writer58
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domenica 6 novembre 2016
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which side are you on? (da che parte stai?)
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[Spoiler alert: nella recensione vi sono antcipazioni sugli sviluppi del film]. Da una vita intera Ken Loach sta dalla parte degli umili, dei diseredati, di coloro che scelgono di lottare contro le dittature fasciste (Terra e libertà), dei disoccupati, degii immmigranti clandestini (Bread and roses), dei cittadini vittime del neoliberismo e della privatizzazione del welfare, dei militanti sandinisti e nordirlandesi. Anche in questo suo ultimo film (I, Daniel Blake, Palma d'oro al Festival di Cannes) riprende alcuni temi peculiari della sua produzione: la disumanizzazione burocratica, la negazione di diritti fondamentali, la privatizzazione del sistema di protezione sociale.
Daniel Blake è un falegname che ha subito, alla soglia dei 60 anni, un grave scompenso cardiaco e che richiede un sussidio di invalidità.
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[Spoiler alert: nella recensione vi sono antcipazioni sugli sviluppi del film]. Da una vita intera Ken Loach sta dalla parte degli umili, dei diseredati, di coloro che scelgono di lottare contro le dittature fasciste (Terra e libertà), dei disoccupati, degii immmigranti clandestini (Bread and roses), dei cittadini vittime del neoliberismo e della privatizzazione del welfare, dei militanti sandinisti e nordirlandesi. Anche in questo suo ultimo film (I, Daniel Blake, Palma d'oro al Festival di Cannes) riprende alcuni temi peculiari della sua produzione: la disumanizzazione burocratica, la negazione di diritti fondamentali, la privatizzazione del sistema di protezione sociale.
Daniel Blake è un falegname che ha subito, alla soglia dei 60 anni, un grave scompenso cardiaco e che richiede un sussidio di invalidità. La sua richiesta viene respinta e, in attesa del ricorso, è costretto a rivolgersi al Centro per l'Impiego per ottenere un sussidio di disoccupazione. Deve però sosttostare a un'autentico calvario burocratico: compilare un formulario su internet (lui non ha alcuna conoscenza dei computer e della rete), partecipare a un corso di formazione, dimostrare di cercare lavoro per 35 ore alla settimana. Nella ricerca di lavoro, trova anche una persona disposto ad assumerlo, ma Daniel non può accettare perché i medici hanno accertato la sua inabilità.
La sua vicenda s'incrocia con quella di Daisy, giovane donna obbligata a trasferisi a Newcastle da Londra senza lavoro e senza reddito. Daisy ha due figli piccoli ed è costretta a rivolgersi alla "Banca del cibo" per poter mangiare. Tra i due nasce un rapporto di aiuto reciproco e di solidarietà, contrapposto alla logica impersonale e Kafkiana della burocrazia del welfare inglese, rigidissimo nell'applicazione di regole che sebrano pensate per creare ostacoli e negare diritti, un autentico percorso di umiliazione per le fasce più fragili della popolazione.
Loach rende molto bene la contrapposizione tra un universo disumanizzato retto da regole escludenti e le relazioni di sostegno e di affetto che si creano tra i protagonisti (a cui si aggiungono due vicini di Daniel, un'impiegata solidale del Centro , le iniziative di supporto alimentare gestite da organizzazioni no profit). Daniel intraprende un lotta tenace per veder rconosciuti i propri diritti, fino a riempire le pareti del Centro per L'Impiego di scritte che descrivono la sua condizione. E' una scena catartica, anche se non prelude a un "happy end".
Il film mi è parso efficacissimo nel disegnare ua nuova schiera di emarginati dai meccanimi del neoliberismo ormai consolidato ed emozionante nella sua denuncia priva di qualunque retorica o ispirazione pedagogica. "I, Daniel Blake" assomiglia a quelle lezioni frontali condotte da un ottimo relatore: nessun artificio, nessuna sofisticazione tecnologica, ma contenuti "veri" veicolati atttaverso un legame emotivo tra docente e discenti.
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jacopo b98
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giovedì 27 ottobre 2016
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i tre bicchieri di ken loach
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A Newcastle il 59enne Daniel Blake (Jones), operaio in una falegnameria, avendo preso un infarto è costretto a chiedere un sussidio di invalidità. Lo stato glielo nega tramite una visita decisamente arbitraria. Per Daniel inizia un incubo burocratico, nel tentativo di fare ricorso. Intanto fa la conoscenza di una giovane madre (Squires) in difficoltà. Cercheranno di darsi una mano a vicenda, ma il destino sarà tragico per entrambi. A chi non è mai capitato, nel tentativo di prendere un bicchiere da un boccione d’acqua in un ufficio, di prenderne più di uno? Fanno sempre molta fatica a sfilarsi e spesso si finisce per ritrovarsene in mano un paio.
