goldy
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domenica 25 marzo 2018
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l'altra faccia dell'america
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La povertà non è tutta uguale ma tra le esistenti quella americana è la più riprovevole. Perché voluta, perché creata da un sistema economico sostenuto da leggi inaccettabili. Il tenace rifiuto a una qualsiasi proposta di welfare che invece caratterizza l’Europa, si fonda sulla convinzione che è il singolo che deve fare ricorso alle proprie risorse nel costruire il proprio destino in linea con la tradizione degli uomini che hanno conquistato il West e su questa convinzione si basa anche la difesa del possesso delle armi. .
Parlare di povertà diffusa nel paese più ricco del mondo ha davvero dell’incredibile e solo chi ha attraversato gli Stati Uniti la scopre con sgomento.
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La povertà non è tutta uguale ma tra le esistenti quella americana è la più riprovevole. Perché voluta, perché creata da un sistema economico sostenuto da leggi inaccettabili. Il tenace rifiuto a una qualsiasi proposta di welfare che invece caratterizza l’Europa, si fonda sulla convinzione che è il singolo che deve fare ricorso alle proprie risorse nel costruire il proprio destino in linea con la tradizione degli uomini che hanno conquistato il West e su questa convinzione si basa anche la difesa del possesso delle armi. .
Parlare di povertà diffusa nel paese più ricco del mondo ha davvero dell’incredibile e solo chi ha attraversato gli Stati Uniti la scopre con sgomento. Il cinema di Hollywood infatti se ne è sempre ben guardato dal dare spazio a problematiche sociali che affliggono il paese preferendo storie edificanti con inevitabile happy end. .E’ infatti un regista indipendente quello che ci propone il primo film che descrive la desolante condizione nella quale vivono più di 4 milioni di famiglie senza padri.
Una società, quella americana che crea sacche di povertà e, miseria morale a cui è sicuramente impedita qualsiasi via di fuga e di riscatto.
LaFlorida è per gli americani la terra promessa dove recarsi per godere del clima mite e per l’immaginario favolistico creato dai temi della Disney, mpensabile quindi ambientare il tema del degrado e della povertà in questo luogo fatato. Ed è invece proprio lì che il regista intende tirare il suo pugno allo stomaco alla pingue quanto immutabile borghesia USA. E lo fa con leggerezza ricorrendo al punto di vista dei bambini.
Senza riferimenti familiari positivi, lasciati liberi di scorazzare in assoluta libertà danno sfogo a tutte le loro fantasie di gioco quasi tutte riprovevoli. Senza una guida che ne fissi i limiti cresceranno perpetuando comportamenti difficili da sradicare e che li condannano a vite senza via di fuga e di riscatto. Così la libertà meravigliosa di cui godono che potrebbe rappresentare un’alternativa ai bambini cresciuti nelle nostre città modello “polli di allevamento” si trasforma in uno stile anarchico che li porterà sicuramente a sbattere. E qui si tratta dei loro bambini bianchi nati negli States, non neri o latinos, a essere oppressi da un sistema che crea povertà inconsulta. Il regista non da soluzioni, punta solo il dito e parla soprattutto ai propri connazionali confezionando un film di facile lettura e inequivocabile comprensibilità. La rabbia montante e il tasso di indignazione non diminuiscono grazie a un ambiente punteggiato da architetture sognanti e la disperazione per la sorte di Mooney e degli altri compagni di gioco ha il sopravvento. IL senso di impotenza per l’impossibilità di intravedere una speranza è definitiva e la certezza di assistere a una situazione così disperata non lascia spazio per apprezzamenti di tipo estetico.
Solo il manager dello squallido Motel, Daniel Dafoe oppone una fragile barriera al cinismo cieco e sordo di stato che ancora conserva un sentire empatico che stranamente non si è cancellato in lui. Un filo di speranza per un' America che ha bisogno di uscire da una paralisi centenaria non solo per il benessere dei propri cittadini ma per il mondo intero.
