali.
E sulle luci soffuse e le ombre riflesse che dominano lo schermo, viene narrata una storia di donne, solitudine, disperazione ma anche speranza e voglia di rinascita. Raccontata specialmente attraverso i corpi delle protagoniste. Sui loro movimenti e sguardi, i loro sorrisi e silenzi, le loro cicatrici e lacrime si compone questo poetico puzzle di immagini e contenuti. Un film d'autore che scalfisce e penetra nello spettatore grazie alla sua maestria e abilità che, senza virtuosismi o sensazionalismi, restituisce un'opera dai contenuti stratificati e meravigliosamente amalgamati.
Nessuna sbavatura, nessun eccesso, nessuna scena o dialogo fuori posto. Sulle orme di Sokurov, il giovane regista conferma il talento e l'abilità tecnica nonchè la disinvoltura nel trattare argomenti spinosi e dall'eredità storica e sociale molto pesante, già incontrata e affermata nel precedente dramma di confine Tesnota (un confine metaforico: etnico, religioso, emotivo).
Le emozioni fortunatamente dominano anche questa volta e rendono La Ragazza d'Autunno (come da poetico adattamento in Italiano dell'originale Dylda) un film intenso, viscerale, memorabile e avvolgente. Una ricostruzione dolente ma necessaria ma anche una presa di coscienza su come le donne siano sempre quelle a pagare il prezzo più alto e a portare in modo permanente e indelebile le cicatrici, fisiche, mentali ed emotive della guerra mentre attivamente partecipano alla ricostruzione della nazione, contribuendo alla sua rinascita e riscatto, risollevando la società mentre devono ancora fare i conti con le proprie ferite invisibili. Ritratto struggente e bellissimo, come un quadro che si anima, capace di farti respirare l’orrore della violenza e assaporare la bellezza e delicatezza femminile. Una bellezza che trascende i connotati del viso, del corpo, della postura ma che risiede nella resistenza morale, nella resilienza e nella complicità di due donne che si aiutano e sorreggono a vicenda poichè entrambe vittime e carnefici che tentano di guarire.
Incantevole perla di rara bellezza e fattura, magnificamente interpretato, scritto e diretto: 5/5.
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jon woo
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giovedì 30 gennaio 2020
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la giraffa siamo noi
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il 21 giugno del 1941, una delle più grandi concentrazioni militari di tutti i tempi invase l'URSS. iniziava l'operazione Barbarossa, una guerra condotta con criteri criminali e di sterminio. Uno dei tre obbiettivi principali era proprio Leningrado, che visse un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti. Un assedio che ridusse la città alla fame e alla totale distruzione. Un tale carico di sofferenza e disumanità non poteva non avere effetti anche nel dopoguerra. Credo che se non si parte da questo dato di fatto (del resto esplicitato nella prima e unica didascalia del film che indica luogo e periodo storico, ovvero "primo autunno dopo la guerra") si rischia di perdere il meccanismo all'origine dell'opera d'arte.
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il 21 giugno del 1941, una delle più grandi concentrazioni militari di tutti i tempi invase l'URSS. iniziava l'operazione Barbarossa, una guerra condotta con criteri criminali e di sterminio. Uno dei tre obbiettivi principali era proprio Leningrado, che visse un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti. Un assedio che ridusse la città alla fame e alla totale distruzione. Un tale carico di sofferenza e disumanità non poteva non avere effetti anche nel dopoguerra. Credo che se non si parte da questo dato di fatto (del resto esplicitato nella prima e unica didascalia del film che indica luogo e periodo storico, ovvero "primo autunno dopo la guerra") si rischia di perdere il meccanismo all'origine dell'opera d'arte. Che di questo si tratta. Il "blocco" della protagonista (in realtà non “ragazza d'autunno” come recita la traduzione italiana, ma "spilungona" ovvero "inadatta", "fuori posto", appunto “giraffa”) non può che rimandare a chi ha vissuto l'indicibile e la coglie proprio nei momenti di maggior coinvolgimento emotivo, come se volesse mantenere quella corazza che, durante l'assedio, è stata necessaria per sopravvivere. Un "blocco" però portatore di morte in una situazione generale che, pur se a guerra finita, rimane devastata. Fra chi cerca la morte per uscire da una condizione personale irrimediabile, a chi cerca nuova vita per andare avanti, a suggello della mostruosità di un conflitto entrato nel profondo di una umanità sofferente. Si tratta di un lavoro difficile, complesso e con tempi dilatatissimi, dove anche il sesso non ha più nessuna relazione con l'umano avvicinarsi di 2 corpi. Per me un capolavoro che resta una volta usciti dal cinema, con interpreti straordinari.
