nick9381
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venerdì 16 marzo 2012
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capolavoro!!!
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Assolutamente un capolovoro..
Necessario!
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andys80
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venerdì 16 marzo 2012
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la potenza dell'arte
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Grandioso film, con una grandissima potenza narrativa che coinvolge lo spettatore in un vortice di emozioni che tiene in fibrillo. Bravissimi gli attori, ragia sapiente e decisa. Musiche di altissimo livello, capaci di esprimere perfettamente lo stato emotivo che pervade il film.
Orso d'oro meritatissimo!
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chiarialessandro
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giovedì 15 marzo 2012
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come re mida
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Il buon cinema è talvolta paragonabile alla grande cucina, nel senso che un cuoco dotato di tutti gli attributi non ha necessità di caviale, tartufo bianco o aragosta per preparare un pranzo con i fiocchi; allo stesso modo, un (due) regista in stato di grazia non ha bisogno di trame complicate per realizzare un’opera d’arte; “Cesare deve morire” ne è la prova incontestabile. La trama è infatti di una semplicità quasi elementare: parla di un gruppo di detenuti che deve rappresentare teatralmente l’opera di Shakespeare. Vi lascio immaginare pure quella che possa essere la scenografia (quattro pareti e poco più) oppure i costumi di un gruppo di carcerati (talmente essenziali che forse riuscirei a farli anche io).
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Il buon cinema è talvolta paragonabile alla grande cucina, nel senso che un cuoco dotato di tutti gli attributi non ha necessità di caviale, tartufo bianco o aragosta per preparare un pranzo con i fiocchi; allo stesso modo, un (due) regista in stato di grazia non ha bisogno di trame complicate per realizzare un’opera d’arte; “Cesare deve morire” ne è la prova incontestabile. La trama è infatti di una semplicità quasi elementare: parla di un gruppo di detenuti che deve rappresentare teatralmente l’opera di Shakespeare. Vi lascio immaginare pure quella che possa essere la scenografia (quattro pareti e poco più) oppure i costumi di un gruppo di carcerati (talmente essenziali che forse riuscirei a farli anche io). Ma allora forse qualcuno si chiederà se e cosa mai ci possa essere in questa opera; risposta semplice semplice: potenza, forza espressiva (aumentata dall’uso del vecchio e caro “bianco e nero”), visionarietà, umanità, sensibilità, condivisione, partecipazione, ispirazione, recitazione, intensità, fiducia, creatività, scommesse, passato, presente, futuro, (oserei dire passati, presenti, futuri), rimorsi, riscatto, ispirazione, arte, vita, creatività, indipendenza, coraggio (follia?). Non è facile raccontare con le parole i sentimenti e le emozioni che nascono durante la visione di questa meraviglia; molto più semplice e gratificante andare al cinema. Da non scordare un concetto, emblematico ma non esaustivo, espresso da uno degli attori: “Il carcere è diventato una prigione da quando ho conosciuto l’arte”.
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writer58
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martedì 13 marzo 2012
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dal foro a rebibbia
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Camorristi, spacciatori, detenuti condannati per omicidio, un paio di ergastolani rinchiusi nel carcere romano di Rebibbia. Questi sono gli attori che rappresentano il "Giulio Cesare" di Shakespeare, che interpretano i ruoli di Bruto, Cassio, Decio, Marco Antonio, dello stesso Cesare. Nel farlo, rappresentano anche la propria vita, le proprie scelte, i propri errori. Impastano un presente, fatto di celle, cancelli, porte chiuse a chiave, spioncini che guardano simmetricamente su altri muri, altre porte, altri cancelli, con un passato che li ha condotti nello spazio totalitario del carcere e con un futuro che per qualcuno è segnato dalla mancanza di una data di fine pena.