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vanessa zarastro
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sabato 24 marzo 2018
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peanuts all’inferno
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Il film rappresenta il mondo attuale visto attraverso gli occhi dei bambini. Questa operazione ricorda i pionieri del cinema e i grandi scrittori; ad esempio D.W. Griffith quando girava in esterno portava sempre con sé una copia di “David Copperfield” di Charles Dickens. Ma ricorda anche il mondo di Charles M. Schulz con “Peanuts”, solo che lì erano bravi bambini della middle-class negli anni del boom economico, ognuno con le sue nevrosi (c’era l’esplosione della psicoanalisi nel mondo occidentale) nel quartiere di Charlie Brown negli anni ‘60. Lì però l’habitat suburbano era tutto sintetizzato da pochi elementi: il dosso del baseball, la cuccia di Snoopy, il banchetto da psicoanalista di Lucy, il pianoforte di Shröder e così via.
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Il film rappresenta il mondo attuale visto attraverso gli occhi dei bambini. Questa operazione ricorda i pionieri del cinema e i grandi scrittori; ad esempio D.W. Griffith quando girava in esterno portava sempre con sé una copia di “David Copperfield” di Charles Dickens. Ma ricorda anche il mondo di Charles M. Schulz con “Peanuts”, solo che lì erano bravi bambini della middle-class negli anni del boom economico, ognuno con le sue nevrosi (c’era l’esplosione della psicoanalisi nel mondo occidentale) nel quartiere di Charlie Brown negli anni ‘60. Lì però l’habitat suburbano era tutto sintetizzato da pochi elementi: il dosso del baseball, la cuccia di Snoopy, il banchetto da psicoanalista di Lucy, il pianoforte di Shröder e così via. Il punto di vista era sempre ad altezza di bambino. Qui in The Florid Project - in originale – i bambini sono figli di under lumpen, di misfits, di drop-out, di sfigati che si arrabattano, in una realtà degradata, per mettere insieme quattro soldi. Donne tatuate, piercing ovunque, canne a gogo, o fanno le cameriere o rubacchiano oppure si prostituiscono saltuariamente per riuscire a pagare l’affitto nella casa-albergo color lilla, il Magic-Castle, Inn & Suites.
Siamo in Florida vicino ai parchi tematici di Disneyword Orlando, il cui primo insediamento è del 1971, secondo solo a Disneyland Los Angeles che è del 1955. È estate e Moonee, una ragazzina pestifera di sei anni figlia di Halley, trascina i suoi amichetti Scooty, Dicky e Jancey, in una serie di bravate combinando un disastro dopo l’altro: una serie di canaglie odierne. Il manager Bobby, ma anche handy-man dell’Hotel, è interpretato magistralmente da Willem Dafoe, che tra il rigore e il permissivismo cerca di aiutare, per quanto gli è possibile, questa sfortunata umanità.
Tipico del mondo di Sean Baker è mettere in scena la marginalità, così come ha fatto nei film precedenti, in Tangerine del 2015 e in Starlet del 2012. In Un sogno chiamato Florida, sono rappresentate o madri single, o nonne che tengono i nipotini, o padri single: sembra che la coppia sia un istituzione desueta. L’uso di persone prese dalla strada (o da istagram) integra quello degli attori principali e ha fatto associare il film da alcuni critici al neo-realismo. Ma a mio avviso lo stile del film è più iperrealista, nel colore delle case abbandonate ricorda la città di Edward Mani di Forbice di Tim Burton, nello straniamento delle inquadrature, nell’indugiare sullo squallore dell’area con i suoi chioschi e di alcune immagini surreali come il continuo sorvolare di elicotteri su un prato incolto, nelle improvvise piogge tropicali e nei soggetti anche banali di vita quotidiana. L'iperrealismo si era manifestato come corrente artistica alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Nell'universo iperrealista, come in quello di Wenders, convergono figure oggettuali, mezzi di comunicazione e paesaggi urbani in cui la macchina da presa si muove tra scene di vita e situazioni metropolitane senza dare giudizi, semplicemente registrando ed indugiando in lunghe carrellate su oggetti, insegne e situazioni urbane degradate con uno stile supervisivo e anaffettivo. Elementi essenziali del linguaggio figurativo iperrealista, sia in pittura sia in cinematografia, sono un'osservazione fotografica dell'oggetto, uno stile freddo e il più possibile oggettivo, una grande attenzione ai dettagli, un assoluto distacco psicologico dall'oggetto con la conseguente eliminazione delle scelte personali e soggettive, un'impressione complessiva di una specie di “presenza dell'assenza”.
