Cesare deve morire

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Un film di Paolo Taviani, Vittorio Taviani. Con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti.
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Docu-fiction, durata 77 min. - Italia 2012. - Sacher uscita venerdì 2 marzo 2012. MYMONETRO Cesare deve morire * * * 1/2 - valutazione media: 3,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

spontaneità e verità tra Shakespeare e Taviani Valutazione 5 stelle su cinque

di olgadik


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domenica 11 marzo 2012

 Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario. Il tutto rappresentato in una sintesi lucida e sentita, lineare e quasi distaccata, ma percorsa da un’adesione e condivisione straordinaria. “Cesare deve morire” ha svolgimento nel carcere romano di Rebibbia, sezione Alta Sicurezza, dove ogni anno il regista Fabio Cavalli realizza con quei detenuti che superano il provino uno spettacolo teatrale come un momento catartico e liberatorio unico per i detenuti. Questi spesso scontano il carcere a vita e hanno sulle spalle il peso di delitti di mafia, omicidi, spaccio di droga. E la cinepresa digitale dei Taviani riprende proprio il faticoso impegno del loro collega nei vari momenti della realizzazione, aggiungendo ad essa la propria impronta inconfondibile. Ad esempio la scelta di un bianco e nero di tipo neorealistico che marca tutto il film. Dello spettacolo shakespeariano si mostrano i due momenti di massima drammaticità: l’uccisione di Cesare e la fine di Bruto e Cassio a Filippi. L’attenzione è concentrata sulla figura di Antonio come ambiguo personaggio di raccordo tra i due momenti che si tingono di rosso, il colore della passione e del sangue. Finito lo spettacolo, tutti tornano nel silenzio delle loro celle. Ma sarà tutto come prima? La dinamica dei sentimenti forti e già noti ai reclusi, come odio, conflitto, tradimento, onore, colpa, viene allo scoperto durante l’allestimento della rappresentazione come riflesso di quanto sulla scena si verifica tra Cesare e i congiurati. Ed è con grande finezza che i Taviani fanno entrare e uscire da se stessi i personaggi e gli interpreti. La verità delle loro esistenze è sempre presente o latente ma mai enfatizzata, risolta in lampi di sguardi, momenti di tensione in salita, accenni pudichi ai ricordi personali, presenti solo in forme riservate e insieme intense, quali un manifesto raffigurante un tratto di mare o il gesto di un detenuto che con la mano accarezza una poltrona del teatro pensando che forse su di essa l’indomani siederà una donna.
E alla fine comunque si torna a Rebibbia e alla sua realtà, rettangoli di sbarre che delimitano notti e giorni interminabili per chi ha sbagliato avendo (forse!) come piccola scusante la povertà e l’ignoranza. La maggior patte di loro non a caso proviene dalla Napoli più oltraggiata, da quella parte della Sicilia contigua al potere mafioso, dai quartieri violenti della metropoli. Di quell’appartenenza i carcerati serbano tuttora come prezioso riferimento identitario e creativo il dialetto, che i registi hanno voluto contrapporre alla lingua colta di W. Shakespeare. Un’altra scelta anticonformista e tesa ad esaltare spontaneità e verità.Cesare è morto e continuerà a morire, ma l’opera di Shakespeare vive perché è interprete di sentimenti universali ed analisi potente, per chi sappia leggerla, della psiche umana. A presentare una rilettura del “Giulio Cesare” del grande commediografo inglese sono i fratelli Taviani, collocandola in un contesto singolare di cui molto si parla in queste settimane con distratta attenzione. Il ritorno al cinema, dopo i sei anni trascorsi da “La masseria delle allodole”, ha fatto ritrovare al .pubblico la possibilità di veder ancora fuse in una grande opera le varie componenti che caratterizzano da sempre la produzione dei due fratelli: la cronaca che si trasforma in storia e questa in epica, le azioni umane come dettato delle passioni che si agitano nel profondo, l’inesorabilità del fato che in veste di giustizia condanna le persone alla morte quotidiana del penitenziario. Il tutto rappresentato in una sintesi lucida e sentita, lineare e quasi distaccata, ma percorsa da un’adesione e condivisione straordinaria. “Cesare deve morire” ha svolgimento nel carcere romano di Rebibbia, sezione Alta Sicurezza, dove ogni anno il regista Fabio Cavalli realizza con quei detenuti che superano il provino uno spettacolo teatrale come un momento catartico e liberatorio unico per i detenuti. Questi spesso scontano il carcere a vita e hanno sulle spalle il peso di delitti di mafia, omicidi, spaccio di droga. E la cinepresa digitale dei Taviani riprende proprio il faticoso impegno del loro collega nei vari momenti della realizzazione, aggiungendo ad essa la propria impronta inconfondibile. Ad esempio la scelta di un bianco e nero di tipo neorealistico che marca tutto il film. Dello spettacolo shakespeariano si mostrano i due momenti di massima drammaticità: l’uccisione di Cesare e la fine di Bruto e Cassio a Filippi. L’attenzione è concentrata sulla figura di Antonio come ambiguo personaggio di raccordo tra i due momenti che si tingono di rosso, il colore della passione e del sangue. Finito lo spettacolo, tutti tornano nel silenzio delle loro celle. Ma sarà tutto come prima? La dinamica dei sentimenti forti e già noti ai reclusi, come odio, conflitto, tradimento, onore, colpa, viene allo scoperto durante l’allestimento della rappresentazione come riflesso di quanto sulla scena si verifica tra Cesare e i congiurati. Ed è con grande finezza che i Taviani fanno entrare e uscire da se stessi i personaggi e gli interpreti. La verità delle loro esistenze è sempre presente o latente ma mai enfatizzata, risolta in lampi di sguardi, momenti di tensione in salita, accenni pudichi ai ricordi personali, presenti solo in forme riservate e insieme intense, quali un manifesto raffigurante un tratto di mare o il gesto di un detenuto che con la mano accarezza una poltrona del teatro pensando che forse su di essa l’indomani siederà una donna. E alla fine comunque si torna a Rebibbia e alla sua realtà, rettangoli di sbarre che delimitano notti e giorni interminabili per chi ha sbagliato avendo (forse!) come piccola scusante la povertà e l’ignoranza. La maggior patte di loro non a caso proviene dalla Napoli più oltraggiata, da quella parte della Sicilia contigua al potere mafioso, dai quartieri violenti della metropoli. Di quell’appartenenza i carcerati serbano tuttora come prezioso riferimento identitario e creativo il dialetto, che i registi hanno voluto contrapporre alla lingua colta di W. Shakespeare. Un’altra scelta anticonformista e tesa ad esaltare spontaneità e verità.
 

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