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Camorristi, spacciatori, detenuti condannati per omicidio, un paio di ergastolani rinchiusi nel carcere romano di Rebibbia. Questi sono gli attori che rappresentano il "Giulio Cesare" di Shakespeare, che interpretano i ruoli di Bruto, Cassio, Decio, Marco Antonio, dello stesso Cesare. Nel farlo, rappresentano anche la propria vita, le proprie scelte, i propri errori. Impastano un presente, fatto di celle, cancelli, porte chiuse a chiave, spioncini che guardano simmetricamente su altri muri, altre porte, altri cancelli, con un passato che li ha condotti nello spazio totalitario del carcere e con un futuro che per qualcuno è segnato dalla mancanza di una data di fine pena.
"Cesare deve morire" dei fratelli Taviani è un film potente, doloroso, intenso, a tratti catartico. La corrispondenza tra la tragedia che viene messa in scena e le vicende drammatiche che hanno segnato l'esistenza dei detenuti-attori è sorprendente: il senso dell'onore, i tradimenti, la lotta al potere costituito, la vendetta, l'espiazione e la colpa ne costituiscono i tasselli essenziali. La recitazione è forte, sobria, piena di emozione e verità autentiche. Durante il provino, i detenuti devono declinare le proprie generalità - la prima volta come se si trovassero a un posto di frontiera e stessero dicendo addio a una persona amata, la seconda volta con rabbia, come se fossero informazioni estorte dopo un interrogatorio brutale- Lo fanno in un modo commovente, appassionato, caricando di intensità emotiva un elenco di freddi dati anagrafici.
Il film dei fratelli Taviani è qualcosa di più di un "docu-fiction"; è territorio di confine tra cinema, teatro, ricerca di senso, percorsi di riscatto personale. La scelta del bianco e nero si sposa alla perfezione con l'ambientazione carceraria e l'uso del dialetto caratterizza il "Giulio Cesare" come un "melting pot", una sorta di crocevia di itinerari personali, gerghi, culture che genera un effetto di forte prossimità con la materia originale narrata nella tragedia di Shakespeare.
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corel
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martedì 13 marzo 2012
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coinvolgente
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Bellissima tensione drammatica mai sopra le righe. Film tra i più belli da me visti almeno negli ultimi due anni.
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amicinema
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lunedì 12 marzo 2012
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un testo e un film assoluto e necessario
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Mi sento un uomo fortunato: in due giorni ho letto un magico libro italiano ("Mr Gwyn" di Baricco) e visto uno stufacente film di due ultraottantenni sempre italiani (appunto "Cesare deve morire").
Ho bevuto due distillati del miglior vino artistico italiano e sto ancora gustandomi con il pensiero ogni singola goccia, brivido dopo brivido.
Penso che il testo "Giulio Cesare" di Shakespeare sia un opera quasi perfetta, ogni parola e' incastonata stabilmente nel tessuto narrativo ed e' come se il suo posto non potesse che essere li', c'e' una assolutezza che quasi mi spaventa.
Questa impressione penso abbia sicuramente colpito anche i detenuti del carcere di Rebibbia che hanno fatto loro l'opera del bardo inglese come vestendo un abito gia' indossato in passato.
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Mi sento un uomo fortunato: in due giorni ho letto un magico libro italiano ("Mr Gwyn" di Baricco) e visto uno stufacente film di due ultraottantenni sempre italiani (appunto "Cesare deve morire").
Ho bevuto due distillati del miglior vino artistico italiano e sto ancora gustandomi con il pensiero ogni singola goccia, brivido dopo brivido.
Penso che il testo "Giulio Cesare" di Shakespeare sia un opera quasi perfetta, ogni parola e' incastonata stabilmente nel tessuto narrativo ed e' come se il suo posto non potesse che essere li', c'e' una assolutezza che quasi mi spaventa.
Questa impressione penso abbia sicuramente colpito anche i detenuti del carcere di Rebibbia che hanno fatto loro l'opera del bardo inglese come vestendo un abito gia' indossato in passato.
Si perche' loro le vicende, i temi, gli odi, i dolori, i tradimenti di Cesare, Bruto, Cassio e Antonio le hanno conosciute veramente nella loro vita (e lo ricordano piu' volte nel film), quello che non hanno mai vissuto e' appunto l'assolutezza, la necessarietà estrema che anima i personaggi della tragedia. Hanno vestito un abito conosciuto, ma l'opera gli ha donato un anima, vogliamo essere piu' prosaici e chiamiamola consapevolezza, che non gli abbandonerà mai piu'.
