angelo umana
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martedì 19 agosto 2014
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mister violence
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Diffidare di chi mette troppa cura nel sistemare il nodo alla cravatta, di chi si mostra oltremodo compassato e gentile fuori dalla famiglia, dell’uomo che non vuole che alcuna cosa gli sfugga di ciò che avviene in casa sua, dal controllo di quanti cornflakes vengono consumati a che i nipotini (o figli?) svolgano tutti i compiti. Un uomo perfino ossessionato dal far riprendere una vita “normale” in famiglia dopo che la nipote Angeliki (o figlia?) undicenne si è lanciata dal balcone di casa nella festa del suo compleanno: sparisca la torta avanzata, spariscano i suoi vestiti e le sue cose. La famiglia è composta da quest’uomo ultracinquantenne, dalla moglie pure anziana, una che pare senza volontà e senza forza di reagire o che asseconda i comportamenti del marito, sovente con in mano il suo telecomando a guardare programmi sul mondo animale, dalla figlia Eleni di nuovo incinta (di mariti non v’è traccia), dai suoi due bambini rimasti e dalla sorella giovanissima e ribelle di Eleni.
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Diffidare di chi mette troppa cura nel sistemare il nodo alla cravatta, di chi si mostra oltremodo compassato e gentile fuori dalla famiglia, dell’uomo che non vuole che alcuna cosa gli sfugga di ciò che avviene in casa sua, dal controllo di quanti cornflakes vengono consumati a che i nipotini (o figli?) svolgano tutti i compiti. Un uomo perfino ossessionato dal far riprendere una vita “normale” in famiglia dopo che la nipote Angeliki (o figlia?) undicenne si è lanciata dal balcone di casa nella festa del suo compleanno: sparisca la torta avanzata, spariscano i suoi vestiti e le sue cose. La famiglia è composta da quest’uomo ultracinquantenne, dalla moglie pure anziana, una che pare senza volontà e senza forza di reagire o che asseconda i comportamenti del marito, sovente con in mano il suo telecomando a guardare programmi sul mondo animale, dalla figlia Eleni di nuovo incinta (di mariti non v’è traccia), dai suoi due bambini rimasti e dalla sorella giovanissima e ribelle di Eleni. All’assistente sociale che segue la famiglia dopo quel suicidio e che osserva “sembra che qui non sia accaduto nulla”, lui, “mr. Violence” - bravissimo l’attore Themis Panou che sa farsi odiare al punto giusto e anche oltre - risponde “ho fatto di tutto per riuscirci”. Sedare, coprire, far apparire tutto nella normalità che egli ha stabilito, fatta di educazione ferrea, cervellotica e militaresca.
Difficile credere che in una sola famiglia possa concentrarsi tutta quella “disumana oppressione” dei suoi membri (tutte femmine con un solo maschietto, Philippos, solitamente il più punito), l’incapacità di reagire dei componenti, “spiriti umiliati e torturati” (parole di Gabriele Niola di MyMovies) ma così è, “la famiglia è il posto peggiore dove nascere” disse Freud e del resto il regista Avranas dice di essersi ispirato a fatti accaduti.
Il regista si concentra sull’aggressività e le brutture contenute nel microcosmo di una famiglia borghese (e si vedrà da cosa derivi un livello di vita borghese), siamo ad Atene, e astrae dalle condizioni sociali che oggi si dicono della Grecia, non se ne cura, al punto da risultare inverosimile che degli assistenti sociali possano occuparsi così da presso di una famiglia dove c’è stato un suicidio, oppure che un over 50, il capofamiglia (nonno o padre?), se da un lato si vede decurtare di 170€ l’assegno per la bambina a carico, morta, dall’altro trovi facilmente un lavoro di contabile part-time sebbene a tempo determinato. L’atto di coraggio o ribellione finale dell’anziana moglie non ci libera dal concentrato di violenza, contenuta più nelle parole e nei toni che nei fatti, circoscritti a delle scene pesantissime.
Incomprensibile la scelta della canzone di Cotugno, quella del’“l’italiano vero”, che banalizza un passo particolarmente drammatico, compensata dalla felice scelta di “Dance me to the end of love, dance me to your beauty with a burning violin” di Cohen, che accompagna il ballo di Angeliki al suo compleanno: sembra davvero un omaggio alla bellezza delle bambine e della loro mamma, l’attrice Eleni Roussinou. Angeliki s’è uccisa per non avere difese, nemmeno dalla sua madre, vittima a sua volta e per aver visto la bruttezza del mondo dei grandi, almeno quella racchiusa nella figura di quel nonno (o padre?).
