|
martedì 10 agosto 2021
|
orizzonti
|
|
|
|
Grande recensione per un grande film, parole che aprono orizzonti descrivendo quel che il film contiene ed esprime. Bravissima!!!
Giorgio Teggi
|
|
[+] lascia un commento a »
[ - ] lascia un commento a »
|
|
d'accordo? |
|
gianleo67
|
martedì 30 gennaio 2018
|
cemento armato...la grande città
|
|
|
|
Storie si intrecciano in un condomino alla periferia di una città francese: un infartuato ha la improrogabile necessità di utilizzare l'ascensore per il quale non ha voluto pagare, un astronauta della NASA precipita sul tetto dell'edificio e viene adottato da una ospitale immigrata algerina col figlio in carcere, un adolescente svogliato si interessa alla matura attrice che ha traslocato da poco nell'appartamento vicino, una timida e riservata infermiera di notte riceve le avances dell'inquilino convalescente di cui sopra.
[+]
Storie si intrecciano in un condomino alla periferia di una città francese: un infartuato ha la improrogabile necessità di utilizzare l'ascensore per il quale non ha voluto pagare, un astronauta della NASA precipita sul tetto dell'edificio e viene adottato da una ospitale immigrata algerina col figlio in carcere, un adolescente svogliato si interessa alla matura attrice che ha traslocato da poco nell'appartamento vicino, una timida e riservata infermiera di notte riceve le avances dell'inquilino convalescente di cui sopra. Per tutti verrà il tempo di salutarsi o consolidare un rapporto nato dal caso e dalle necessità di un breve momento o di tutta una vita.
Samuel Benchetrit attinge dal primo dei cinque volumi del suo romanzo autobiografico Les Chroniques de l'Asphalte, per questa tragicommedia dell'incomunicabilità che si muove leggera sul filo del nonsense, trasportata dal refolo dei venti atlantici che lambiscono l'entroterra francese e dalle ali di una nostalgia della giovinezza che si fa memoria di fantasticherie cinematografiche da tradurre nel prodotto finito, concreto e astratto allo stesso tempo, fatto di parole da sfogliare o di immagini da trasmettere ai posteri. Nella comunità ridotta nei compartimenti stagni di un condominio-dormitorio ballardiano ed in cerca della remota occasione di un improbabile contatto umano, il gap tecnologico (ascensore, telefono, macchine fotografiche, televisore, mezzi di trasporto) non influisce sulla qualità di relazioni sociali (salvo favorirle per un arbitrario e casuale gioco combinatorio) laddove le differenze di linguaggio, cultura, interessi, età ed estrazione sociale sembrano paradossalmente mediate dal ricorso a prosaici strumenti di comunicazione di massa (la tivù, la serialità, il cinema d'essai) quale universale codifica idiomatica nella desolata periferia di una babele globalizzata. Il meltin-pot di una nazione multiculturale in cui l'effetto collaterale di una antica cultura colonialista ha prodotto la desolazione di una banlieu di diseredati abbandonati a se stessi (un figlio in carcere, uno che non vede mai la madre, uno che le è sopravvissuto in completa solitudine) ma anche di una insospettabile ricchezza umana, pronta a manifestarsi alla prima occasione utile sotto forma di una spontanea e gratuita generosità, piuttosto che di un interesse sentimentale che sembra approfittare di qualunque appiglio pur di non sprofondare nella noia e nella solitudine della vita. Su tutto, la morale universale di una valorizzazione delle differenze come superamento della reciproca diffidenza e quale viatico indispensabile per una rinnovata condivisione di valori e sentimenti, fanno di questa piccola commedia dello straniamento sociale un oggetto utile per navigare a vista in un presente che sembra confondere la memoria di un luogo senza tempo e la realtà di una condizione esistenziale che pare potersi estendere un po' a tutti i luoghi ed a tutti i tempi.