Un sogno chiamato Florida è stato presentato alla Quinzaine di Cannes del 2017 e all’ultimo Torino Film Festival.
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diveboy
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sabato 24 marzo 2018
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che film... !!
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Venerdì sera in un cinema "affollato" da una manciata di spettatori, assistiamo alla proiezione in un clima simile alla Corazzata Potemkin di Fantoziana memoria. Sullo schermo scorrono immagini (bella fotografia), di vita vuota di persone vuote in non-luoghi vuoti di un america vuota. Il tutto condito dalle stridule grida assordanti di una microscopica tribù di bambinelli fuori controllo. Istruttivo (forse) per chi pensa che gli USA siano solo il glamour delle riviste patinate. Per chi conosce la verità. .. una bojata pazzesca! 1 stella, solo per la bella fotografia.
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freerider
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sabato 24 marzo 2018
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non un autentico outsider
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Non mi sento di esprimere un giudizio del tutto negativo ma non posso fare mistero del fatto che il film non mi ha entusiasmato.
Ambientazione periferica, situazioni di marginalità, colori ipersaturi e molta camera a mano ci portano dalle parti di molto cinema indipendente made in US che attraverso la riduzione delle elaborazioni narrative e formali mira ad avvicinarsi alla realtà in maniera poco o per nulla mediata. A dire il vero, per essere un progetto che ambisce ad essere un tale tipo di outsider, The Florida Project appare fin troppo attento a non oltrepassare i limiti del presentabile, in fondo i suoi personaggi non arrivano mai ad essere realmente disturbanti né a farci stare veramente male, vivono alla giornata muovendosi in un caos ipercinetico ma sembrano costantemente sospinti da uno sguardo indulgente che tende a ricomporre ogni intemperanza nell'ambito del perdonabile, salvo poi assumere una posizione moralmente giudicante nei confronti del "cliente" con famiglia.
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Non mi sento di esprimere un giudizio del tutto negativo ma non posso fare mistero del fatto che il film non mi ha entusiasmato.
Ambientazione periferica, situazioni di marginalità, colori ipersaturi e molta camera a mano ci portano dalle parti di molto cinema indipendente made in US che attraverso la riduzione delle elaborazioni narrative e formali mira ad avvicinarsi alla realtà in maniera poco o per nulla mediata. A dire il vero, per essere un progetto che ambisce ad essere un tale tipo di outsider, The Florida Project appare fin troppo attento a non oltrepassare i limiti del presentabile, in fondo i suoi personaggi non arrivano mai ad essere realmente disturbanti né a farci stare veramente male, vivono alla giornata muovendosi in un caos ipercinetico ma sembrano costantemente sospinti da uno sguardo indulgente che tende a ricomporre ogni intemperanza nell'ambito del perdonabile, salvo poi assumere una posizione moralmente giudicante nei confronti del "cliente" con famiglia...
Nulla di male nel voler stare dalla parte dei protagonisti (anche se il più difficile e interessante dei registri rimane quello del totale distacco), ma diciamo per onestà che i ragazzini perduti di Harmony Korine - se mai volessimo fare un paragone azzardato - rimangono, per potenza e coraggio, a distanza di anni luce da queste più recenti pesti scatenate che invece non lasciano mai trasparire segni di reale disagio, anzi, sembrano diretti con la chiara missione di trasmettere un continuo messaggio di allegria e libertà nonostante la situazione di totale precarietà e destrutturazione. I bambini sono chiaramente il perno del film e anche nei loro confronti si è optato per una rappresentazione di compromesso: se è vero che si tratta di un'infanzia lontana dal modello hollywoodiano, è anche vero che la simpatica sfacciataggine della piccola Moonee e dei suoi amichetti sembra in qualche modo esibita, forse uno sguardo più naturalista avrebbe lasciato maggiore respiro ai giovani interpreti concedendo loro anche qualche momento descrittivo di silenzio o di inattività, tipico dell'infanzia, invece di finalizzare ogni inquadratura saturandola con schiamazzi e dialoghi a volte scritti in chiara funzione dell'effetto sul pubblico. In questa luce colpisce anche il fatto che, oltre a non esserci una reale progressione nelle vicende narrate, la prima e unica volta in cui vediamo Moonee affranta è nel momento in cui intervengono gli assistenti sociali, sottolineatura che se da un lato può essere umanamente plausibile dall'altro scopre un certo atteggiamento "a tesi" del film che lo rende piuttosto scontato e che fa il paio con la lapalissiana simbologia per contrasto insita nell'ambientazione limitrofa a Disneyland.
