pepito1948
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mercoledì 16 settembre 2015
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la famiglia bellocchio
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Bellocchio, nelle sue più recenti produzioni, sembra sempre più propenso a coinvolgere la famiglia, i luoghi di origine, accentuando i riferimenti autobiografici. Qui ritroviamo temi a lui cari, come la perversione del potere (religioso o politico, o tutt'e due insieme), il trionfo della vitalità libera da zavorre come modalità paradigmatica evolutiva dell'essere umano, incarnata inevitabilmente nella figura di una donna -temi a cui si aggiunge un certo senso della morte, in ottica forse più realistica (cioè anagrafica) che simbolica- attraverso la correlazione di situazioni e personaggi in due fasi storiche diverse, nel '600 e nell'attualità.
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Bellocchio, nelle sue più recenti produzioni, sembra sempre più propenso a coinvolgere la famiglia, i luoghi di origine, accentuando i riferimenti autobiografici. Qui ritroviamo temi a lui cari, come la perversione del potere (religioso o politico, o tutt'e due insieme), il trionfo della vitalità libera da zavorre come modalità paradigmatica evolutiva dell'essere umano, incarnata inevitabilmente nella figura di una donna -temi a cui si aggiunge un certo senso della morte, in ottica forse più realistica (cioè anagrafica) che simbolica- attraverso la correlazione di situazioni e personaggi in due fasi storiche diverse, nel '600 e nell'attualità.
L'uso della dualità, nel tempo e nello spazio, oltre ad essere un espediente cinematografico, sottolinea il perpetuarsi, sotto diverse spoglie, dei vizi capitali di una società che inesorabilmente vi rimane invischiata, ma che nello stesso genera resistenze potenzialmente rigenerative: l'amore, i rifiuti anche se dolorosi, la rivendicata libertà dal potere dominante (soprattutto maschile), sia esso autolegittimatosi con la forza o fattosi sistema e quindi autogiustificato, brutale o sottilmente invasivo ma sempre oppressivo.
Elemento di collegamento tra i due racconti è un convento di Bobbio, città cara al regista, prigione usata dall'Inquisizione per "convertire" e recludere o murare le "streghe", nonchè, secondo la linea narrativa tracciata, luogo decadente eletto, 400 anni dopo, come dimora nascosta da un boss provinciale, che si muove nella notte draculeggiando a spese dei compaesani con l'aiuto di un comitato di affari a lui prono. Nella oscurità che è insieme copertura per i loschi affari e mancanza di luce morale.
Le atmosfere cambiano, i toni anche, passando dal bianco smorto e livido delle tonache ecclesiastiche all'ombrosità cupa e inquietante dei giorni nostri, le identità si mescolano trasmettendosi reciprocamente la tara della coartazione, della cialtroneria e della corruzione, ma il marchio d'infamia del potere, per quanto sfumato e quasi invisibile, resta. Spetta alle forze libere da condizionamenti, imposizioni e violenza, competere per tracciare una via di salvezza, come, in una dimensione onirica, la trionfante bellezza sublime ed incorrotta di una ex monaca ribelle o la soave spontaneità di una giovane ragazza recalcitrante alle convenzioni e protesa verso un futuro senza vincoli e pregiudizi.
Il film, pur nella sua articolata struttura e variazione dei registri, ha una sua coerenza complessiva e una visione della realtà potente e suggestiva. Come spesso in Bellocchio, il prodotto evidenzia qualche limite che lo rende non del tutto compiuto: la non eccelsa recitazione del cast (a parte il grande Herlitzka), qualche indugio (e forse semplificazione) di troppo nella descrizione della dialettica di violenza nella prima parte, sono alcune pecche che comunque non incidono sulla validità del tutto. Siamo lontani dalla forza prorompente e diretta de I pugni in tasca, ma il cinema di Bellocchio mantiene intatta, sia pure nell'affinamento nel tempo di uno stile molto meno aspro e più attento alla costruzione delle immagini, una grande capacità di mobilitazione emotiva verso la cancrena liberticida della corruzione del potere (o del potere infestante della corruzione).
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fabiofeli
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martedì 15 settembre 2015
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l'insostenibile pesantezza del potere
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In un racconto ellittico o, meglio, a spirale, ambientato in un micro-universo si inseguono passato e presente con personaggi fisicamente uguali come "Doppelgaenger" e con ruoli e nomi simbolici. Torna il tempo oscuro nel quale una donna (qui L. Liberman), le donne venivano forzate a prendere i voti ancora bambine e al risveglio della matura età la donna, le donne vivevano la drammatica contraddizione tra le scelta definitiva ormai fatta e il loro sentire: è stato scritto nel DNA letterario italiano da Manzoni. Alla "Santa" Inquisizione si confessa il vero e il falso, perché i mezzi usati piegano chiunque. Oggi per fortuna non è più così, ci si rassicura.
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In un racconto ellittico o, meglio, a spirale, ambientato in un micro-universo si inseguono passato e presente con personaggi fisicamente uguali come "Doppelgaenger" e con ruoli e nomi simbolici. Torna il tempo oscuro nel quale una donna (qui L. Liberman), le donne venivano forzate a prendere i voti ancora bambine e al risveglio della matura età la donna, le donne vivevano la drammatica contraddizione tra le scelta definitiva ormai fatta e il loro sentire: è stato scritto nel DNA letterario italiano da Manzoni. Alla "Santa" Inquisizione si confessa il vero e il falso, perché i mezzi usati piegano chiunque. Oggi per fortuna non è più così, ci si rassicura. Ma dalle mani di un "potere assoluto" non si scappa: in "Buongiorno, notte", invece, Aldo Moro (R. Herlitzka) trova carcerieri dormienti e porte aperte come un novello San Pietro, ma è solo visione onirica di M. Bellocchio. Intercambiabilità di personaggi, persone fisiche e nomi simbolici, dicevamo: il soldato alleato degli inquisitori (P. G. Bellocchio) vendicatore incompiuto del fratello suicida ammaliato dalla "strega" ritorna nel microcosmo del paese arroccato in Val Trebbia come seduttore e poi moderno truffatore; le sorelle Perfetti (A. Rohrwacher e F. Fracassi),nubili, verrebbe spontaneo chiamarle "Sorelle Mai", perché mai hanno provato le gioie dell'amore e del sesso prima di allora; Herlitzka ritorna come vampiro metaforico, il conte Basta, assetato del sangue, del nostro sangue, ridicolo quel tanto che basta (!) col suo canino cariato, ma pericoloso al punto di far esclamare "Basta con questo Potere oppressivo", cementato dalla melma dei falsi invalidi con pensione per la perpetuazione del Sistema. Fanno breccia in quel cemento lo sguardo d'odio di chi vive murata e le sirene delle gazzelle della Guardia di finanza. Recitazione ineccepibile a riprova di un talento innegabile della regia, pur senza l'acuto indimenticabile di 50 anni fa, "I pugni in tasca" con l'Alessandro-Lou Castel, precursore e anticipatore nella sua gestualità e dei suoi misfatti della durezza dei gemelli di Szasz ne "Il grande quaderno" e degli scatti nevrotici dello Steve di X. Dolan in "Mom". La fotografia di D. Cipri veste la storia di immagini che restano nella retina e nella memoria dello spettatore; parte del pubblico è sconcertata; qualcuno parla di minestra riscaldata, svelando di non conoscere le qualità seducenti di una ottima"ribollita".
Da non mancare
Valutazione *** 1/2
FabioFeli
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