Pur nel suo impianto dichiaratamente teatrale, il film di Benchetrit cerca una una sua più arieggiata dimensione cinematografica nel clima opprimente di un non luogo confinato nell'angusto perimetro di una prigionia suburbana, gravato dalla spessa coltre di un cielo di piombo che traguarda i fondali posticci di teneri ed ingenui sogni d'evasione, richiamando la nostalgia di un condiviso immaginario drammaturgico (Trappola di cristallo, Todo Modo, I Ponti di Madison County). Ecco quindi le improbabili coppie di un patetico e commovente ricongiungimento familiare: uno studente irriverente attratto dalla matura sensualità di un'attrice sul viale del tramonto, una immigrata algerina che sostituisce l'assenza del figlio galeotto adottando un astronauta sensibile piovuto dal cielo, un arruffato e solitario orfano mammone che corteggia l'insicura infermiera del turno di notte: ciascuno con le proprie fragilità e debolezze ma pronto a rincorrere ed afferrare ad ogni costo l'oggetto fuggevole di un desiderio di felicità mai così a portata di mano. Il grottesco ed il surreale sono i codici naturali di un registro cinematografico alle prese con l'assurda deriva di una esperienza umana residuale e marginale; il punto zero di una civiltà individualista nella faticosa ed improbabile ricostruzione del disastrato edificio della socialità. Un film che manifesta però anche la sua natura ludica e sorniona, l'amara presa in giro di chi non vuol prendersi poeticamente sul serio nella civettuola interlocuzione con lo spettatore: l'artificiosa ed ammiccante messa in scena di un teatro dell'assurdo da cui risuona l'eco sinistra del misterioso richiamo di un demiurgo-manovratore che agisce dietro le quinte ("Si, si, ci tiene d'occhio il buon Dio. È dappertutto! "), il vociare indistinto di una alterità che invoca l'oscura presenza di figure platoniche nascoste nell'ombra oppure...il banale cigolare di un cassone rugginoso che il vento molesta nello spiazzo deserto del vicino cantiere.
Infinite le vicissitudini realizzative superate grazie alla solerte abnegazione del produttore Julien Madon ed ancor più quelle di casting, risolte grazie alla partecipazione di una straordinaria Isabelle Huppert, prototipo di tormentate attrici francesi morte giovani (Dominique Laffin, Juliet Berto, Christine Pascal) e della tenerezza stralunata di un Michael Pitt, disceso dal firmamento hollywoodianodirettamente sulla croisette del 68° Festival di Cannes. Nomination come miglior adattamento ai Cesar 2016.
Cemento armato la grande città
senti la vita che se ne va...
[-]
|
|
[+] lascia un commento a gianleo67 »
[ - ] lascia un commento a gianleo67 »
|
|
d'accordo? |
|
francesco2
|
sabato 30 dicembre 2017
|
non mi convince totalmente
|
|
|
|
Il titolo italiano, sicuramente meno “duro” di quello originale ma probabilmente, purtroppo,
anche più accattivante per il pubblico italiano, vorrebbe rendere al contempo un degrado
morale ed una desolazione materiale nel vissuto dei protagonisti, non ripresi mai in spazi esterni,
ma all’interno delle proprie abitazioni o in prossimità di un luogo di lavoro, almeno cosi mi è parso.
L’espressione “asfalto” potrebbe avere anche questa implicazione. E’ implicito, tuttavia, che un film
corale richiede una simbiosi di due caratteristiche: quell’alchimia in base alla quale ogni storia si
incrocia con le altre, come tassello di un mosaico, ed al contempo il significato rintracciabile
nelle vicende del singolo.
[+]
Il titolo italiano, sicuramente meno “duro” di quello originale ma probabilmente, purtroppo,
anche più accattivante per il pubblico italiano, vorrebbe rendere al contempo un degrado
morale ed una desolazione materiale nel vissuto dei protagonisti, non ripresi mai in spazi esterni,
ma all’interno delle proprie abitazioni o in prossimità di un luogo di lavoro, almeno cosi mi è parso.