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vjarkiv
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giovedì 12 febbraio 2015
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microcosmo familiare disfunzionale
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Miss Violence ovvero come rappresentare gli orrori di un microcosmo familiare disfunzionale. Il regista Alexandros Avranas (facente parte di quella sparuta rappresentanza di operatori del cinema ellenico) sceglie di accompagnare lo spettatore con una sceneggiatura essenziale ma affilata come la lama di un coltello ed una ambientazione claustrofobica che è l'appartamento-prigione dove la famiglia vive seguendo regole ben precise, dove le porte servono a nascondere l'indicibile, ma quando sono un ostacolo al potere assoluto del nonno-padre-padrone vengono divelte. L'incipit del film: il suicidio della figlia-nipote (?) al compimento dell'undicesimo compleanno fa subito capire che quello che vedremo sarà un "tutto in ordine, niente a posto".
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Miss Violence ovvero come rappresentare gli orrori di un microcosmo familiare disfunzionale. Il regista Alexandros Avranas (facente parte di quella sparuta rappresentanza di operatori del cinema ellenico) sceglie di accompagnare lo spettatore con una sceneggiatura essenziale ma affilata come la lama di un coltello ed una ambientazione claustrofobica che è l'appartamento-prigione dove la famiglia vive seguendo regole ben precise, dove le porte servono a nascondere l'indicibile, ma quando sono un ostacolo al potere assoluto del nonno-padre-padrone vengono divelte. L'incipit del film: il suicidio della figlia-nipote (?) al compimento dell'undicesimo compleanno fa subito capire che quello che vedremo sarà un "tutto in ordine, niente a posto". Una "normale" famiglia che fa dell'apparente serenità un in-consapevole credo da mostrare agli "altri". La violenza è poco rappresentata (escludendo lo stupro collettivo: vero pugno allo stomaco allo spettatore già inquietato dalle intuizioni che percepisce), ma la si respira per tutto il film. Anche l'ultimo atto di violenza che dovrebbe essere il definitivo, viene solo intravisto e "visto" con gli occhi "soddisfatti" della figlia-madre (?). Sembra tutto finito, ma la nonna ordina che si chiuda a chiave la porta d'ingresso…
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franci9292
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venerdì 16 ottobre 2015
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quando la violenza è dentro casa.
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Mi sembra ancora di essere lì, all’interno dell’abitazione e assistere, involontariamente, ai terribili soprusi di un padre-padrone su moglie e figlie innocenti.
Incredibile abilità del giovane regista greco Alexandros Avranas nel dirigere un attore protagonista, Themis Panou, che è stato in grado di interpretare in maniera eccellente la figura negativa e dèspotica di un uomo mentalmente instabile e carnefice, in senso fisico e psicologico, della propria famiglia.
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Mi sembra ancora di essere lì, all’interno dell’abitazione e assistere, involontariamente, ai terribili soprusi di un padre-padrone su moglie e figlie innocenti.
Incredibile abilità del giovane regista greco Alexandros Avranas nel dirigere un attore protagonista, Themis Panou, che è stato in grado di interpretare in maniera eccellente la figura negativa e dèspotica di un uomo mentalmente instabile e carnefice, in senso fisico e psicologico, della propria famiglia.
Il film si apre con il suicidio di una ragazzina di 11 anni e prosegue in maniera abbastanza lenta. Tende a soffermarsi su particolari che in un primo momento possono sembrare insignificanti ma che, poi, si riveleranno essenziali per la sua comprensione finale.
Cosa può spingere una ragazzina così giovane a mettere in atto il proprio suicidio? Sarà su questa domanda che il regista farà svolgere tutti gli eventi legati ad una famiglia apparentemente normale ma che, effettivamente, di normale non ha nulla.
Ci troviamo di fronte ad un nonno-padre-dèspota e tutta la sua stirpe pronta a servirlo, riverirlo e a obbedire a tutte quelle che sono le sue regole. Una violenza domestica che porterà la moglie, le figlie e i nipoti a credere di vivere nella normalità. Assistiamo poco a scene ambientate in spazi aperti. Tutto deve dare il senso di oppressione, di chiuso. E così è. La casa è lo scenario protagonista insieme a quelle che sono le ossessioni del padre nel cercare di avere tutto sempre sotto controllo ed essere al corrente di ogni cosa.