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A Newcastle il 59enne Daniel Blake (Jones), operaio in una falegnameria, avendo preso un infarto è costretto a chiedere un sussidio di invalidità. Lo stato glielo nega tramite una visita decisamente arbitraria. Per Daniel inizia un incubo burocratico, nel tentativo di fare ricorso. Intanto fa la conoscenza di una giovane madre (Squires) in difficoltà. Cercheranno di darsi una mano a vicenda, ma il destino sarà tragico per entrambi. A chi non è mai capitato, nel tentativo di prendere un bicchiere da un boccione d’acqua in un ufficio, di prenderne più di uno? Fanno sempre molta fatica a sfilarsi e spesso si finisce per ritrovarsene in mano un paio. O magari tre, come capita in una scena all’inizio di Io, Daniel Blake, venticinquesimo film di Loach per il cinema. In effetti, nella suddetta scena, la buona impiegata statale Ann porta allo sconvolto Daniel dell’acqua. Un osservatore attento noterà che la donna dà a Dan tre bicchieri. Un caso? Forse, ma questa casualità si inserisce perfettamente nel film, e anzi, assume un valore simbolico altissimo, quasi una dichiarazione poetica: Loach con questa immagine giura che non mentirà al suo spettatore e con il suo film andrà persin oltre il suo già accentuato verismo, mostrando sempre e comunque la realtà esattamente così com’è. Sotto questa luce si può cominciare l’analisi di Io, Daniel Blake, ennesimo capolavoro di un autore sempre schierato con gli ultimi: è un film di una potenza assoluta, di una pietas, di una dignità commovente sino alle lacrime. Lacrime che scendono inevitabilmente dai nostri occhi, messi di fronte ad una realtà di cui siamo consapevoli, ma che troppo spesso ignoriamo. La scena del banco alimentare, in cui Katie si rovescia il cibo addosso per la tanta fame, è di una essenzialità, di un realismo, di una statura cinematografica unica, grazie anche a due interpreti che donano l’anima a due personaggi indimenticabili. Non dimenticherò mai certe sequenze, certe emozioni: non è sentimentalismo, è dolore, sofferenza quella a cui Loach ci sottopone. Il dolore dell’esistenza, della realtà. Eppure il film è raccontato con una leggerezza incredibile, riesce a far sorridere anche in momenti di devastante drammaticità, quelli in cui ci si rende conto che il nostro intero Sistema ha fallito. Il finale, con il necrologio letto da Katie, è un atto d’accusa impietoso, feroce allo stato e all’umanità intera. È la morte di un Cittadino: per Loach non è routine, bensì una tragedia immane. Ha vinto una contestata Palma d’Oro a Cannes, assegnatagli dalla giuria presieduta da George Miller: molti lo han definito un film bello, ma convenzionale, a parer di chi scrive è sì un film classico, ma di un’urgenza narrativa che non poteva davvero essere ignorata. Un vero capolavoro.
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silviamorganti
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domenica 30 ottobre 2016
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un grido silenzioso di umanità
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Cento minuti di pellicola per raccontare la vita di un uomo, riassumerne il passato e concentrarsi sul suo presente: Daniel Blake. Siamo a Newcastle, di cui si vede qualche strada, qualche casa, dei capannoni, alcuni marciapiedi con steccati, interni casalinghi, un supermarket e uffici. La società contemporanea fa mostra di sé: mossa da una burocrazia schiacciante, che fa del computer uno strumento infallibile di potere e degli impiegati soltanto dei burocrati senza cuore, disumani, ciechi, incapaci di riconoscere l’umano quando è davanti a loro. Il rispetto delle regole non concede un barlume di dubbio, esitazione, strappo. Solo poche eccezioni tradiscono il quadro, come se pochi fossero “l’anello che non tiene” o il “varco” montaliano: appaiono per questo come sparuti sopravvissuti di un mondo scomparso, in cui l’umano era umano e non doveva protestare per ribadirlo, era evidente.