L’espressione “asfalto” potrebbe avere anche questa implicazione. E’ implicito, tuttavia, che un film
corale richiede una simbiosi di due caratteristiche: quell’alchimia in base alla quale ogni storia si
incrocia con le altre, come tassello di un mosaico, ed al contempo il significato rintracciabile
nelle vicende del singolo.
Non sono cosi convinto che questo film possegga tali caratteristiche. A volte sembra obbedire ad una
carineria un tantino radical-chic, ad esempio nell’episodio interpretato dalla Bruni Tedeschi; in altre
situazioni cerca sicuramente di essere più coraggioso o bizzarro, per esempio narrando della donna
che accoglie l’extraterrestre, ma il rischio del macchiettismo è in agguato. Manca poi, in tutto questo,
una visione d’insieme anche più disincantata, che giustifichi il citato titolo francese.
Film sicuramente simpatico, a volte certo ben interpretato, ma personalmente non me ne resterà più
di tanto.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a francesco2 »
[ - ] lascia un commento a francesco2 »
|
|
d'accordo? |
|
valterchiappa
|
mercoledì 1 novembre 2017
|
un asfalto che fiorisce
|
|
|
|
Cosa si può trovare in un palazzone fatiscente e semidiroccato, fra le strade più squallide che ci siano, sotto un cielo perennemente e uniformemente grigio?
Ce lo racconta Samuel Benchetrit in “Il condominio dei cuori infranti”. “Asphalte”, il titolo originale, è ben più efficace di quello melodrammatico scelto dai traduttori italiani: una superficie grigia, rugosa ed uniforme, senza soluzione di continuità. Questo è il mondo dipinto da Benchetrit; ma il suo asfalto fiorisce grazie ad una pianta tenace e resistente, forte al punto da bucarne la dura superficie, capace di produrre un fiore semplice e perenne: il fiore dell’Umanità.
[+]
Cosa si può trovare in un palazzone fatiscente e semidiroccato, fra le strade più squallide che ci siano, sotto un cielo perennemente e uniformemente grigio?
Ce lo racconta Samuel Benchetrit in “Il condominio dei cuori infranti”. “Asphalte”, il titolo originale, è ben più efficace di quello melodrammatico scelto dai traduttori italiani: una superficie grigia, rugosa ed uniforme, senza soluzione di continuità. Questo è il mondo dipinto da Benchetrit; ma il suo asfalto fiorisce grazie ad una pianta tenace e resistente, forte al punto da bucarne la dura superficie, capace di produrre un fiore semplice e perenne: il fiore dell’Umanità.
Nell’alveare di una banlieau parigina sei personaggi costituiscono tre improbabili ed imprevedibili coppie: un astronauta americano (Michael Pitt), caduto non si sa come dallo spazio sul tetto del condominio, viene accolto in casa da Madame Hamida (Tassadit Mandi), un’anziana algerina che vive all’ultimo piano; Charly (Jules Benchetrit), ragazzo abbandonato a sé stesso dalla famiglia assemte, aiuta Jeanne Meyer (Isabelle Huppert) attrice famosa negli anni ’80, ma ora decaduta, sconclusionata ed incline all’alcool; Sterkowtiz (Gustave Kervern), un uomo abbrutito dalla solitudine, incontra di notte un’infermiera triste (Valeria Bruni Tedeschi).
Semi sull’asfalto, che germoglieranno.
L’algerina e l’americano non hanno parole in comune, ma sanno comprendersi. Lei accoglie quel giovanotto dal viso di bamboccione come solo sa fare, come un figlio (il suo è in galera). Lo colma di attenzioni, gli prepara il couscous. E lui, caduto dal nulla, atterrato nel nulla, si sentirà a casa.
Charly è affascinato dai trascorsi artistici di Jeanne. Vedono insieme vecchi film in bianco e nero (citato, dal reale passato della Huppert, il bellissimo “La merlettaia”). Lei non ha più sogni, né ruoli da inseguire, né la forza per saper recitare. Gliela ridonerà Charly e il suo ultimo personaggio non sarà per il pubblico, ma per sé stessa.