I dettagli sono importantissimi per cercare di entrare nella psicologia malata di quest’uomo che inevitabilmente ha danneggiato tutta la famiglia. Quella che in assoluto sembra essere stata manipolata maggiormente è la figlia più grande, Eleni, interpretata dall’attrice Eleni Roussinou che venera il padre e che ascolta ogni sua parola come fosse oro colato. Ma sarà anche la stessa sulla quale, alla fine del film, verrà fatta un’inquadratura di primo piano mettendo così in evidenza sul suo volto un risolino compiaciuto nel vedere il padre ucciso nella propria camera da letto e da interpretare, come la speranza di una libertà che non aveva mai avuto il piacere di assaporare.
Sembra essere la madre, quindi, a mettere fine a quel circolo vizioso di violenza che iniziava a coinvolgere anche i bambini più piccoli.
Ma come si dice: “la violenza genera violenza”. E così, quella che apparentemente potrebbe sembrare la fine di un incubo è invece solo l’inizio di un’altra storia di violenza. Questa volta, però, il ruolo di padrone è assunto dalla madre che obbliga la figlia più grande a chiudere a chiave la porta di casa, dando così inizio ad un nuovo incubo senza fine.
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guidobaldo maria riccardelli
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domenica 17 aprile 2016
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il circolo vizioso delle vittime moderne
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Crudo e penetrante, colpisce a sangue freddo, non avverte, fa intuire il peggio concretizzandosi invece in qualcosa che va al di là, scendendo in un inferno tangibile, pienamente reale nel suo apparente parossismo.
Alexandros Avranas si inserisce con prepotenza nella schiera di questo cinema ellenico moderno, pieno di vita nel descrivere la morte, capace di fotografare una realtà comune, non circoscrivendo scenarii applicabili alla sola società interna, ma estendibili ovunque, scienziati sociali prestati alla cinematografia, senza sconti per chi guarda.
Un insiema di vittime, sistemi sociali concentrici con a capo un riferimento, pronto a far valere la propria posizione dominante sui sottoposti: ci riferiamo alla sistema-famiglia sì, ma le medesime dinamiche non mancano di esistere sul posto di lavoro, così come nei gangli della burocrazia; un continuo movimento volto alla sopraffazione, una forgia capace di creare veri mostri sociali, dove i rapporti tra consanguinei si adattano a quelli tra estranei, fatti di punizioni e rinforzi, dove tutto è giustificato e giustificabile, dove i ben materiali divengono fulcro vitale, in cui tutto è spendibile, dalla propria dignità fino alla purezza di chi è strumento nelle mani altrui.
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Crudo e penetrante, colpisce a sangue freddo, non avverte, fa intuire il peggio concretizzandosi invece in qualcosa che va al di là, scendendo in un inferno tangibile, pienamente reale nel suo apparente parossismo.
Alexandros Avranas si inserisce con prepotenza nella schiera di questo cinema ellenico moderno, pieno di vita nel descrivere la morte, capace di fotografare una realtà comune, non circoscrivendo scenarii applicabili alla sola società interna, ma estendibili ovunque, scienziati sociali prestati alla cinematografia, senza sconti per chi guarda.
Un insiema di vittime, sistemi sociali concentrici con a capo un riferimento, pronto a far valere la propria posizione dominante sui sottoposti: ci riferiamo alla sistema-famiglia sì, ma le medesime dinamiche non mancano di esistere sul posto di lavoro, così come nei gangli della burocrazia; un continuo movimento volto alla sopraffazione, una forgia capace di creare veri mostri sociali, dove i rapporti tra consanguinei si adattano a quelli tra estranei, fatti di punizioni e rinforzi, dove tutto è giustificato e giustificabile, dove i ben materiali divengono fulcro vitale, in cui tutto è spendibile, dalla propria dignità fino alla purezza di chi è strumento nelle mani altrui.
Il sottotesto, sebbene chiaro, non è portato volutamente in superficie: il rapporto tra governati e governanti, e, ancor più, tra governanti e governanti, dove con questo, sarà chiaro, ci riferiamo ai rapporti imperialistici tra paesi.
Tra porte che si aprono e si chiudono, viene mostrato ciò che si può vedere, e suggerito ciò che si può facilmente immaginare o dedurre, senza artifici scenici di sospensione di una irrealtà che non è tale, o meglio: è, ma potrebbe tranquillamente non essere, nulla anche solo di verosimile è messo in scena. L'orrore lo abbiamo già, lo sdegno non ha bisogno di inviti, e la tragedia risiede nel fatto che ciò che ci messo davanti agli occhi non risponde a costruzioni di comodo.
