Benedetta follia

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L’amore sacro e l’amor profano Valutazione 3 stelle su cinque

di Eugenio


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domenica 21 gennaio 2018

C’è stato (e per fortuna c’è ancora) nel cinema di Carlo Verdone un retrogusto amaro di ipocondria e idiosincrasia che lo avvicina alla filmografia di Woody Allen, clichè di un personaggio mutevole dalla incerta sfumatura psicologica incapace di affrontare la vita e il destino con serenità.
Il leitmotiv accompagna un pò tutte la produzione del regista-attore romano: da Borotalco, Bianco Rosso  e Verdone, Compagni di scuola, Viaggi di Nozze, sino a Ma che colpa abbiamo noi, Io,Loro e Lara per proseguire nel 2018 con Benedetta follia, il nuovo film nelle sale dall’11 gennaio.
La storia è quella di Guglielmo (Carlo Verdone), proprietario di un negozio - ereditato dal padre- di articoli ecclesiastici e sacri, che lasciato dalla moglie (Lucrezia Lante dalla Rovere) per un’altra donna l’anniversario del venticinquesimo anno  -vedi Manhattan di Woody Allen del 1979- per la commessa del negozio (sic!), dopo la conseguente crisi, si trova totalmente solo e frustrato dai mali della nostalgia e della solitudine.
Ci penserà Luna (una convincente Ilenia Pastorelli, ex GF, ex modella ed ex ragazza di Jeeg Robot), la borgatara coatta assai poco colta ma dalla grande umanità (oltre che dal pesante debito) a salvare “le sorti” della reprimenda di Guglielmo, tingendo d’arcobaleno il colore grigio di un’esistenza votata al ruffianesimo del clero. E, cosa più importante, permettendo all’ipocondriaco protagonista di tornare a mettere in moto la sua “vecchia” ma funzionante moto, feticcio di un incidente e di un trauma risalente al lontano 1992 con cui si apre la pellicola.
Io voglio vivere, non esistere!
Così urla in una delle scene -meglio riuscite del film- il personaggio di Carlo Verdone, sancendo la sua dignità perduta in discoteca dopo una pasticca di ecstacy che le diaboliche amiche di Luna in macchina gli hanno dato spacciandolo per analgesico. Nel delirio da trip con un altro sé stesso, quello di un Guglielmo gagliardo, pronto a conquistare il mondo nei ruggenti anni ’80, si legge il patema generazionale di chi da quel mondo è stato respinto per adattarsi a un quieto vivere affogato nell’accidia e nel rimpianto d’amor perduto, sulle note struggenti de “La stagione dell’amore” di Franco Battiato.
Eppure chi conosce le pellicole del Carletto nazionale, sa che rimpianto e nostalgia fanno il paio con ironia e grottesco le armi di cui l’animo umano si dota (per scelta o per necessità) al fine di resistere agli urti della vita. E così, un po’ come il Servillo di Lasciati andare, Gugliemo si affida alla svampita Luna per rinnovare la sua vita, o almeno per  ritrovare lo smalto del passato.
E se il secolo scorso viveva l’arte del corteggiar con fiori e dediche a parole e in casi estremi con  serenata alla Giulietta e Romeo, nel mondo dei social, tutto vive di incontri virtuali, di applicazioni sullo Smartphone, di amicizie spesso non propriamente trasparenti.
Così se i tentativi di approccio di un Guglielmo “poco incline alla tecnologia” con nuove (im)probabili fidanzate alternano l’increscioso e il ridicolo da cinepattone (con un apice nel cameo di un’assatanata Adriana che in un gioco erotico col telefono iniziato al ristorante termina la sua esperienza in ospedale), dall’altro il risalto a un film scucito e frammentato è fornito dalla vena satirica di Verdone, in alcune sue classiche ipocondrie e soprattutto nel rapporto, contrastato, con la sua “alter-ego” Pastorelli in cui si legge lo spasamento di un uomo borghese e “vintage” nei confronti di una  cultura giovanilistica e spavalda.
Guglielmo, malinconico e depresso, finisce per abbracciare la benedetta follia, ed è proprio questo il limite del film. La ricerca a tutti i costi di un happy-ending frettoloso, il bascular continuamente tra due stadi, quello della ricerca di una nuova vita e l’esilio faticosamente rimandato (il legame perduto con la moglie), non graffiano, non incidono la pelle dello spettatore. Fanno ridere ma non riflettere.
Ed è un peccato. Un conto è uscir dalla sala dimenticandosi il film dopo mezz’ora, liquidandolo come prodotto appena corretto, contentino di due ore di relax da week-end, un altro è riuscire a mostrare come la nostra vita di ipocondriaci quotidiani possa essere presa in giro, bistrattata e sardonicamente ritratta, lasciandoci immergere con empatia nel sinistrato personaggio verdoniano di turno.
Cosa che Benedetta follia raramente fa.
Resta comunque Verdone. E tanto ci basta.

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