Sterkowitz, ridotto dopo un infortunio a muoversi in carrozzina, va nottetempo a comprare cibo dal distributore automatico del vicino ospedale. All’uscita l’infermiera fuma pensierosa durante la pausa. Conversano faticosamente, ma quell’incontro fugace diventa l’appuntamento fisso verso cui il povero cristo si trascina penosamente; quelle poche parole la sua ragione di vita, la sola. Invaghitosi, si trasformerà per la sua bella in un inverosimile fotografo, immortalando i grigi cieli che vede dalla finestra di casa. E dalla carrozzina si rialzerà.
Tre storie di cadute, quella materiale dell’astronauta, l’amaro declino di chi un giorno è stato in alto, l’abisso di chi precipita nello squallore di una vita senza nessuno. Un solo Salvatore: l’Amore. L’amore che si declina nelle sue possibili sfaccettature: l’amore di una madre, la corrispondenza d’amorosi sensi che è tipica dell’arte, l’amore che più semplicemente fa battere il cuore per una donna. Storie piene di poesia, che il registro surreale e l’uso dell’ironia accentuano. Poesia leggera, soave, pennellate di rosa, che si staccano dal plumbeo sfondo del reale. Ma per Samuel Benchetrit anche un modo di raccontare in maniera diversa le banlieau, che il regista ben conosce. Non più covi di rabbia, violenza, miseria (si pensi a “L’odio” di Mathieu Kassovitz), ma non-luoghi, deserti di asfalto appunto, dove la parte migliore dell’uomo può emergere ancora dalle macerie della società. Il racconto non può che avanzare lento, il fiore fa fatica a bucare l’asfalto, ma le storie si intessono tenui ma inesorabili e i piccoli, tristi, tenerissimi eroi di “Il condominio dei cuori infranti” entrano dritti nel cuore.
Non si è mai soli. Ecco cosa ci dice Samuel Benchetrit. Affranti, avviliti, emarginati dalla società, provati dalle vicissitudini della vita, in qualsiasi modo caduti, potremo sempre rialzarci. Caduti, ma sempre Angeli, pronti a spiccare il volo, per quanto grigio sia il cielo.
Voto: 8
[-]
|
|
[+] lascia un commento a valterchiappa »
[ - ] lascia un commento a valterchiappa »
|
|
d'accordo? |
|
mtonino
|
giovedì 15 giugno 2017
|
l'ironia scandinava nella periferia parigina
|
|
|
|
Per l’ennesima volta il fuorviante titolo italiano non rende giustizia al contenuto e al significato di questo film francese dai toni surreali. Il titolo originale, infatti, è Asphalte che meglio rappresenta le vicende raccontate.
In un condominio nella grigia periferia parigina sono ambientate e si svolgono quattro storie di personaggi diversissimi tra di loro. L’inquilino del primo piano che dopo essersi rifiutato di pagare i lavori per il nuovo ascensore si ritrova su una sedia a rotelle e lo usa di nascosto scatenando tutta una serie di conseguenze; un’attrice ormai in declino arriva nel condominio e viene aiutata dal vicino di casa, un giovane teppistello che apparentemente vive solo; un’anziana madre, il cui figlio è detenuto in carcere, ospita un astronauta americano atterrato sulla terrazza del palazzo.
[+]
Per l’ennesima volta il fuorviante titolo italiano non rende giustizia al contenuto e al significato di questo film francese dai toni surreali. Il titolo originale, infatti, è Asphalte che meglio rappresenta le vicende raccontate.
In un condominio nella grigia periferia parigina sono ambientate e si svolgono quattro storie di personaggi diversissimi tra di loro. L’inquilino del primo piano che dopo essersi rifiutato di pagare i lavori per il nuovo ascensore si ritrova su una sedia a rotelle e lo usa di nascosto scatenando tutta una serie di conseguenze; un’attrice ormai in declino arriva nel condominio e viene aiutata dal vicino di casa, un giovane teppistello che apparentemente vive solo; un’anziana madre, il cui figlio è detenuto in carcere, ospita un astronauta americano atterrato sulla terrazza del palazzo.