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Cento minuti di pellicola per raccontare la vita di un uomo, riassumerne il passato e concentrarsi sul suo presente: Daniel Blake. Siamo a Newcastle, di cui si vede qualche strada, qualche casa, dei capannoni, alcuni marciapiedi con steccati, interni casalinghi, un supermarket e uffici. La società contemporanea fa mostra di sé: mossa da una burocrazia schiacciante, che fa del computer uno strumento infallibile di potere e degli impiegati soltanto dei burocrati senza cuore, disumani, ciechi, incapaci di riconoscere l’umano quando è davanti a loro. Il rispetto delle regole non concede un barlume di dubbio, esitazione, strappo. Solo poche eccezioni tradiscono il quadro, come se pochi fossero “l’anello che non tiene” o il “varco” montaliano: appaiono per questo come sparuti sopravvissuti di un mondo scomparso, in cui l’umano era umano e non doveva protestare per ribadirlo, era evidente. Ora invece l’uomo deve scrivere su di un muro di un ufficio con una bomboletta spray: “I, Daniel Blake”, IO, sono un nome e cognome e non una pratica, un numero, un turno, un codice. Un gesto dal sapore liberatorio, un reato davanti alla legge, un grido d’aiuto raccolto da passanti e altri ‘diseredati’ che sanno ancora offrire un briciolo di solidarietà, o meglio di fratellanza (si pensa che il barbone che offre il cappotto a Daniel Blake prima che questi sia portato via dalla polizia, con le sue parole e i suoi gesti incarni il regista stesso).
Si ha timore nel vedere una simile rappresentazione, perché è lo specchio fedele della realtà.
Loach, il grande Ken Loach, con una grazia e una delicatezza senza paragoni gira un film senza mai cedere al buonismo, senza mai cedere alla tentazione di mostrare la crudeltà nei suoi risvolti più cruenti: tutto si svolge senza bisogno di attraversare fino in fondo una soglia, quella della decenza. C’è un rispetto verso la persona che è autentico, come autentico è da sempre lo sguardo di questo coraggioso regista britannico.
Gli attori sono bravi, bravissimi, in particolar modo il protagonista, interpretato da Dave Johns, e una ragazza, Kattie (nei panni dell’attrice Hayley Squires), madre di due bambini, venuta da Londra e destinata a incrociare con il protagonista il triste destino segnato dalla burocrazia.
Una scena segna la pellicola in maniera eccezionale: si svolge in una “banca del cibo”, una sorta di centro d’aiuto in cui si offrono generi di prima necessità, in cui il semplice gesto di apertura di una scatola di fagioli e il tentativo di cibarsene diventa megafono di una fame, di uno stato di povertà che lascia senza via di scampo, che inchioda tutti ad una riflessione. Si assiste a cosa vuol dire oggi umiliazione, disumanizzazione, imbarbarimento. E questo non riguarda tanto le vittime, quanto i carnefici, perché la vittima è salva, anche laddove sembra soccombere, rimanendo umana dall’inizio alla fine. È salvo Daniel Blake, uomo delicato, amante del legno, capace di aggiustare le cose e di crearne delle altre, capace di ascolto, sentinella di giustizia, generoso dispensatore di piccoli gesti salvifici, che quando esci dalla sala ti accompagna ovunque tu vada…
Un film bellissimo che ha meritato la Palma d’oro per il miglior film a Cannes nel 2016, pochi giorni prima dell’ottantesimo compleanno di Ken Loach, uomo stra-vagante e magnifico del nostro tempo.
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(di fiori del male)
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[+] w loach
(di alisbar)
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kimkiduk
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venerdì 21 ottobre 2016
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il pianto sociale
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Ho pianto e non me ne vergogno. Pianto dalla metà fino alla fine e mi trattenevo. Chi era con me ha detto "Il Pianto Sociale". Mi ha commosso il film in tutti gli aspetti, nella sua semplicità quasi frastornante, nella sua realtà perfetta e soprattutto nella sua dignità ormai persa.
Mi ha commosso perchè, per certi aspetti, sembra parli di cose mai viste, di realtà tanto sperate da essere miraggi. Ci sono persone o meglio ci possono essere persone così? Viene da pensare che di reale ci sia solo quello che è intorno, lo stato, gli impiegati iene e spietati esecutori di un risparmio a danno di chi ne ha bisogno; di poliziotti servi; di altrettanta gente riconoscente ma impossibilitata anche ad aiutare.