Intenso, forte nel suo tragico bianco e nero (io lo avrei mantenuto anche nelle scene finali), pieno di scene magistrali, e' un film che da lustro davvero al nostro paese e a una coppia di registi ancora con la voglia di sperimentare e di osare strade non ancora battute. Insieme a "This must be the place" il piu' bel film italiano della stagione (mi restituisce fiducia dopo la brutta esperienza di Faenza...).
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olgadik
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domenica 11 marzo 2012
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spontaneità e verità tra shakespeare e taviani
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Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario.
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Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario. Il tutto rappresentato in una sintesi lucida e sentita, lineare e quasi distaccata, ma percorsa da un’adesione e condivisione straordinaria. “Cesare deve morire” ha svolgimento nel carcere romano di Rebibbia, sezione Alta Sicurezza, dove ogni anno il regista Fabio Cavalli realizza con quei detenuti che superano il provino uno spettacolo teatrale come un momento catartico e liberatorio unico per i detenuti. Questi spesso scontano il carcere a vita e hanno sulle spalle il peso di delitti di mafia, omicidi, spaccio di droga. E la cinepresa digitale dei Taviani riprende proprio il faticoso impegno del loro collega nei vari momenti della realizzazione, aggiungendo ad essa la propria impronta inconfondibile. Ad esempio la scelta di un bianco e nero di tipo neorealistico che marca tutto il film. Dello spettacolo shakespeariano si mostrano i due momenti di massima drammaticità: l’uccisione di Cesare e la fine di Bruto e Cassio a Filippi. L’attenzione è concentrata sulla figura di Antonio come ambiguo personaggio di raccordo tra i due momenti che si tingono di rosso, il colore della passione e del sangue. Finito lo spettacolo, tutti tornano nel silenzio delle loro celle. Ma sarà tutto come prima? La dinamica dei sentimenti forti e già noti ai reclusi, come odio, conflitto, tradimento, onore, colpa, viene allo scoperto durante l’allestimento della rappresentazione come riflesso di quanto sulla scena si verifica tra Cesare e i congiurati. Ed è con grande finezza che i Taviani fanno entrare e uscire da se stessi i personaggi e gli interpreti. La verità delle loro esistenze è sempre presente o latente ma mai enfatizzata, risolta in lampi di sguardi, momenti di tensione in salita, accenni pudichi ai ricordi personali, presenti solo in forme riservate e insieme intense, quali un manifesto raffigurante un tratto di mare o il gesto di un detenuto che con la mano accarezza una poltrona del teatro pensando che forse su di essa l’indomani siederà una donna.
E alla fine comunque si torna a Rebibbia e alla sua realtà, rettangoli di sbarre che delimitano notti e giorni interminabili per chi ha sbagliato avendo (forse!) come piccola scusante la povertà e l’ignoranza. La maggior patte di loro non a caso proviene dalla Napoli più oltraggiata, da quella parte della Sicilia contigua al potere mafioso, dai quartieri violenti della metropoli. Di quell’appartenenza i carcerati serbano tuttora come prezioso riferimento identitario e creativo il dialetto, che i registi hanno voluto contrapporre alla lingua colta di W. Shakespeare. Un’altra scelta anticonformista e tesa ad esaltare spontaneità e verità.Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario. Il tutto rappresentato in una sintesi lucida e sentita, lineare e quasi distaccata, ma percorsa da un’adesione e condivisione straordinaria. “Cesare deve morire” ha svolgimento nel carcere romano di Rebibbia, sezione Alta Sicurezza, dove ogni anno il regista Fabio Cavalli realizza con quei detenuti che superano il provino uno spettacolo teatrale come un momento catartico e liberatorio unico per i detenuti. Questi spesso scontano il carcere a vita e hanno sulle spalle il peso di delitti di mafia, omicidi, spaccio di droga. E la cinepresa digitale dei Taviani riprende proprio il faticoso impegno del loro collega nei vari momenti della realizzazione, aggiungendo ad essa la propria impronta inconfondibile. Ad esempio la scelta di un bianco e nero di tipo neorealistico che marca tutto il film. Dello spettacolo shakespeariano si mostrano i due momenti di massima drammaticità: l’uccisione di Cesare e la fine di Bruto e Cassio a Filippi. L’attenzione è concentrata sulla figura di Antonio come ambiguo personaggio di raccordo tra i due momenti che si tingono di rosso, il colore della passione e del sangue. Finito lo spettacolo, tutti tornano nel silenzio delle loro celle. Ma sarà tutto come prima? La dinamica dei sentimenti forti e già noti ai reclusi, come odio, conflitto, tradimento, onore, colpa, viene allo scoperto durante l’allestimento della rappresentazione come riflesso di quanto sulla scena si verifica tra Cesare e i congiurati. Ed è con grande finezza che i Taviani fanno entrare e uscire da se stessi i personaggi e gli interpreti. La verità delle loro esistenze è sempre presente o latente ma mai enfatizzata, risolta in lampi di sguardi, momenti di tensione in salita, accenni pudichi ai ricordi personali, presenti solo in forme riservate e insieme intense, quali un manifesto raffigurante un tratto di mare o il gesto di un detenuto che con la mano accarezza una poltrona del teatro pensando che forse su di essa l’indomani siederà una donna. E alla fine comunque si torna a Rebibbia e alla sua realtà, rettangoli di sbarre che delimitano notti e giorni interminabili per chi ha sbagliato avendo (forse!) come piccola scusante la povertà e l’ignoranza. La maggior patte di loro non a caso proviene dalla Napoli più oltraggiata, da quella parte della Sicilia contigua al potere mafioso, dai quartieri violenti della metropoli. Di quell’appartenenza i carcerati serbano tuttora come prezioso riferimento identitario e creativo il dialetto, che i registi hanno voluto contrapporre alla lingua colta di W. Shakespeare. Un’altra scelta anticonformista e tesa ad esaltare spontaneità e verità.
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24luce
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sabato 10 marzo 2012
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il giulio cesare non muore mai
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I fratelli Taviani sono venuti di persona all'Odeon di Firenze per presentarlo.Accolti da una vera ovazione, tributata prima dello spettacolo a questi ragazzi ottantenni di San Miniato. Un tributo ad una carriera artistica di prim'ordine, culminata con l'Orso d'Oro di questi giorni per “Cesare deve morire”. Dopo la visione si rimane così colpiti che l'unico desiderio è quello di starsene soli in mezzo al pubblico, per non distrarsi da quel senso di pienezza che dà la visione di un capolavoro.
Alla presentazione gli interpreti del film sono elencati col nome proprio, a uno a uno, per ringraziarli, da Vittorio Taviani, che in questo modo li pone tutti sullo stesso piano,suggerendo l'importanza della partecipazione collettiva al successo del film.
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I fratelli Taviani sono venuti di persona all'Odeon di Firenze per presentarlo.Accolti da una vera ovazione, tributata prima dello spettacolo a questi ragazzi ottantenni di San Miniato. Un tributo ad una carriera artistica di prim'ordine, culminata con l'Orso d'Oro di questi giorni per “Cesare deve morire”. Dopo la visione si rimane così colpiti che l'unico desiderio è quello di starsene soli in mezzo al pubblico, per non distrarsi da quel senso di pienezza che dà la visione di un capolavoro.