A fare da filo conduttore alle situazioni che si susseguono, è un rumore metallico, stridente che i protagonisti sentono ripetutamente al quale ognuno da un’interpretazione diversa e che solo alla fine sarà rivelato per quello che è.
Il film è molto ben fatto e pur con mezzi ridottissimi e con un processo di produzione lungo e travagliato, riesce a essere per niente banale e a volte sorprendente come nella scena dell’atterraggio dell’astronauta. Le inquadrature sono minimaliste ed efficaci, il grigiore della periferia si confonde con un cielo livido mai sereno e questa cappa si ripercuote sulle vite dei protagonisti che, nonostante le difficoltà della vita, riescono però a sognare a loro modo e immaginare nuovi mondi possibili. E allora ci si alza dalla sedia a rotelle per incontrare una triste infermiera di notte oppure ci si riscopre attrice che ancora può dare qualcosa seguendo i consigli di un ragazzino appena conosciuto o ancora si fa amicizia con uomo piombato dallo spazio che neanche parla la stessa lingua.
Alcune inquadrature da sole strappano una risata spesso amara mentre i dialoghi e le inquadrature minimaliste ricordano da vicino il cinema di Roy Andersson (Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza) e alcune situazioni ammiccano al cinema di Kaurismaki il che rende il film ironico e surreale.
Fondamentalmente è un film sulla solitudine e sull’incontro di solitudini, sull’accostamento di personalità che nulla avrebbero a che fare l’una con l’altra ed è proprio questo contrasto, questa diversità, che diventa un elemento di rinascita e di speranza e che fa riscoprire un’empatia che l’ambiente circostante tende ad annientare.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a mtonino »
[ - ] lascia un commento a mtonino »
|
|
d'accordo? |
|
ninoraffa
|
mercoledì 31 maggio 2017
|
asphalte
|
|
|
|
Non sempre nomen omen, ma in questo caso cerchiamo proprio di dimenticare il melodrammatico titolo italiano Il condominio dei cuori infranti, per concentrarci sull’originale Asphalte. (Perché poi il distributore abbia prodotto tale ardita traduzione al supposto scopo di promuovere le vendite, dice molto sulla sua idea di pubblico.)
Ambientato in chiave surreale nel condominio di una banlieue francese, fatiscente insieme al prevedibile circondario, il film di Benchetrich intreccia con rigore tre (più una) storie rappresentative della commedia umana.
La sgangherata liaison tra due malati sul retro dell’ospedale: il misantropo Sternkowtize e una stranita infermiera (Valeria Bruni Tedeschi perfetta per la parte); le improbabili foto, false ma verissime, della polaroid con cui lui si spaccia fotografo; lo spaesamento, forse mai provato prima, d’incontrarsi e rivelarsi.
[+]
Non sempre nomen omen, ma in questo caso cerchiamo proprio di dimenticare il melodrammatico titolo italiano Il condominio dei cuori infranti, per concentrarci sull’originale Asphalte. (Perché poi il distributore abbia prodotto tale ardita traduzione al supposto scopo di promuovere le vendite, dice molto sulla sua idea di pubblico.)
Ambientato in chiave surreale nel condominio di una banlieue francese, fatiscente insieme al prevedibile circondario, il film di Benchetrich intreccia con rigore tre (più una) storie rappresentative della commedia umana.
La sgangherata liaison tra due malati sul retro dell’ospedale: il misantropo Sternkowtize e una stranita infermiera (Valeria Bruni Tedeschi perfetta per la parte); le improbabili foto, false ma verissime, della polaroid con cui lui si spaccia fotografo; lo spaesamento, forse mai provato prima, d’incontrarsi e rivelarsi.