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Ho pianto e non me ne vergogno. Pianto dalla metà fino alla fine e mi trattenevo. Chi era con me ha detto "Il Pianto Sociale". Mi ha commosso il film in tutti gli aspetti, nella sua semplicità quasi frastornante, nella sua realtà perfetta e soprattutto nella sua dignità ormai persa.
Mi ha commosso perchè, per certi aspetti, sembra parli di cose mai viste, di realtà tanto sperate da essere miraggi. Ci sono persone o meglio ci possono essere persone così? Viene da pensare che di reale ci sia solo quello che è intorno, lo stato, gli impiegati iene e spietati esecutori di un risparmio a danno di chi ne ha bisogno; di poliziotti servi; di altrettanta gente riconoscente ma impossibilitata anche ad aiutare. Un mondo spietato che esiste, che vince sempre. Resta solo la dignità anch'essa merce rara.
Fa piangere questa realtà e fa male soprattutto. Poi pensi che questo film ha vinto Cannes, ma è anche vero che come pubblicità e come distribuzione ne è stata fatta poca e mi viene da pensare che forse è un premio ad altrettanta ipocrisia del cinema, che in fin dei conti di questo sistema (contestato dal film) ne è parte integrante.
In fin dei conti anche lo stesso Loach è frutto di un tempo ormai sparito e perdente e lui secondo me lo sa.
Lo sa e lo dice con il finale. La speranza che tutto possa essere rimediabile, con il finale non ci lascia troppe speranze, ma ci fa capire che vince sempre e solo una cosa .... lo stato ed il capitalismo.
Anche il ..... viene fatto alle 9 ... costa meno.
Se tutti fossero Loach forse il mondo sarebbe migliore, se tutti fossero Daniel Black sarebbe sicuramente migliore.
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[+] un interessante e coinvolgente ken loach
(di antonio montefalcone)
[ - ] un interessante e coinvolgente ken loach
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sergio dal maso
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domenica 1 gennaio 2017
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la dignità di un cittadino in un film necessario
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In un momento storico in cui una famiglia su quattro ha un tenore di vita prossimo alla povertà o addirittura all’indigenza e al sud un cittadino su due rischia l’esclusione sociale per la mancanza di lavoro o per la precarietà salariale, Io Daniel Blake, l’ultimo capolavoro del maestro Ken Loach, non può che essere un film necessario.
Per la verità l’ottantenne regista inglese racconta storie di disoccupati, di lavoratori sfruttati e di emarginati da almeno cinquant’anni, sempre coerente con i suoi valori e intransigente con i principi di eguaglianza e di solidarietà per i quali è conosciuto come “Ken il rosso”.
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In un momento storico in cui una famiglia su quattro ha un tenore di vita prossimo alla povertà o addirittura all’indigenza e al sud un cittadino su due rischia l’esclusione sociale per la mancanza di lavoro o per la precarietà salariale, Io Daniel Blake, l’ultimo capolavoro del maestro Ken Loach, non può che essere un film necessario.
Per la verità l’ottantenne regista inglese racconta storie di disoccupati, di lavoratori sfruttati e di emarginati da almeno cinquant’anni, sempre coerente con i suoi valori e intransigente con i principi di eguaglianza e di solidarietà per i quali è conosciuto come “Ken il rosso”.
Il suo è certamente un cinema militante ma non nel senso ideologico, al centro ci sono sempre le persone, i loro sentimenti e le loro vite, immerse nella realtà di tutti giorni. Identità precise ribadite spesso fin nei titoli come in La canzone di Carla, My name is Joe o il precedente Jimmy’s hall.
Daniel Blake è un carpentiere sessantenne, senza figli e rimasto vedovo da poco. Suo malgrado deve chiedere l’invalidità al lavoro a causa di un infarto ritenuto inabilitante dai medici. Ottenere quello che è un suo diritto diventerà un calvario burocratico, una via crucis tra uffici di collocamento e agenzie privatizzate dove persone anziane o non sufficientemente scolarizzate sono umiliate e mortificate da procedure informatiche contorte e call center logoranti.
Ma Daniel Blake è un uomo tenace e orgoglioso, non accetterà di arrendersi, opponendo pazientemente la sua mitezza e la bontà d’animo all’arroganza della burocrazia. Nel suo peregrinare tra una pratica e l’altra conoscerà Kate, una ragazza madre con due figli piccoli, anch’essa in difficoltà economiche.