Esiste una via di fuga, delle cesoie capaci di recidere il cappio? Forse sì, più facilmente no, eliminando dalle possibili soluzioni quella più drastica, seppur a suo modo risolutiva.
La porta si chiude, non ci è dato vedere.
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andrea lade
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domenica 8 dicembre 2013
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voto: 7 1/2
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Eh sì, proprio un bel film, forse il migliore di questa Venezia del 2013, un po’ deludente. Tra tanti dubbi lasciati da lungometraggi in pole position, “Miss Violence” si è aggiudicato il Leone d’Argento e la qualifica di “film rivelazione”, a pieno merito.
Il cinema greco è poco presente nel panorama europeo, ma quei pochi che riescono ad essere selezionati sono sempre drammi molto coinvolgenti e ben realizzati .
Il regista questa volta è Avranas, un giovane talento greco, di origine ebrea. La storia è quella di una famiglia patriarcale, dove la figura paterna riesce a dominare in modo intransigente e dittatoriale le componenti donne , 3 bambine, 2 giovani ragazze e l’anziana moglie.
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Eh sì, proprio un bel film, forse il migliore di questa Venezia del 2013, un po’ deludente. Tra tanti dubbi lasciati da lungometraggi in pole position, “Miss Violence” si è aggiudicato il Leone d’Argento e la qualifica di “film rivelazione”, a pieno merito.
Il cinema greco è poco presente nel panorama europeo, ma quei pochi che riescono ad essere selezionati sono sempre drammi molto coinvolgenti e ben realizzati .
Il regista questa volta è Avranas, un giovane talento greco, di origine ebrea. La storia è quella di una famiglia patriarcale, dove la figura paterna riesce a dominare in modo intransigente e dittatoriale le componenti donne , 3 bambine, 2 giovani ragazze e l’anziana moglie. Un atto estremo, come il suicidio di una delle figlie, dà il via allo sviluppo della storia e svelerà lentamente lo squilibrio dei rapporti tra i familiari mettendo in luce i veri sentimenti che si nascondono tra le pareti della malsana atmosfera domestica. L’ambiguità della storia è avvertibile già dai primi minuti del film, dove i personaggi, apparentemente normali, reagiscono all’evento con una freddezza non comune e vengono ripresi in situazioni di vita quotidiana fortemente condizionati da un’educazione rigidissima e da punizioni ossessive.
Con il proseguire del film la vera tragedia prende corpo e la durezza di alcune scene suggerisce un tentativo da parte del regista di uscir fuori dai confini del vissuto per riuscire a descrivere una situazione generale di crisi dei valori morali, esistente nella sua realtà greca, e chissà, in tutto il mondo occidentale. In questo film non si vuole affrontare la crisi economica, la si accenna solamente; si preferisce invece focalizzarsi sulla degenerazione dei valori morali che da essa può conseguire : la vicenda potrebbe rappresentare la metafora della nostra società al cui interno le persone crescono ed imparano il significato delle cose che le circondano, così quando entrano a far parte del tessuto sociale non riescono a ribellarsi e a reagire perché sono abituate a vivere in quel modo da sempre.
Molta riflessione,ma anche cinema di forte impatto emotivo: una voluta scarsità di dialoghi è compensata da una fotografia nitidissima che mette in risalto alcune scene durissime che colpiscono come un pugnale ghiacciato. Una parola alla colonna sonora , il cui tema principale è la splendida “Dancing to the end of Love” di Leonard Cohen, un motivo pervaso da forte malinconia e da un tocco di misticismo. Potrebbe essere la colonna sonora della chiusura di una giostra in una paesino di provincia semi disabitato di un giorno autunnale. Singolare la scelta di utilizzarlo come sfondo per una giornata di festa. La musica supera la scena e descrive esattamente il clima angosciante del film.
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eugenio
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giovedì 8 maggio 2014
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l'alveo familiare
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Ne avevamo bisogno?
Un film dove l’apparenza borghese di una famiglia è segnata da un’apparente quanto ingiustificato tragico lutto: il suicidio di una ragazzina nel giorno del suo undicesimo compleanno. Allo sconcerto dei familiari, la sconvolta madre e l’ancor più incredulo padre, seguirà un lungo flashback tramite il quale noi spettatori, senza alcuna remora, siamo messi di fronte dinanzi all’orrore (altro non si può definire) di un nucleo spezzato dalla violenza, dalla sopraffazione, dall’indifferenza e dalla repressione.