L’amore universale della magrebina Hamida: il suo essere madre di tutti. Le sigarette regalate ai secondini che le vietano di visitare il figlio carcerato; l’accoglienza familiare – mediterranea, con tanto di cous-cous – all’improbabile astronauta americano Mckenzie, piombato in terrazza direttamente dallo spazio col suo bizzarro linguaggio; l’affettuoso slancio di questi nel ripararle lo scarico del lavandino, che continuerà comunque a perdere, perché nella banlieue anche la NASA trova i suoi insuperabili limiti tecnici.
L’amicizia tra Jeanne, attrice non più giovanissima precocemente dimenticata, e Charly, un liceale lasciato sempre solo dalla madre. Guardano insieme una vecchia pellicola in bianco e nero, dolorosa per lei e insignificante per lui; preparano la parte per un film che lei non reciterà mai. Comunque nella stessa stanza, non dietro due portoncini chiusi uno contro l’altro sul pianerottolo.
La quarta storia infine. Il fallimento. I due ragazzi seduti sulle scale dell’androne vedono solo l’asfalto dello squallido viale davanti a loro, e probabilmente sanno da dove viene lo strano rumore che incuriosisce gli altri. Conoscono le brutture del mondo, non nutrono curiosità e non si fanno illusioni. Stanno in terrazza a fumare, scende davanti a loro qualcuno dal cielo, e la cosa non li riguarda.
Una nota sinistra, un cattivo rumore metallico riecheggia ogni tanto nel film, ma alcuni dei personaggi la percepiscono come musica, come una specie di benevolo richiamo. Il cigolio di un cassone non è una melodia, l’asfalto non è un prato; ma sentire la bellezza nel suo opposto significa superare le proprie circostanze. Essere vivi, ovvero custodire ancora una fiammella d’immaginazione – di creazione – a separarci dalla morte. Morte dell’anima nella miseria materiale della periferia, come nelle infinte periferie dello spirito che possono imprigionarci da qualsiasi parte.
Samuel Benchetrit è abile nel maneggiare situazioni e personaggi in tanti finali aperti. Tratto da un testo autobiografico dello stesso regista, Asphalte sembra raccontarci, lungo un amaro filo d’ironia, quanto la salvezza – una zoppicante salvezza, comunque provvisoria – passi attraverso l’incontro con le persone giuste.
Figura grottesca e patetica, Sternkowtiz in una delle scene simbolo fa l’umano miracolo di alzarsi dalla sedia a rotelle e camminare; forza la gabbia (intima) dell’ascensore e si avvia con andatura sghemba verso l’appuntamento con la sua infermiera. Forse non è un caso che gl’incontri riusciti del film siano fortemente asimmetrici: nonostante le diversità essenziali, in qualche modo possiamo incastrare le nostre strane membra in una forma nuova e (un po’) migliore.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a ninoraffa »
[ - ] lascia un commento a ninoraffa »
|
|
d'accordo? |
|
vanessa zarastro
|
lunedì 8 agosto 2016
|
banlieu e tenerezza
|
|
|
|
L’habitat del film - "Hasphalte" in originale - è la periferia industriale della città di Colmar, una cittadina alsaziana al confine con la Germania, in un edificio residenziale intensivo mal tenuto e mal ridotto.
In linea con una certa commedia corale francese il film “spia” le vite di cinque appartamenti rappresentando altrettante solitudini. Il formato del film 1:1.33 è particolare, voluto dal regista perché il film è girato in ambienti piccoli.
Sternkovitz è l’inquilino ebreo del primo piano che non ha voluto contribuire alle spese dell’ascensore; si ritrova su una sedie a rotelle ma con il divieto di usarlo, quindi calcolati meticolosamente i periodi di utilizzo dell’ascensore, decide di usarlo di nascosto di notte.
[+]
L’habitat del film - "Hasphalte" in originale - è la periferia industriale della città di Colmar, una cittadina alsaziana al confine con la Germania, in un edificio residenziale intensivo mal tenuto e mal ridotto.
In linea con una certa commedia corale francese il film “spia” le vite di cinque appartamenti rappresentando altrettante solitudini. Il formato del film 1:1.33 è particolare, voluto dal regista perché il film è girato in ambienti piccoli.