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eugenio
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giovedì 7 maggio 2020
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maternità surrogata, leningrado, 1945
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Gelido, drammatico e implacabile con scene esteticamente incredibili a ben pensare ma plausibili considerando il periodo storico in cui esso è ambientato. Tutto ciò è La ragazza d’autunno.
Leningrado, autunno 1945. Iya (Viktoria Miroshnichenko), detta Giraffa (titolo originale del film "Beanpole"), slavata russa infermiera in un ospedale per veterani, soffre di una sindrome post-traumatica con convulsioni inaspettatamente violente che la congelano, la paralizzano e la fanno respirare con fatica. Con lei vive un bambino di tre anni, Pashka, che apprendiamo essere non suo figlio (checchè questo la chiami “madre”) ma di Masha (Vasilisa Perelygina), giovane più o meno coetanea, di ritorno dal fronte per vendicarsi del marito ucciso dai tedeschi.
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Gelido, drammatico e implacabile con scene esteticamente incredibili a ben pensare ma plausibili considerando il periodo storico in cui esso è ambientato. Tutto ciò è La ragazza d’autunno.
Leningrado, autunno 1945. Iya (Viktoria Miroshnichenko), detta Giraffa (titolo originale del film "Beanpole"), slavata russa infermiera in un ospedale per veterani, soffre di una sindrome post-traumatica con convulsioni inaspettatamente violente che la congelano, la paralizzano e la fanno respirare con fatica. Con lei vive un bambino di tre anni, Pashka, che apprendiamo essere non suo figlio (checchè questo la chiami “madre”) ma di Masha (Vasilisa Perelygina), giovane più o meno coetanea, di ritorno dal fronte per vendicarsi del marito ucciso dai tedeschi. Ma a un certo punto, mentre Iya e Pashka giocano sul pavimento di legno del loro piccolo appartamento, la donna ha uno dei suoi attacchi e soffoca inavvertitamente il bambino sotto il suo peso, spietatamente ma senza colpe.
Masha, occhi disperati e assetata di vita oltre che sterile a seguito di una orrenda ferita provocata da una granata, richiede lo scotto di quella perdita: Dirà, cinica: Il mio bambino non me lo hai protetto quindi adesso me ne darai uno nuovo. Magari con uno di quei soldati.
Il là alle danze del film di Kantemir Balagov, classe 1991, allievo della scuola di Sokurov, impostosi con prepotenza con il suo esordio, Tesnota, vincitore per la miglior regia, Un Certain Regard a Cannes, premiato al Torino Film Festival, è presto dato. E apparentemente senza speranza, La ragazza d’autunno si muove nei meandri di una Leningrado fatta di anime buie dostojevskiane, intrise di dolore, di squallidi interni, di miserie del mondo di sopra e di sotto, di macerie morali imposte dalla guerra col suo gravido carico di traumi.
La storia di una frattura terribile per la comunità russa si specchia nel comportamento ondivago, “inutile dentro” e stranito di Iya, una donna distrutta dalla privazione, una vita sconvolta da ricostruire, in maniera surrogata per farne vivere un’altra non sua. Per far questo, Bagalov sceglie un’atmosfera fatta di colori caldi, di piccole baracche, di vite scrostate ai margini che guardano ai temi del sacrificio e dell’amore su cui si innesta algida una borghesia fredda e inaccurata, quella cui appartiene il portantino russo, Sasha, futuro marito di Masha.