Suona strano che un film del genere sia stato girato in un territorio tristemente noto per l’imperante crisi cui è stato (ed è ancora) sottoposto. La Grecia, la terra dei Templi, il paese del sole e delle isole, universo illibato di auster classicità, è qui ripiegata nelle mura domestiche di una benestante, almeno in facciata, famiglia.
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Ne avevamo bisogno?
Un film dove l’apparenza borghese di una famiglia è segnata da un’apparente quanto ingiustificato tragico lutto: il suicidio di una ragazzina nel giorno del suo undicesimo compleanno. Allo sconcerto dei familiari, la sconvolta madre e l’ancor più incredulo padre, seguirà un lungo flashback tramite il quale noi spettatori, senza alcuna remora, siamo messi di fronte dinanzi all’orrore (altro non si può definire) di un nucleo spezzato dalla violenza, dalla sopraffazione, dall’indifferenza e dalla repressione.
Suona strano che un film del genere sia stato girato in un territorio tristemente noto per l’imperante crisi cui è stato (ed è ancora) sottoposto. La Grecia, la terra dei Templi, il paese del sole e delle isole, universo illibato di auster classicità, è qui ripiegata nelle mura domestiche di una benestante, almeno in facciata, famiglia. Una della middle-age si direbbe in America, quelle che non penseresti mai stiano in condizioni indigenti data la rispettibilità e la profonda onestà di cui sono testimoni.
Grattando con uno scalpellino in superficie, Avranas, un regista che ricorda per stile Haneke, ci mostra lentamente il tumore maligno che alberga in ciascun componente: nel padre, orco, pederasta, capofamiglia e patriarca in grado di imporre il proprio violento pugno di ferro senza che nessuno osi e trovi la forza di ribellarvisi: nè la madre, impotente e depressa dall’alcool come dimenticatoio, nè tantomeno i figli cui vengono inflitte assurde punizioni per altrettanto futili ragioni.
In un dramma da camera, uno spazio chiuso dove le pulsioni nascono, si accumulano sino a deflagrare nella violenza più cieca di un abisso dove nessuno è innocente, Avranas confeziona una tragedia- nel senso classico del termine- costruita secondo un climax collaudato che fa uso di bravi interpreti ( tra cui spicca Themis Panou nel ruolo del padre aguzzino) e di una fotografia nitida ed essenziale.
L’esaltazione di una realtà cruda e spietata persino in un universo protetto quale potrebbe essere l’alveo familiare non costituisce motivo di originalità (Polanski nelle opere tratte dai testi teatrali di Sartre aveva già ben reso l’idea) ed anche l’affettazione nel mostrare con vouyerismo lo spirito cinico della borghesia decaduta, scade nella pietas da panem et circenses ma il non detto, il lasciato intendere con eloquenti porte chiuse sullo sfondo di una musica da camera lenta e soffusa, non possono che lasciare sconvolti.
Perchè è così che ci si alza dopo la visione: con lo stomaco dolente come dopo un violento pestaggio di cui siamo stati vittime e gli occhi colmi di un orrore che avremmo fatto meglio a non osservare.
E quello che fa più paura non è la violenza in sè (quella fisica è appena accennata) quanto quella politica dal freddo sapore scientifico, dai volti privi di espressione, di comprensione o cedimento e, men che meno di umanità. Un orrore voluto e ingiustificato da cui non ci si può sottrarre come vinti da un particolare gioco ipnotico, un connubio di equilibrio e rigore formale.
Sottrarsi al gioco e soffrire in silenzio osservando il teatro della desolazione oppure comprendere e capire che non tutti i vicini della porta accanto non sono ciò che sembrano?
A voi la scelta.
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[+] middle-age
(di angelo umana)
[ - ] middle-age
[+] hai visto kinodontas ??
(di wizzypizzy)
[ - ] hai visto kinodontas ??
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gianleo67
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lunedì 18 agosto 2014
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al(la) fine dell'amore
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Un padre, tre figlie, due nipoti e una moglie. Il giorno del suo 11° compleanno la figlia più piccola si suicida gettandosi dal balcone di casa. I servizi sociali indagano tra le mille reticenze di una famiglia che sembra chiusa in se stessa e con un padre padrone che dietro l'apparente normalità borghese, mantiene sotto il proprio giogo le fragili psicologie femminili che sembrano obbedirgli con rassegnata condiscendenza.