L’aiuto reciproco e la solidarietà di classe tra cittadini emarginati da uno stato sociale sempre più alienante ed escludente daranno a Daniel e Kate la forza di resistere, di continuare a credere in una possibilità di riscatto. La grandezzadi Daniel Blake è proprio quella di opporre la dignità e il rispetto verso se stessi alla disumanizzazione di un sistema tecnocratico dove le persone anziane rappresentano solamente dei costi da tagliare e i cittadini delle risorse da trasformare in profitti.
Come sempre il cineasta inglese lavora per sottrazione, la sua è una regia asciutta e lineare ma, al tempo stesso, assolutamente efficace e coinvolgente. Non c’è spazio per nessun pietismo né retorica.
Il suo cinema non si limita a descrivere il disagio e il dolore dei personaggi, li condivide e li metabolizza, amplificando così l’empatia che lo spettatore prova nei loro confronti. Nella loro semplicità alcune scene hanno una potenza emotiva enorme, si pensi a quando Kate perde il controllo al banco alimentare. I protagonisti non sono solo realistici, sono quasi reali.
Ken Loach e il sodale sceneggiatore Paul Laverty per scrivere la storia hanno frequentato a lungo le agenzie di disoccupazione, le mense dei poveri e i centri di assistenza, conoscendo centinaia di persone in difficoltà. Gli attori non professionisti che fanno i volontari al banco alimentare, per esempio, lo sono davvero, e gli impiegati dei centri di collocamento vi hanno lavorato realmente, salvo poi licenziarsi per il disagio nel rispettare i compiti assegnati.
Davvero bravissimi i due attori protagonisti. Dave Johns nella vita fa il comico nei cabaret di Newcastle, riesce quindi a trasmettere al personaggio anche una dose di amara ironia. Hayley Squires invece è un’attrice teatrale, disoccupata all’epoca del film, cresciuta in una famiglia proletaria.
In una storia apparentemente senza speranza non si può non affezionarsi alla dignità dei protagonisti e alla solidarietà dei tanti gesti quotidiani - anche dei personaggi minori - in cui l’umanità, malgrado tutto, resiste.
Si esce scossi e commossi alla fine del film. Sarà difficile dimenticare Daniel Blake, la sua storia e le sue toccanti parole: “Non sono un cliente, né un consumatore. Non sono uno scansafatiche, uno scroccone, un mendicante e neanche un ladro, non sono un numero di previdenza sociale e neanche un bip sullo schermo di un computer. Ho fatto la mia parte fine all’ultimo centesimo, e ne sono orgoglioso. Non accetto né chiedo carità. Sono una persona, non un cane. E come tale chiedo che mi siano garantiti i miei diritti. Chiedo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino. Niente di più, niente di meno. Grazie.”
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miraj
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domenica 23 ottobre 2016
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dignità di de fault
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Daniel e Daisy si incontrano in uno dei numerosi non luoghi della burocrazia amministrativa. Lui, Daniel, un carpentiere sessantenne dispensato dal lavoro a causa di un problema cardiaco. Lei, Daisy, una giovane donna sola con due figli, in cerca di lavoro. Si incontrano nell'ufficio adibito all'accoglimento delle loro istanze. Digitali di de fault, come sottolinea l'addetto alla sicurezza. E subito il film entra nel vivo del suo significato. L'inutilità dei non luoghi, dove inizia un iter burocratico di passaggi inutili - seppur online, attraverso call center inutil, riempiendo modelli inutili - seppur online -, dovendo dichiarare elementi inutili e pure in contraddizione tra loro, di cui si stenta a capire la necessità.