Sternkovitz è l’inquilino ebreo del primo piano che non ha voluto contribuire alle spese dell’ascensore; si ritrova su una sedie a rotelle ma con il divieto di usarlo, quindi calcolati meticolosamente i periodi di utilizzo dell’ascensore, decide di usarlo di nascosto di notte. In cerca di cibo si ritrova a comprarlo alle macchinette nei meandri di un ospedale dove incontra un’infermiera di notta un po’ depressa.
Jeanne Meyer è una nuova arrivata, ex-attrice un po’ agéè che vive con gli scatoloni ancora pieni perché “in attesa”, non si sa bene di che. Charly è il giovane e non loquace vicino di pianerottolo che si incuriosisce della nuova arrivata un po’ maldestra, e finirà per prendersi cura di lei. La aiuterà perfino a ricominciare a recitare riprendendola con una telecamera amatoriale e suggerendole modalità di recitazione, quasi fosse un esperto regista.
All’ultimo piano vive Hamida una donna algerina il cui figlio Mahjid è finito un’ennesima volta in galera. Bisognosa di compagnia e di dare affetto “adotterà” per un paio di giorni John Mc Kenzie, un astronauta americano che, di rientro dallo spazio, ha sbagliato manovra ed è atterrato sul tetto del condominio. Capendosi con pochissime parole la signora prepara piatti arabi con cura e con amore e rimpinza il giovane americano come avrebbe voluto fare con suo figlio svogliato ed emaciato.
Tutti hanno televisioni e guardano programmi vari – da soap operas ai film di Clint Eastwood - sognando vite altre e realtà diverse e lontane dal proprio squallore. Molto appropriata è la battuta dell’ufficiale NASA alla descrizione di cosa vede l’astronauta dalla finestra: «sembrerebbe Pittsburgh», la famosa Smoky ol’ town di Pete Seeger.
Ispirato a due racconti "Chroniques de l'asphalte" del 2005 dello stesso regista Samuel Benchetrit, questo film ha un sapore agrodolce. Gli scambi di affetti e di solidarietà attribuiscono dolcezza e tenerezza a un milieu così misero. La musica curata da Raphaël, è discreta, le riprese sono volutamente statiche, con pochissimi movimenti di macchina e tanta ironia.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a vanessa zarastro »
[ - ] lascia un commento a vanessa zarastro »
|
|
d'accordo? |
|
gianluchissimo
|
venerdì 1 luglio 2016
|
il condominio dei cuori infranti
|
|
|
|
Un cielo grigio.Un condominio fatto di case popolari.Sei persone in attesa di dare o ricevere amore.
Questo, e' lo sfondo del film "Il condominio dei cuori infranti", dove il regista Samuel Benchetrit, riesce ad andare, senza usare tecnologie, al nucleo più intimo di ogni storia.
L'attrice, l'infermiera, l'aspirante fotografo, l'astronauta, la mamma e l'adolescente, le storie hanno un unico denominatore.
L'amore.
|
|
[+] lascia un commento a gianluchissimo »
[ - ] lascia un commento a gianluchissimo »
|
|
d'accordo? |
|
|
giovedì 30 giugno 2016
|
il condominio dei cuori infranti
|
|
|
|
Un condominio popolare.Un cielo grigio.Sei persone sole, in cerca d'amore.
Su questo sfondo, prende vita il film di Samuel Benchetrit, che con naturalezza, riesce a farci conoscere nel profondo, sei storie diverse, ma con un unico denominatore.
L'amore.
Credo che il regista a suo modo, abbia toccato il fondo, per riuscire ad arrivare al nucleo primordiale di ogni racconto, senza usare violenza alcuna e senza l'ausilio di moderne tecnologie.
Se occhi e orecchi sono sintonici, si riescono a provare le stesse emozioni dei protagonisti.
Un ottimo lavoro.
|
|
[+] lascia un commento a »
[ - ] lascia un commento a »
|
|
d'accordo? |
|
|