Partendo da un titolo che evoca le truci perversioni dell'hard boiled orientale alla Park Chan-wook e da un incipit che oscilla tra il gelido distacco del dramma sociale nord europeo di Haneke e il microcosmo grottesco e surreale di Kaurismäki, il greco Alexandros Avranas sembra piuttosto assecondare le inquietudini del connazionale Lanthimos (Kynodontas - 2009) nell'agghiacciante resoconto di una degenerazione dei rapporti familiari dove alla tirannide patriarcale si contrappone l'omertosa complicità di una figura materna che , al pari delle sue vittime, si dimostra succube e schiava di una inconfessabile violenza domestica e che dietro l'ordine apparente di una consuetudine borghese nasconde una realtà atroce di sfruttamento e di prevaricazione.
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Un padre, tre figlie, due nipoti e una moglie. Il giorno del suo 11° compleanno la figlia più piccola si suicida gettandosi dal balcone di casa. I servizi sociali indagano tra le mille reticenze di una famiglia che sembra chiusa in se stessa e con un padre padrone che dietro l'apparente normalità borghese, mantiene sotto il proprio giogo le fragili psicologie femminili che sembrano obbedirgli con rassegnata condiscendenza.
Partendo da un titolo che evoca le truci perversioni dell'hard boiled orientale alla Park Chan-wook e da un incipit che oscilla tra il gelido distacco del dramma sociale nord europeo di Haneke e il microcosmo grottesco e surreale di Kaurismäki, il greco Alexandros Avranas sembra piuttosto assecondare le inquietudini del connazionale Lanthimos (Kynodontas - 2009) nell'agghiacciante resoconto di una degenerazione dei rapporti familiari dove alla tirannide patriarcale si contrappone l'omertosa complicità di una figura materna che , al pari delle sue vittime, si dimostra succube e schiava di una inconfessabile violenza domestica e che dietro l'ordine apparente di una consuetudine borghese nasconde una realtà atroce di sfruttamento e di prevaricazione. Sullo sfondo appena percepito di una società greca precipitata nella crisi economica e sociale e in balia di quelle forze centrifughe che sovvertono un sistema di valori scardinato dalle banali necessità alimentari (il cibo, i vestiti) e soggetto solo ai burocratici controlli di uno stato sociale distante e superficiale, l'autore riesce a mantenere nella prima parte un impeccabile rigore formale nel suggerire gli inquietanti risvolti di un dramma familiare che si consuma nel chiuso di una prigionia domestica dove nulla è quello che sembra e dove gesti e parole sembrano raggelarsi al di sotto di uno zero termico che rende invisibili all'occhio umano le loro pur impercettibili vibrazioni, insinuando così tra le pieghe del non detto e la mimica del linguaggio non verbale ciò che rende scoperto nella parte finale del film, dove invece tutto si fa più esplicito e brutale (la prostituzione delle figlie, la paternità dei nipoti, l'orrore dell'abuso pedofilo, il laido mercato di un approvvigionamento economico). Pur cedendo alla tentazione didascalica di questa escalation conclusiva di brutalità e di sangue, Avranas riesce a mantenere l'invidiabile coerenza di un registro drammatico trattenuto e interdetto, addentrandosi nel perimetro claustrofobico di un antro domestico dove si aggira, sotto le mentite spoglie di un buon padre borghese, la maschera grottesca e beffarda di uno spietato Minotauro dei nostri tempi. Segno di un codice di comportamento in cui l'ambiente familiare rappresenta l'inizio e la fine di un mondo di relazioni e di sentimenti, causa ed effetto di una disfunzionalità sociale da cui origina l'orrore, la fine dell'incubo è essa stessa fagocitata nel vuoto pneumatico di una porta chiusa e forse ambiguamente principio di un nuovo imperio domestico. Nel sottotesto musicale di L.Cohen ('Dance Me to the End of Love') lo straniante relativismo etico che richiama alla mente le sinuose suggestioni e le traumatiche esperienze familiari già viste in 'Exotica' di A.Egoyan ('Everybody Knows'). Leone d'Argento per la miglior regia alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
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eleonora panzeri
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sabato 29 ottobre 2016
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dietro la porta
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Una festa di compleanno, una finta e stentata allegria che non si spiega e poi un gesto, il più terribile ed inaspettato, che stride con il momento di festa e la giovanissima età della vittima.