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Daniel e Daisy si incontrano in uno dei numerosi non luoghi della burocrazia amministrativa. Lui, Daniel, un carpentiere sessantenne dispensato dal lavoro a causa di un problema cardiaco. Lei, Daisy, una giovane donna sola con due figli, in cerca di lavoro. Si incontrano nell'ufficio adibito all'accoglimento delle loro istanze. Digitali di de fault, come sottolinea l'addetto alla sicurezza. E subito il film entra nel vivo del suo significato. L'inutilità dei non luoghi, dove inizia un iter burocratico di passaggi inutili - seppur online, attraverso call center inutil, riempiendo modelli inutili - seppur online -, dovendo dichiarare elementi inutili e pure in contraddizione tra loro, di cui si stenta a capire la necessità. Tra i due personaggi, subito uniti dalla difficoltà di rispettare l'asetticità del non luogo, nasce un intenso legame di solidarità e dignità, fatto di pochi cibi condivisi, di poche parole per far parlare i bambini ed anche per farli pensare, di strade che potrebbero tornare ad essere realtà, come i libri senza posto di Daisy, per i quali Daniel ha costruito una libreria....sulla quale realisticamente quei libri non torneranno mai...sulla quale realisticamente poggeranno in disordine i vestiti delle notti rubate di Daisy. Perchè questa società la dignità vuole portarla via. Daniel incapace lottatore contro il mondo digitale che non riesce a fare un'istanza per l'indennità di malattia perchè non riesce ad usare gli strumenti informatici e quella indennità è l'unica fonte di sopravvivenza. Daisy, che non riesce a trovar lavoro se non prostituirsi per comprare un nuovo paio di scarpe alla figlia, perchè a scuola i compagni la prendono in giro per le scarpe che si aprono ed il lavoro che Daisy non trova è l'unica fonte di sopravvivenza. Eppure, nonostante tutto, quella che resta è la dignità. Questa è l'affermazione di Loach. La dignità umana, che nei legami tra gli uomini riesce comunque a rimanere integra, anche quando le condizioni di vita quotidiana creano i presupposti per non sentirsi più uomini. Il film racconta questo, con cruda semplicità e realismo. Racconta cosa è la dignità. Il proprio nome. L'essere cittadino. L'essere genitore. Un film che mette tutti in ginocchio, non lascia spazio alle obiezioni, c'è una verità sola ed è quella che ci mostra.
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(di kleber)
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vanessa zarastro
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sabato 22 ottobre 2016
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la dignità ultima a morire
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Burocrazia, tecnologia e privatizzazione, sono, in ordine, le malattie del mondo occidentale nel XXI secolo. Se potevamo pensare che in Gran Bretagna le cose potessero andare meglio che da noi, questo film ci fa provare una grande delusione. E perché allora mandiamo i nostri figli a studiare e a lavorare lì dove la gente muore di burocrazia? La vicenda che Ken Loach narra nel suo Io Daniel Blake, fa paura perchéè una storia che potrebbe succedere anche a noi o a qualche nostro amico o conoscente.
Siamo a Newcastle sul Tyne nel nord dell’Inghilterra, e un onesto carpentiere cinquantanovenne rimasto vedovo da non molto tempo, ha avuto un serio attacco cardiaco che sta superando con medicine e terapia riabilitativa.
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Burocrazia, tecnologia e privatizzazione, sono, in ordine, le malattie del mondo occidentale nel XXI secolo. Se potevamo pensare che in Gran Bretagna le cose potessero andare meglio che da noi, questo film ci fa provare una grande delusione. E perché allora mandiamo i nostri figli a studiare e a lavorare lì dove la gente muore di burocrazia? La vicenda che Ken Loach narra nel suo Io Daniel Blake, fa paura perchéè una storia che potrebbe succedere anche a noi o a qualche nostro amico o conoscente.
Siamo a Newcastle sul Tyne nel nord dell’Inghilterra, e un onesto carpentiere cinquantanovenne rimasto vedovo da non molto tempo, ha avuto un serio attacco cardiaco che sta superando con medicine e terapia riabilitativa. Naturalmente non può lavorare – o almeno per un certo periodo finché lo ritengono i medici – e fa domanda di invalidità per ottenere l’indennità di malattia. Con tutte le difficoltà burocratiche del caso, dalla compilazione di moduli obbligatoriamente on-line, a una serie di domande assolutamente inutili e idiote che non prendono in esame il caso particolare ma che generalizzano sull’impossibilità ad autogestirsi - «Ho già compilato cinquanta pagine del formulario» - afferma Blake. Una vola che il sussidio gli è stato negato Daniel Blake è costretto a fare domanda per quello di disoccupazione. Per dimostrare la sua buona volontà allo Stato Blake dovrà prima fare un workshop, poi passare le sue giornate a scrivere curricula e a portarli in varie fabbriche, officine, e vivai. La cosa più assurda è che casualmente troverà pure chi lo vuole assumere ma è costretto a rifiutare perché ancora inabile al lavoro. In un crescendo di difficoltà tecnologiche – dall’uso esclusivo del computer alle foto con lo smartphone come prova - il nostro eroe arriverà solo alla fine a fare ricorso per l’indennità di malattia. Nel frattempo, in uno di questi assurdi uffici burocratici, incontra Daisy, una ragazza con due figli anch’essa disoccupata e indigente, appena arrivata da Londra. Lui l’aiuterà sia nel mettere su casa – «So aggiustare di tutto dice Blake» – sia nell’occuparsi dei suoi figli. L’umanità, la solidarietà e la dolcezza di queste persone sono il lato più commovente del film. Molto toccante è la scena nella “banca alimentare” organizzata da volontarie che suppliscono a quell’assistenza che lo Stato dovrebbe fornire. Daniel Blake pian piano e con pazienza riesce a conquistare i figli di Daisy, Kattle e perfino lo scorbutico e problematico Dylan, entrambi figli di padri assenti, che gli si affezioneranno. Sarà poi proprio Daisy, riconoscente, a essergli vicino nella sua ultima battaglia.