Regia corretta, scena finale soffocata da musica enfatica e oltremodo invadente. Buona la prova di Willem Dafoe, nei panni del personaggio che tiene insieme il film, mentre Bria Vinaite con la sigaretta sempre tra le dita si impegna per infondere rabbia e amarezza alla figura della giovane madre single senza forse riuscirci fino in fondo.
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cardclau
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venerdì 23 marzo 2018
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psicopatologia della miseria
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Sean Baker deve essere encomiato, per farci vedere la vera faccia dell'america, degli Stati Uniti dei pochi, ma elettori, di Trump, dove non c'è posto per gli ultimi, la di gran lunga maggioranza, e dove alligna la miseria e la malattia mentale. Dove non c'è posto per la speranza, ma solo nera disperazione e una coatta assenza di proggettualità. Un america di cartapesta, valuesless (a parte "the money", il danaro), dove la gente, a meno che non sia iperdotata, non può ribellarsi, ma solo rifugiarsi in un individualismo impotente. Non c'è posto per loro (forse solo il carcere, o arruolarsi). E che ne sarà di noi, che agognamo a quel modello di vita? Una immagine desolatamente realistica, e incredibilmente deprimente.
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Sean Baker deve essere encomiato, per farci vedere la vera faccia dell'america, degli Stati Uniti dei pochi, ma elettori, di Trump, dove non c'è posto per gli ultimi, la di gran lunga maggioranza, e dove alligna la miseria e la malattia mentale. Dove non c'è posto per la speranza, ma solo nera disperazione e una coatta assenza di proggettualità. Un america di cartapesta, valuesless (a parte "the money", il danaro), dove la gente, a meno che non sia iperdotata, non può ribellarsi, ma solo rifugiarsi in un individualismo impotente. Non c'è posto per loro (forse solo il carcere, o arruolarsi). E che ne sarà di noi, che agognamo a quel modello di vita? Una immagine desolatamente realistica, e incredibilmente deprimente. Il problema risiede nel fatto che Sean Baker non riesce a far recitare credibilmente i bambini in questa parte decisamente difficile, caratterizzata da una assenza delle figure genitoriali, per rintuzzare, limitare, permettere di elaborare, il delirio di onnipotenza, per cui a loro, altrimenti, tutto è permesso. In modo, però, decisamente anaffettivo. La madre vera, di personalità borderline, pierced e ampiamente tatuata, sempre col la sigaretta in bocca, troppo spesso con lo smartphone, si squaglia troppo rapidamente, e in un desiderio, vacuo e incomprensibile di figliolanza. Le femmine del servizio sociale sono incapaci di compredere alcunché, malgrado i loro studi, del mondo infantile. Anche Willem Dafoe, solitamente un cattivo splendido, ha una parte inconsistente. E' mai possibile che gli americani, molto seri nel portare studi che evidenziano che i poveri campano meno a lungo dei ricchi, siano assolutamente ciechi nel vedere che 2 + 2 fa 4?
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(di mitchell71)
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alessiosciamanna
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lunedì 19 marzo 2018
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una gioia per gli occhi e il cuore
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Meraviglioso! si ride, ci si commuove e si scopre il volto nascosto di un'America che mai avremmo creduto potesse essere nell'assolata Florida. Ho amato "Tangerine", ma questo nuovo film di Baker è ancora più bello.
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laurapalmer86
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lunedì 19 marzo 2018
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toccante
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Un film coloratissimo per descrivere una realtà che non molti conoscono: la vicenda madre-figlia raccontata mi ha profondamente colpita e commossa,
Non mancano anche momenti divertenti che vedono protaogonisti questo ruppo di bambini scatenati. Imperdibile!
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laurapalmer86
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mercoledì 14 marzo 2018
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imperdibile!
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Ho avuto la fortuna di vedere questo gioiello al Festival di Torino e, per fortuna, il 22 marzo arriverà anche al cinema. Un film che racconta il volto nascosto dell'America, attraveros una storia commovente che tocca il cuore, impreziosita da una incredibile fotografia. Da non perdere!
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