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Una festa di compleanno, una finta e stentata allegria che non si spiega e poi un gesto, il più terribile ed inaspettato, che stride con il momento di festa e la giovanissima età della vittima. Cosa può spingere una bambina di 11 anni a porre fine ai suoi giorni? Non lo si capisce da subito, benché qualcosa sicuramente non va in questa famiglia in cui i ruoli parentali sono confusi, i sorrisi sono tirati e sinistri ed il vuoto alberga negli occhi delle donne della casa. Eleni, in particolare, sembra quasi una bambola priva di raziocinio, con i suoi grandi e bellissimi occhi, i trucchi forti e quel sorriso folle e spiritato. La storia scorre lenta in una modalità di riprese inconsueta, all’inseguimento dei personaggi tra le porte della casa; mentre cerchi di capire vieni chiuso fuori in attesa, sospettando o intuendo senza poter capire fino in fondo. Non vi è quasi mai una vera e propria violenza fisica, ma un lento e persistente logorio psicologico, un terrore costante e non da subito giustificabile. Il senso di angoscia è forte fino al punto di rottura in cui l’orrore appare inaspettato, nudo e crudo raggiungendo livelli da terminare quasi la visione. Tuttavia, per chi resiste, l’epilogo non potrà ridare l’infanzia rubata e l’innocenza perduta delle protagoniste, ma almeno un senso di giustizia e libertà in cui ti viene comunque scontato dire “doveva essere fatto prima”. La drammaticità del film sta nel fatto che per stessa ammissione del regista è ispirato ad una storia vera ancora peggiore e cruenta di quella raccontata.
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carloalberto
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venerdì 14 agosto 2020
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le porte di avranas
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Miss violence offre lo spunto per diverse interpretazioni. Teorema in forma di piece teatrale, che utilizza un caso estremo, in modo paradigmatico, per dimostrare che il male si nasconde tra le pieghe del tranquillo, insospettabile tran tran borghese, vive alla porta accanto ed ha il sorriso del buon vicino premuroso, tema caro a Polanski. Analisi sociologica del potere assoluto, personificato dal padre padrone, che sottomette le sue vittime, ne annulla la volontà e le riduce a meri oggetti per realizzare le sue più cupe perversioni, che richiama alla mente, anche per la crudezza e la violenza insopportabile dei fatti rappresentati, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini.
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Miss violence offre lo spunto per diverse interpretazioni. Teorema in forma di piece teatrale, che utilizza un caso estremo, in modo paradigmatico, per dimostrare che il male si nasconde tra le pieghe del tranquillo, insospettabile tran tran borghese, vive alla porta accanto ed ha il sorriso del buon vicino premuroso, tema caro a Polanski. Analisi sociologica del potere assoluto, personificato dal padre padrone, che sottomette le sue vittime, ne annulla la volontà e le riduce a meri oggetti per realizzare le sue più cupe perversioni, che richiama alla mente, anche per la crudezza e la violenza insopportabile dei fatti rappresentati, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini. Dramma familiare osservato in modo asettico, fino all’estraniamento assoluto dalle vicende narrate, nello stile del Sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos.
La complessità dei significati è appena celata da un descrittivismo naturalistico in cui le immagini, laddove non esplicitano, suggeriscono, comunque, inequivocabilmente quello che sta per accadere e le ingannevoli, ambigue scene iniziali velocemente cedono il passo alla rappresentazione realistica dell’orrore mostrato in un crescendo di rivelazioni traumatiche fino all’abominio assoluto.
Il film è soprattutto una riflessione sulla problematicità dello sguardo che si getta nello spazio dischiuso, quando il cinema o un altro mass media, raccontando storie come questa, apre porte che rimarrebbero altrimenti chiuse. Lo sguardo anaffettivo del regista, come in un gioco di specchi, si riflette in quello di volta in volta cinico, apatico, indifferente, ottuso, dell’assistente sociale, della vicina di casa, della direttrice scolastica, del datore di lavoro, ed infine in quello dei mass media, radio e televisione, il cui rumore onnipresente fa da sottofondo e da colonna sonora a tutto il film. C’è sempre un surplus di violenza gratuita che si aggiunge all’orrore.
Le porte in Miss violence sono tante e hanno diverse funzioni. La vicina apre la porta di casa con circospezione e la richiude frettolosamente, non vuole vedere per non dover prendere posizione, il mostro tirannico scardina la porta della stanza della figlia perché non vuole si creino intimità alternative a quella da lui imposta con le sevizie ed il ricatto, la moglie soggiogata e complice passiva, nella scena finale della ribellione catartica, quando ormai la tragedia è compiuta, dice alle figlie di chiudere la porta di casa a chiave. Ciò che resta di quelle anime perse e del loro imprevedibile futuro è custodito al di là della porta, chiusa a ripristinare e a preservare quel poco che ancora resta della loro umanità.