Loach è sempre dalla parte degli onesti, dei disoccupati, delle persone semplici che abbiano comunque subìto dei soprusi. Il suo è un cinema militante. Ho letto da qualche parte che Ken Loach, ormai ottantenne, aveva deciso di smettere di fare film ma quando ha sentito della possibile privatizzazione della polizia, ha voluto lo stesso girare ancora un film duro e amaro – infatti fa dire a Daniel Blake rivolto ai poliziotti «Fra un po’ privatizzeranno anche voi».
Con il cinema di Ken Loach si entra nelle vite dei personaggi passando direttamente dalla porta principale, vivendoci insieme e affrontando con loro il senso d'impotenza e la ricerca di un’alternativa. La storia di Daniel Blake, come tutte le altre rappresentate da Loach, è una storia di uomo onesto che non si piega né alle regole della burocrazia né ai compromessi facili. Il protagonista è oggettivamente un perdente, nel senso e dal punto di vista materiale, che man mano perde tutto, è invece un vincente sul piano etico e gli rimane ciò che non sono riusciti a togliergli, cioè la dignità di persona.
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zarar
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lunedì 24 ottobre 2016
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un non-spettacolo da non perdere
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Da vedere e far vedere. Ken Loach sceglie il linguaggio e lo stile del documentario per un film che rinuncia quasi completamente a ogni suggestione visiva, ad ogni astuzia allusiva o metaforica per sbattere in faccia allo spettatore nudi e crudi gli orrori asettici della lotta impari tra i più poveri e la burocrazia, più feroce che mai in una società in crisi che si ristruttura a spese del welfare state e in cui le nuove tecnologie vengono usate paradossalmente per spersonalizzare il più possibile il rapporto tra stato e cittadino e per moltiplicare le barriere nei confronti di chi rivendica dignità e diritti. Ne fanno le spese soprattutto i più deboli e sprovveduti, vecchi e giovani nuovi poveri.
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Da vedere e far vedere. Ken Loach sceglie il linguaggio e lo stile del documentario per un film che rinuncia quasi completamente a ogni suggestione visiva, ad ogni astuzia allusiva o metaforica per sbattere in faccia allo spettatore nudi e crudi gli orrori asettici della lotta impari tra i più poveri e la burocrazia, più feroce che mai in una società in crisi che si ristruttura a spese del welfare state e in cui le nuove tecnologie vengono usate paradossalmente per spersonalizzare il più possibile il rapporto tra stato e cittadino e per moltiplicare le barriere nei confronti di chi rivendica dignità e diritti. Ne fanno le spese soprattutto i più deboli e sprovveduti, vecchi e giovani nuovi poveri. “Gufo” di prim’ordine, Ken Loach si schiera affettuosamente e completamente dalla loro parte, scegliendo lo sguardo ed il grado elementare di narrazione dei suoi personaggi per una storia il cui intento pedagogico-politico è evidente, esplicito e prepotente. Una rappresentazione di tranquilla disperazione che strappa lacrime e rabbia. Il massimo apprezzamento è non considerarlo uno spettacolo e quindi non dargli nessun voto come tale.
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robroma66
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domenica 30 ottobre 2016
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gli affreschi di loach
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Sono grata a Ken Loach anche se i suoi film sono un pugno nello stomaco.
Se non ci fosse lui nessuno darebbe voce così forte e chiara alle persone stritolate dagli effetti tossici di capitalismo e burocrazia. La povertà costituisce il rimosso dei nostri tempi e Loach la racconta come fosse un pittore realista, Courbet o Guttuso.
Daniel Blake è un carpentiere di 59 anni, vedovo e senza figli. Ha una crisi cardiaca e il medico gli proibisce di lavorare.