Doppie vite, colori verdi e rossi si fondono nel sangue della tragica storia russa, con oltre venti milioni di morti e soprattutto di coloro che alla morte sono sopravvissuti, lasciando nei loro cuori strascichi di ferite e traumi duri a morire, in esso si nasconde il senso della ragazza d’autunno. Ma è soprattutto quella voglia di vivere che si innalza dalle macerie, si respira, nonostante tutto e tutti, da questa desolante terra eliottiana che ha lasciato la seconda guerra mondiale, quella (e questa) voglia di vivere a prevalere. In un bel dialogo tra Masha, forse il personaggio meglio caratterizzato e la madre di Sasha che sposerà, si legge tutto il sentimento di vita, quella voglia di salire dagli inferi, di entrambe le donne, due, lo specchio uno dell’altra che si dividono la scena, spezzate dalla voglia di avere una vita a cui “aggrapparsi”.
Il distico vita-morte permea le oltre due ore e quindi della pellicola, una storia di maternità surrogata nella rinascita russa, di anime morte in continuo movimento, che come falene attratte dalla luce della vita, cercano di rimettersi in moto, avendo bisogno le une delle altre, per sancire la loro esistenza.
Iya intorpidita dalla vita si aggrappa a Masha, assecondandola anche nelle sue direttive secondo l’imposizione darwiniana della legge del più forte. E Masha finisce per crederci, imbastisce quel teatrino di vita, già distrutto dal conflitto, nel disperato e disperante bisogno di amore e di conforto. Anche se ahimè illusorio.
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dino70
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mercoledì 24 marzo 2021
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iya e masha in simbiosi oltre la fame e la guerra
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Inverno 1945 - Leningrado. La guerra è agli sgoccioli, ormai è alla fine, ma per la città russa non è finito un conflitto bellico, ma probabilmente un inferno dantesco irrappresentabile, un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti, parte dell’operazione Barbarossa iniziata dai nazisti nel 1942, una delle più grandi concentrazioni militari di sempre condotta con criteri criminali e di sterminio.
Questo grande film di Kantemir Bagalov è la storia di due donne, tra le tante che sostituiscono gli uomini morti in guerra e assumono anche ruoli che sembravano inadatti a loro; non solo infermiere, cuoche o telefagriste o operaie, ma anche soldatesse.
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Inverno 1945 - Leningrado. La guerra è agli sgoccioli, ormai è alla fine, ma per la città russa non è finito un conflitto bellico, ma probabilmente un inferno dantesco irrappresentabile, un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti, parte dell’operazione Barbarossa iniziata dai nazisti nel 1942, una delle più grandi concentrazioni militari di sempre condotta con criteri criminali e di sterminio.
Questo grande film di Kantemir Bagalov è la storia di due donne, tra le tante che sostituiscono gli uomini morti in guerra e assumono anche ruoli che sembravano inadatti a loro; non solo infermiere, cuoche o telefagriste o operaie, ma anche soldatesse.
Sono i volti delle due protagoniste Iya (Viktoria Miroshnichenko) e Masha (Vasilisa Perelygina) che raccontano un dramma che non si può narrare, solo leggere ed intuire attraverso le loro espressioni, i loro scatti, le loro gioie mai lontane dall’ira trattenuta, protagoniste di un mondo che cerca di trovare una speranza, ma afflitte da una fame dove a mancare non è solo il cibo.
Film duro, un pugno nello stomaco, ma di una purezza cinematografica unica.
Iya (Viktoria Miroshnichenko) fa l’infermiera; è bionda molto alta e svagata, ha una malattia da stress che la fa improvvisamente assentare, fissa qualcosa e si paralizza. Masha è tornata dal fronte, segnata nella mente e nel corpo, ma si inventa una sua vitàlità quasi maschile e possessiva per sopravvivere, per dichiararsi viva, e per legarsi-slegarsi simbioticamente all’amica che ha conosciuto al fronte e che le stava crescendo il figlio, dopo essere stata congedata per la sua malattia.
Una magnifica fotografia (di Ksenia Sereda) che ricorda certi colori bergmaniani, e tutta un’atmosfera disperata e disperante, intrisa di un feroce cinismo come unica àncora di salvezza che ricorda i libri di grandi scrittori contemporanei. come Agota Kristov o Roman Gary.
