Peccato che a El Royale non ci sia Tarantino
di Emiliano Morreale La Repubblica
Dopo un film dai temi sociali (Moonlight) e una rilettura "adulta" del western (Hostiles), quest'anno il film d'apertura della Festa di Roma sceglie i territori del film di genere in chiave manierista, con un cast di grande rilievo. Fine anni sessanta, in un albergo fatiscente a Lake Tahoe, tra California e Nevada, arrivano alcuni strani personaggi. Qualche tempo prima, ci spiega il prologo, in quel luogo qualcuno aveva commesso un omicidio e sotterrato un bottino. Adesso, invece, il luogo è teatro di un rapimento, e un detective dell'FBI (Jon Hamm, il Don Draper di Mad Men) osserva, e intorno ruotano altri personaggi: Jeff Bridges è un prete, Dakota Johnson la ragazza che vuol salvare la sorella, Cynthia Erivo una cantante, Chris Hemsworth una specie di inquietante guru, e c'è anche il regista Xavier Dolan nel ruolo di un produttore musicale. In una certa unità di tempo e di luogo, assisteremo a una serie di rivolgimenti e colpi di scena più o meno cruenti. Fin dalle prime scene, però, è chiaro che al regista non interessa tanto la tenuta del racconto, quanto ricreare un'atmosfera vintage e onirica, con situazioni sempre al limite dell'irrealtà. Un territorio, dunque, estremamente scivoloso. Musiche d'epoca, scenografie esplorate dalla macchina da presa nella fotografia barocca di Seamus McGarvey: insomma, un modernariato che sembra essere lo scopo ultimo del film, con momenti anche affascinanti ma, in fondo, mai originali, e fortemente debitore alle reinvenzioni di David Lynch e soprattutto di Quentin Tarantino. I personaggi rinchiusi possono ricordare quelli di The Hateful Eight, l'omaggio alla black music sembra venire anch'essa dal mondo tarantiniano, il luogo stesso potrebbe essere una versione espansa del bar rétro in cui ballavano Travolta e Uma Thurman in Pulp Fiction (l'atmosfera è da anni 50 dismessi, abbandonati). Ma c'è da dire che Tarantino oltre che un inventore (o un re-inventore) sempre talentuoso e astuto, è uno sceneggiatore e dialoghista di altissimo livello, capace di sostenere anche grazie a questo i giochi più virtuosistici. Mentre Goddard (sceneggiatore e regista con nutrita carriera cinematografica e televisiva) sembra limitarsi a impiantare uno schema un po' a tavolino, in maniera a tratti gradevole e perfino affascinante, ma senza tenerne sempre il controllo (il film dura due ore e venti).
Da La Repubblica, 19 ottobre 2018
di Emiliano Morreale, 19 ottobre 2018