
Impregnato di nero proletario, il film di Gabriele Mainetti ripropone il rapporto tra cinema e storia grafica, sorprende e colpisce a fondo, anche quando sembra esagerare. Al cinema.
di Roy Menarini
Poco più di 50 anni fa, nel film a episodi Thrilling (1965), Walter Chiari veniva costretto dalla moglie, annoiata e appassionata di fumetti, a indossare la calzamaglia di Sadik, personaggio nato proprio nel 1965, ideato a partire dal successo di Diabolik. La proposta per vivacizzare il matrimonio finiva per rivolgersi contro la donna stessa. Diabolik, a sua volta, in attesa della serie televisiva ventura, ebbe una sua versione cinematografica pochi anni dopo, nel 1968, diretta da Mario Bava, dove a contare non era certamente la trama quanto l'atteggiamento pop del regista e della musica di Morricone.
Il fumetto degli eroi e dei supereroi (o antieroi, come quelli citati) non è affatto estraneo alla tradizione italiana, che ne ha dato spesso una versione più dark ed erotica.
Il rapporto di sospensione tra mito e parodia, nel nostro Paese, è sempre stato incerto, anche per la propensione alla farsa (dopo Diabolik ecco un comicissimo Arriva Dorellik (1968) con Johnny Dorelli) e la sensazione che noi non sappiamo "fare gli americani" - è in fondo questo il vero tema della scommessa (abbastanza riuscita) di Il ragazzo invisibile (2014), che meriterà ora un sequel.
Ora Lo chiamavano Jeeg Robot ripropone il rapporto tra cinema e storia grafica, sia esso fumetto (che pure accompagna il film con albi in edicola) o cartoon - come nel caso della nostalgia verso un robot anime giapponese. Spesso l'ironia la fa da padrona, ma non è semplice farne a meno in questo immaginario così atipico per il cinema italiano - e infatti gli studiosi del settore notano come Baba Yaga (1973) di Corrado Farina, influenzato da Crepax, sia stato uno dei pochi film italiani a "fare sul serio", usando uno scenario metropolitano (Milano) e invadendolo di un vero e proprio immaginario fantastico-fumettistico. Stesso discorso, ma più venato di surreale e grottesco, vale anche per Dellamorte Dellamore (1994), scritto da Tiziano Sclavi e diretto non a caso da Michele Soavi, altro regista interessato a generi forti come horror e thriller.
Di fronte a spaccio di stupefacenti e rapine, camorra che brucia viva le gente, poveri diavoli corrieri della droga che muoiono per niente, periferia degradata, e così via, l'arrivo di un supereroe (non a caso attivato da un bagno nel Tevere) suona al tempo stesso sfrontato e geniale.
Anche nell'animazione il supereroe fa prima di tutto ridere - ma anche in questo il bistrattato cinema italiano dà lezioni non da poco, se è vero che VIP mio fratello superuomo (1968) di Bruno Bozzetto è servito da modello molti anni dopo a Gli incredibili (2004) di Brad Bird, Targato Pixar. Ecco, di fronte a Lo chiamavano Jeeg Robot tutto questo è da gettare nel cestino. L'ironia c'è, si intende, ma sepolta sotto uno strato di crudo realismo e di ferocia suburbana che sembra guardare semmai al cinema di Claudio Caligari - e non è solo la presenza del sempre più incontenibile Luca Marinelli a farcelo credere.
Molto diverso dal tono malinconico ma per famiglie di Salvatores, impregnato di nero proletario, il film di Mainetti sorprende e colpisce a fondo, anche quando sembra esagerare nel finale o rischia di contraddire via via le stesse basi di verosimiglianza socioculturale su cui poggia.
Non è detto che Lo chiamavano Jeeg Robot sia serializzabile senza perdere un po' di anticonformismo, ma varrebbe la pena provarci.
E il solito, annoso problema del confronto con il cinema statunitense questa volta non si declina secondo le consuete direttrici, che sono: parodia esplicita, imitazione nazionalizzata, fantastico grottesco. Proprio questa chiave brutale e sottoproletaria, nel suo mescolarsi concreto e romanesco con i superpoteri, riesce a scartare tutte le altre e porsi come esempio di invenzione adulta e attentamente pensata.