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Sono grata a Ken Loach anche se i suoi film sono un pugno nello stomaco.
Se non ci fosse lui nessuno darebbe voce così forte e chiara alle persone stritolate dagli effetti tossici di capitalismo e burocrazia. La povertà costituisce il rimosso dei nostri tempi e Loach la racconta come fosse un pittore realista, Courbet o Guttuso.
Daniel Blake è un carpentiere di 59 anni, vedovo e senza figli. Ha una crisi cardiaca e il medico gli proibisce di lavorare. Per la prima volta nella vita è costretto a chiedere un sussidio statale. Ma la burocrazia oltre a essere sorda e cieca è anche ottusa: il suo medico dice che non può tornare al lavoro ma le norme lo obbligano a cercare lavoro -pena una severa sanzione- mentre aspetta che venga approvata la sua richiesta di indennità di malattia. Nel frattempo incontra Kate, giovane madre single con due figli piccoli e senza lavoro. Daniel e Kate, stretti nella morsa delle aberrazioni amministrative della Gran Bretagna di oggi, stringono un legame di amicizia e solidarietà per sostenersi mentre tutto sembra remare contro di loro.
Io, Daniel Blake è un film politico e di denuncia. Il suo punto di debolezza -se l'ottica è quella del realismo- è nella ostinazione manichea di Loach, nella fede utopica nella solidarietà tra proletari, nella compattezza ideologica di matrice novecentesca. Oltre i due protagonisti, ci sono bagliori di spessore umano anche nelle feroci istituzioni (come Ann, l'unica impiegata di cuore e di testa nell'algido centro per l'impiego) e nella società (i due giovani vicini di casa -traffichini ma solidali- o il responsabile del supermercato che lascia andare Kate che ha rubato qualche prodotto) ma il film è costruito sull'idea che buono e cattivo siano due insiemi che non si intersecano. Oggi tutto è tremendamente più fluido e meno netto. Essere diventati consumatori -e non più persone, o cittadini, o membri di una comunità- ha cambiato la nostra antropologia e rende obsoleto l'inquadramento dicotomico di Loach. Ma naturalmente non importa e va bene così: a un film non si deve chiedere fedeltà al reale, quasi fosse un documentario.
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filippo catani
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domenica 4 settembre 2016
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fame
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Un falegname è in cerca del sussidio da parte dello stato inglese in quanto non più in grado di lavorare continuativamente per problemi al cuore. Un giorno incontra una giovane ragazza con due figli e in cerca di lavoro. Tra i due nasce subito un rapporto di reciproca solidarietà.
Un capolavoro premiato a Cannes questo di Ken Loach che parla di fame. Innanzitutto fame di lavoro per giovani e anziani che si ritrovano fuori mercato. Fame di giustizia e di stato sociale per un uomo con una malattia riconosciuta e in difficoltà nelle pratiche elettroniche ma anche per la donna sola e abbandonata con due figli a carico. Fame vera e nera quella che colpisce la giovane e che dà vita alla scena che più spacca il cuore in questo film dove già si vedono quante persone a Newcastle soffrono la fame.
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Un falegname è in cerca del sussidio da parte dello stato inglese in quanto non più in grado di lavorare continuativamente per problemi al cuore. Un giorno incontra una giovane ragazza con due figli e in cerca di lavoro. Tra i due nasce subito un rapporto di reciproca solidarietà.
Un capolavoro premiato a Cannes questo di Ken Loach che parla di fame. Innanzitutto fame di lavoro per giovani e anziani che si ritrovano fuori mercato. Fame di giustizia e di stato sociale per un uomo con una malattia riconosciuta e in difficoltà nelle pratiche elettroniche ma anche per la donna sola e abbandonata con due figli a carico. Fame vera e nera quella che colpisce la giovane e che dà vita alla scena che più spacca il cuore in questo film dove già si vedono quante persone a Newcastle soffrono la fame. Soprattutto si parla di fame di dignità e di quella fame che risuona nel finale come chiosa di questo lavoro: sono un uomo non sono un animale. Quante persone in questo mondo dominato da un capitalismo cieco e spietato che alimenta la guerra tra poveri e lavoratori si saranno sentiti, si sentono o si sentiranno come animali senza diritti. Ecco questa pellicola è tutto questo ed è impossibile alla fine non essere stretti contemporaneamente da un groppo alla gola e da una feroce acidità di stomaco. Ottime le interpretazioni anche dei due bravissimi protagonisti.
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