Si trascende forse l’intenzione di Alexandros Avranas se si interpreta quest’ultima frase pronunciata nel film, altrimenti enigmatica, come un’incursione metafilmica che simboleggia la volontà dei personaggi di sottrarsi alla violenza dello sguardo, al voyeurismo perbenista dello spettatore medio, che, nello scandalizzarsi in modo distaccato, trova inconsciamente una gratificante conferma della propria sana normalità. Indizi per una lettura in tal senso si ritrovano disseminati nel film. L’inquadratura fissa dalla prospettiva del televisore della famiglia riunita nel salotto, è emblematica di una visione capovolta della realtà, in cui il mezzo mediatico diventando soggetto non è più soltanto guardato, ma guarda e penetra violando l’intimità della casa. L’attenzione morbosa dei personaggi verso i documentari sugli animali mima l’interesse della gente comune per le trasmissioni del dolore di cui sono protagonisti spesso le vittime di abusi familiari. La partecipazione emotiva di chi guarda un documentario sugli scimpanzé o una storia di abiezione morale del resto è simile, ovvero meraviglia e disgusto per ciò che non è “umano”.
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noia1
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giovedì 12 marzo 2015
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la condanna della quotidianità
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Una famiglia e un pesante lutto.
Prova registica straordinaria, sembra poco a dirlo così, un conto però è fare un gran film con location su location, effetti speciali e magari anche qualche sparatoria, un altro è farne uno all’altezza con un decimo dei mezzi. Si perché se lo svolgersi del tutto avviene nel giro di un’ora e mezza, su questa ci sarà appena un quarto d’ora ambientato all’esterno delle quattro mura comprese tra le camere dei piccoli, la cucina e il salotto.
Un dramma familiare, dramma appunto dove dramma non c’è, tragica la morte della figlia undicenne, quella di mezzo trai piccoli e la maggiore, tra la comprensione e la vicinanza della comunità però tutto si svolge comunemente a qualsiasi giorno nel piccolo della famiglia: disinteresse, qualche coccola, qualche schiaffo, affetto, impegni … .
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Una famiglia e un pesante lutto.
Prova registica straordinaria, sembra poco a dirlo così, un conto però è fare un gran film con location su location, effetti speciali e magari anche qualche sparatoria, un altro è farne uno all’altezza con un decimo dei mezzi. Si perché se lo svolgersi del tutto avviene nel giro di un’ora e mezza, su questa ci sarà appena un quarto d’ora ambientato all’esterno delle quattro mura comprese tra le camere dei piccoli, la cucina e il salotto.
Un dramma familiare, dramma appunto dove dramma non c’è, tragica la morte della figlia undicenne, quella di mezzo trai piccoli e la maggiore, tra la comprensione e la vicinanza della comunità però tutto si svolge comunemente a qualsiasi giorno nel piccolo della famiglia: disinteresse, qualche coccola, qualche schiaffo, affetto, impegni … . Quasi fosse un universo parallelo, tutto procede tra i piccolini sempre a modo anche se un po’ esuberanti, la grande un po’ ribelle, la mamma vicina ma severa e i nonni che si istituiscono come possono alla mancanza del padre.
Un continuo chiudersi di porte, lucchetti, discorsi lasciati a metà nel fastidio sempre più evidente del nonno sentitosi minacciato chissà perché.
Come una torta, , si passa ai vari livelli, le diverse pressioni psicologiche di un inaspettato capofamiglia , il nonno e le sue punizioni. La mamma che da statua impassibile, appena chiusasi in bagno, esplode a piangere disperata senza alcun perché.
Fenomenale thriller, non un inseguimento, non un cervello aperto nella solita brutalità, opera di stile, angosciosamente fine. Gli attori fanno tutto e la telecamera fa il resto nel proseguirsi dello scoperchiamento di verità su verità, ci vengono presentati episodi che però sono tasselli dell’orrore di una quotidianità la cui consapevolezza fa forse più male di qualsiasi squartamento.
Ah, per la cronaca, gli episodi sono reali, non però tutti sulla stessa famiglia, una cronaca romanzata sulla brutalità peggiore di tutte: quella della famiglia.
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