Alla presentazione gli interpreti del film sono elencati col nome proprio, a uno a uno, per ringraziarli, da Vittorio Taviani, che in questo modo li pone tutti sullo stesso piano,suggerendo l'importanza della partecipazione collettiva al successo del film. Come è noto sono detenuti del carcere di massima sicurezza di Rebibbia. Il copione è “tratto da” Giulio Cesare di Shakespeare. Dal racconto della genesi del film, tutto sembra casuale. A cominciare dall'insistenza di un amico che li informava che a Rebibbia i detenuti facevano Shakespeare. Sotto la guida di Fabio Cavalli, che da anni fa teatro coi detenuti. Quando i registi, infine, ci sono andati, hanno sentito una tale passione nel recitare (un “Piero e Francesca” in dialetto napoletano! ) che si son detti”Cosa aspettiamo? Facciamo un film. Se poi è un documentario, non importa”. Girato in un rigoroso e drammatico bianco e nero. Per le prove il set ha invaso tutto il carcere. Anche lì sembra un caso: le prove non le potevano fare nel teatro del carcere, perchè era in in restauro. Risultato : tutte le scene risultano prepotentemente vita vissuta. “Ma questa Roma è come lo paese mio!” dice quasi sovrappensiero in una prova l' interprete di Cassio. Si studiano la parte a memoria, con impegno, e via via che le dicono, le parole acquistano sempre più significato. Il “Giulio Cesare” pervade le loro notti e trascina negli eventi drammatici, anche i compagni di cella dei protagonisti principali. La prigione non c'è più , i corridoi esterni sono vie di Roma, quelli interni, i palazzi in cui si adunavano i congiurati, il cortile dove “Augusto” fa l'elogio funebre di “Cesare”, morto ai suoi piedi, è il Foro Romano. La famosa frase “Perché Bruto è un uomo d'onore”, ripetuta da Augusto, era espressione-dicono i Taviani- della vita di questi detenuti. E aggiungono: “Queste persone avevano dimestichezza col delitto. Quando dicevano le battute, dicevano cose che avevano conosciuto. Quegli spaventi e quegli orrori erano a loro congeniali. Gli stavano dentro, era qualcosa che gli apparteneva”
Filmare i carcerati che dinamizzano ricordi sepolti e riescono ad esprimerli prendendo a prestito le parole di Shakespeare, che cos'è? E' un film, un'opera teatrale o il film di un'opera teatrale? Nessuna delle tre. Un capolavoro, proprio forse perchè non è classificabile. Frutto di un lavoro coraggioso fuori dgli schemi. Quello che si può dire con sicurezza è che questa opera è riuscita per il profondo rapporto che i registi hanno saputo instaurare con i detenuti. “Con loro si è creata complicità e amicizia”dicono infatti nella presentazione i Taviani. E aggiungono “Un'esperienza forte, drammatica e contradditoria, che dimostra che gli uomini possono cambiare”
E se la riabilitazione dei carcerati fosse cosa da artisti?
LUCIA EVANGELISTI
evanluci24@gmail.com
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nino quincampoix
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venerdì 9 marzo 2012
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ritorno al neorealismo
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Prima di tutto, voglio consigliare questo film a tutti quelli che amano il cinema. Regia impeccabile e con evidente esperienza (non devo dirlo io, lo so), ma sopratutto ottimi attori (non professionisti!). I personaggi principali di quest'opera forte e marziale di Shakespeare sono stati affidati agli giusti interpreti che forse per il loro vissuto riescono a portare in scena con grande credibilità Cesare, Bruto, Cassio e gli altri congiurati. La scelta del bianco e nero sottolinea la capacità espressiva di uomini che hanno imparato bene a canalizzare il proprio passato emotivo nella recitazione, che risulta, voglio ripeterlo, davvero credibile. Le urla dei carcerati tra le sbarre di Rebibbia diventano le grida di giustizia del popolo romano.
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Prima di tutto, voglio consigliare questo film a tutti quelli che amano il cinema. Regia impeccabile e con evidente esperienza (non devo dirlo io, lo so), ma sopratutto ottimi attori (non professionisti!). I personaggi principali di quest'opera forte e marziale di Shakespeare sono stati affidati agli giusti interpreti che forse per il loro vissuto riescono a portare in scena con grande credibilità Cesare, Bruto, Cassio e gli altri congiurati. La scelta del bianco e nero sottolinea la capacità espressiva di uomini che hanno imparato bene a canalizzare il proprio passato emotivo nella recitazione, che risulta, voglio ripeterlo, davvero credibile. Le urla dei carcerati tra le sbarre di Rebibbia diventano le grida di giustizia del popolo romano. Gli occhi sbarrati, stupefatti di Sasà, quelli disperati e consapevoli di Bruto. Un Orso d'oro più che meritato!
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