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Lo chiamavano Jeeg Robot, leader degli italian superheroes

Impregnato di nero proletario, il film di Gabriele Mainetti ripropone il rapporto tra cinema e storia grafica, sorprende e colpisce a fondo, anche quando sembra esagerare. Al cinema.
di Roy Menarini

In Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Claudio Santamaria veste i panni di un piccolo delinquente che diventa per caso invulnerabile al dolore.
sabato 27 febbraio 2016 - Jeeg Robot

Poco più di 50 anni fa, nel film a episodi Thrilling (1965), Walter Chiari veniva costretto dalla moglie, annoiata e appassionata di fumetti, a indossare la calzamaglia di Sadik, personaggio nato proprio nel 1965, ideato a partire dal successo di Diabolik. La proposta per vivacizzare il matrimonio finiva per rivolgersi contro la donna stessa. Diabolik, a sua volta, in attesa della serie televisiva ventura, ebbe una sua versione cinematografica pochi anni dopo, nel 1968, diretta da Mario Bava, dove a contare non era certamente la trama quanto l'atteggiamento pop del regista e della musica di Morricone.

Il fumetto degli eroi e dei supereroi (o antieroi, come quelli citati) non è affatto estraneo alla tradizione italiana, che ne ha dato spesso una versione più dark ed erotica.
Roy Menarini

Il rapporto di sospensione tra mito e parodia, nel nostro Paese, è sempre stato incerto, anche per la propensione alla farsa (dopo Diabolik ecco un comicissimo Arriva Dorellik (1968) con Johnny Dorelli) e la sensazione che noi non sappiamo "fare gli americani" - è in fondo questo il vero tema della scommessa (abbastanza riuscita) di Il ragazzo invisibile (2014), che meriterà ora un sequel.


Il personaggio di Santamaria si chiama Enzo Ceccotti, vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti sperando di non essere preso.
Un giorno, proprio mentre scappa dalla polizia, Enzo si tuffa nel Tevere per nascondersi e ne esce dotato di forza e resistenza sovraumane.
La disavventura di Ceccotti/Santamaria accade proprio mentre la città di Roma sta per esplodere ed ha bisogno di un eroe. È il suo momento!

Ora Lo chiamavano Jeeg Robot ripropone il rapporto tra cinema e storia grafica, sia esso fumetto (che pure accompagna il film con albi in edicola) o cartoon - come nel caso della nostalgia verso un robot anime giapponese. Spesso l'ironia la fa da padrona, ma non è semplice farne a meno in questo immaginario così atipico per il cinema italiano - e infatti gli studiosi del settore notano come Baba Yaga (1973) di Corrado Farina, influenzato da Crepax, sia stato uno dei pochi film italiani a "fare sul serio", usando uno scenario metropolitano (Milano) e invadendolo di un vero e proprio immaginario fantastico-fumettistico. Stesso discorso, ma più venato di surreale e grottesco, vale anche per Dellamorte Dellamore (1994), scritto da Tiziano Sclavi e diretto non a caso da Michele Soavi, altro regista interessato a generi forti come horror e thriller.

Di fronte a spaccio di stupefacenti e rapine, camorra che brucia viva le gente, poveri diavoli corrieri della droga che muoiono per niente, periferia degradata, e così via, l'arrivo di un supereroe (non a caso attivato da un bagno nel Tevere) suona al tempo stesso sfrontato e geniale.
Roy Menarini

Anche nell'animazione il supereroe fa prima di tutto ridere - ma anche in questo il bistrattato cinema italiano dà lezioni non da poco, se è vero che VIP mio fratello superuomo (1968) di Bruno Bozzetto è servito da modello molti anni dopo a Gli incredibili (2004) di Brad Bird, Targato Pixar. Ecco, di fronte a Lo chiamavano Jeeg Robot tutto questo è da gettare nel cestino. L'ironia c'è, si intende, ma sepolta sotto uno strato di crudo realismo e di ferocia suburbana che sembra guardare semmai al cinema di Claudio Caligari - e non è solo la presenza del sempre più incontenibile Luca Marinelli a farcelo credere.


In foto il giovane Ludovico Girardello, protagonista del film Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores.
Rupert Everett e Anna Falchi sono i protagonisti di Dellamorte dellamore, scritto da Tiziano Sclavi e diretto da Michele Soavi.
In foto la famiglia degli Incredibili, protagonista del film Pixar che trae spunto da VIP mio fratello superuomo di Bruno Bozzetto.

Molto diverso dal tono malinconico ma per famiglie di Salvatores, impregnato di nero proletario, il film di Mainetti sorprende e colpisce a fondo, anche quando sembra esagerare nel finale o rischia di contraddire via via le stesse basi di verosimiglianza socioculturale su cui poggia.

Non è detto che Lo chiamavano Jeeg Robot sia serializzabile senza perdere un po' di anticonformismo, ma varrebbe la pena provarci.
Roy Menarini

E il solito, annoso problema del confronto con il cinema statunitense questa volta non si declina secondo le consuete direttrici, che sono: parodia esplicita, imitazione nazionalizzata, fantastico grottesco. Proprio questa chiave brutale e sottoproletaria, nel suo mescolarsi concreto e romanesco con i superpoteri, riesce a scartare tutte le altre e porsi come esempio di invenzione adulta e attentamente pensata.


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