Ma Loute

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Magritte e la lotta di classe Valutazione 3 stelle su cinque

di vanessa zarastro


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martedì 30 agosto 2016

Ma Loutte è un film corale e grottesco ambientato nel 1910 in Francia, sulla Cote d’Opale del Pas de Calais, nella Baia de la Slack.
La recitazione degli attori – una cast d’eccezione – è volutamente caricaturale, sopra le righe. La nobile e ricca famiglia Van Peteghem di Tourcoing – una delle agglomerazioni urbane di Lille - si “incontra” con la famiglia Brefòrt ,“indigena” e proletaria, di raccoglitori di cozze, traghettatori della baia e mangiatori di esseri umani (cannibali) che vive nel rione San Michel. Ma Loute, il loro riservato figlio più grande, di poche parole, ha il volto intenso di Brandon Lavieville. Per contro, la famiglia Van Peteghem, va lì ogni anno a passare le vacanze in una villa in stile egiziano situata in alto con vista mozzafiato della baia con le falesie, del Parc des Huitre e dell’oceano tutto. È costituita dallo snob André (Fabrice Luchini), da sua moglie apparentemente svampita (Valeria Bruni Tedeschi), dell’eccentrica sorella (Juliette Binoche), da uno strano cugino/cognato e della nipote Billie, ragazzo-ragazza, figlio-figlia (Ralph).
Tra Ma Loute e Billie nasce un sentimento intenso che, data la differenza abissale dei due mondi costituisce una sorta di Capuleti e Montecchi, che però avrà un epilogo diverso in quanto Ma Loute non comprenderà le ambiguità sessuali di Billie.
La situazione protocapitalista agli albori del XX secolo e la lampante differenza di classe annunciano il successivo scontro di classe che connoterà buona parte del “secolo breve”.
Molti sono i riferimenti linguistici del regista Bruno Domont: quello a Magritte è palese nel tipo di luce e nell’uomo con bombetta vestito di nero che, nel finale, vola nei cieli plumbei. Stanlio e Olio sono citati esplicitamente dall’accoppiata del pingue commissario di polizia e del suo segaligno assistente, che indagano sulle numerose misteriosi sparizioni. Anche un suo certo legame con il cinema tragico-grottesco franco-belga, come ad esempio con Olias Barco di Kill me please del 2010.
Il regista Dumont, già vincitore di premi a Cannes (L’Umanità del 1999, Flandres del 2006 e Hadewijch del 2009) in questo film si cimenta con un genere nuovo esprimendosi da un lato con un linguaggio surrealista, dall’altro non tradisce il suo piacere realista nell’impatto visivo di alcune scene.

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