Il regista Kantomir Bagalov conferma tutto il suo talento, con una regia perfetta e virtuosa all’interno di una messinscena creata con maestria.
Film che lascia il segno, grande cinema d’autore.
Indimenticabile davvero la prova attoriale delle due protagoniste, le attrici russe Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina.
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fabiofeli
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martedì 14 gennaio 2020
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la guerra al femminile
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Inverno 1945 a Leningrado. Le donne sostituiscono gli uomini che cadono in guerra e assumono anche compiti che sembravano inadatti a loro; non solo infermiere, cuciniere e telegrafiste, ma anche operaie e soldatesse. Iya (Viktoria Miroshnichenko) fa l’infermiera; è una ragazza bionda molto alta e svagata, soggetta ad assenze: fissa lo sguardo su qualcosa e vive fuori dal presente. Masha (Vasilisa Perelygina) è una amica di Iya, che viene inviata al fronte: affida alla “spilungona” il figlio di pochi anni, che per disgrazia muore soffocato dal peso della ragazza durante uno dei suoi periodi di incoscienza.
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Inverno 1945 a Leningrado. Le donne sostituiscono gli uomini che cadono in guerra e assumono anche compiti che sembravano inadatti a loro; non solo infermiere, cuciniere e telegrafiste, ma anche operaie e soldatesse. Iya (Viktoria Miroshnichenko) fa l’infermiera; è una ragazza bionda molto alta e svagata, soggetta ad assenze: fissa lo sguardo su qualcosa e vive fuori dal presente. Masha (Vasilisa Perelygina) è una amica di Iya, che viene inviata al fronte: affida alla “spilungona” il figlio di pochi anni, che per disgrazia muore soffocato dal peso della ragazza durante uno dei suoi periodi di incoscienza. E’ già un macigno che cade sullo spettatore difficile da rimuovere assieme alla visione dell’ospedale con i feriti di guerra: si afferra subito l’inutilità di uno spillo che sfiora e tocca senza nessuna reazione piedi, gambe, schiena e mani di un tetraplegico. E nell’ospedale vanno coraggiose ed umane funzionarie di partito per tentare di risollevare il morale di chi ha già dato una parte importante di sé alla madrepatria: un misero pacco avvolto nella tela di canapa legato con un fiocco rosso contiene un regalo altrettanto misero per le feste che arrivano a chi ha già perso un occhio, una mano, un arto. Masha, però, per effetto della guerra ha perso un figlio ed il suo grembo è ormai infecondo. Ma ha una folle idea: se Iya accetta, una soluzione c’è; per tutte e due. “Noi due guariremo” sussurra Masha all’amica, svelandole il suo piano …
Kantemir Balagov, il regista 29enne del film, ci ha già ampiamente convinto con Tesnota (2017), la pellicola opera prima di grande valore, testimonianza che le lezioni di Aleksandr Sokurov (autore della famosa Trilogia, di Arca russa e Faust) producono grandi risultati negli allievi. Questa tragedia tratta dal libro La guerra non ha un volto di donna di Svetlana Aleksievic osserva il ruolo della donna di fronte alla guerra: il “sesso debole” rivela tutta la sua forza perché sa donare il miracolo della vita e sa anche dispensare la misericordia della morte a chi soffre. Nel film non si individua nessun errore: non nella sceneggiatura, nella fotografia e nella recitazione; e neanche nella ambientazione e nel montaggio, o nella musica dove si alternano pezzi classici e canzoni popolari. La macchina in mano non perfettamente ferma è una trascurabile pecca: va bene così, perché ci era capitato di salire così in alto con il cuore così pesante solo con grandissimi registi affermati e promesse di astri nascenti – tralasciamo le citazioni perché l’elenco sarebbe troppo lungo e noioso -. Non spendiamo neanche troppe parole: possiamo sbilanciarci dicendo che il film attinge quasi alle vette del capolavoro ed è imperdibile.
Valutazione **** e ½
FabioFeli
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