rampante
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venerdì 16 novembre 2012
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giulio cesare
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Nel teatro all'interno del carcere di Rebibbia, sezione di massima sicurezza, si svolge la rappresentazione del "Giulio Cesare". Un dramma di Shakespeare e dei detenuti che lo interpretano e si identificano con i personaggi recitando in ogni mometo libero e adattando le frasi del testo ai loro caratteri, ai vari dialetti di provenienza. Tutti i detenuti sono coinvolti, è un momento per stare insieme, fare gruppo, crescere.
Una scelta di genio mettere in scena un classico del mondo anglosassone in un carcere con attori-detenuti, creare momenti di svago ed aiutarli a riavvicinarsi alla vita poichè, anche un detenuto é e resta un uomo.
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aleister
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mercoledì 14 novembre 2012
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cesare deve morire: arte e redenzione
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Quando si parla di sperimentalismo, non necessariamente bisogna pensare ad una sorta di salto a occhi chiusi nel vuoto, ad un viaggio verso ''territori'' inesplorati in qualunque ambito artistico, anzi molte volte con questo termine possiamo riferirci alla fusione e la conseguente ripresa di stili, modi di rappresentazione più o meno illustri del passato, tesi però verso nuovi obiettivi. Con questo Cesare Deve Morire, i fratelli Taviani ( Padre Padrone, Kaos, Tu ridi) sembrano seguire proprio questa forma di sperimentalismo.
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Quando si parla di sperimentalismo, non necessariamente bisogna pensare ad una sorta di salto a occhi chiusi nel vuoto, ad un viaggio verso ''territori'' inesplorati in qualunque ambito artistico, anzi molte volte con questo termine possiamo riferirci alla fusione e la conseguente ripresa di stili, modi di rappresentazione più o meno illustri del passato, tesi però verso nuovi obiettivi. Con questo Cesare Deve Morire, i fratelli Taviani ( Padre Padrone, Kaos, Tu ridi) sembrano seguire proprio questa forma di sperimentalismo.
Il film infatti è stato definito un docu-film, poichè riprende le prove e la messa in scena del Giulio Cesare di W. Shakespeare, di un gruppo di attori se vogliamo non convenzionale: infatti, gli interpreti di questo dramma storico sono i carcerati reclusi nel settore di massima sicurezza di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Tutti gli attori-carcerati sono condannati a pene che ammontano a diversi anni di carcere o all'ergastolo stesso, avendo compiuto gravissimi reati, fra i più disparati. Veniamo a sapere durante i provini degli stessi carcerati per entrare a far parte del cast, le loro generalità, il reato commesso e il tipo di pena da scontare. Un realismo estremo contraddistingue le prime sequenze del film: veniamo infatti direttamente a conoscenza delle informazioni basilari riguardo a dei pluriomicidi, spacciatori, mafiosi. Già dai provini risulta assolutamente evidente dai volti, dalle parole e dai gesti di questi individui, il loro stato di emarginazione, abbrutimento, disperazione. Ma queste sequenze danno corpo semplicemente all'incipit, il film infatti non ha come scopo principale quello di documentare una condizione umana ormai degradata. Il film documenta una presa di coscienza, un rinnovamento morale di un gruppo di carcerati, semplicemente riprendendo le prove di ogni scena del dramma, il costante studio delle battute soprattutto da parte degli attori protagonisti, gli interpreti di Bruto, Cesare e Cassio, fino ad arrivare alle scene finali in teatro della battaglia di Filippi e del suicidio dei due cesaricidi. Non è un Giulio Cesare convenzionale quello interpretato dai carcerati di Rebibbia: infatti, ogni attore recita le battute nel proprio dialetto di origine, chi in napoletano, chi in romanesco, con brevi passaggi in italiano. L'influenza del neorealismo italiano è evidente da questi primi particolari: a recitare non sono attori professionisti, ma gente ''della strada'', carcerati in questo caso. Non meno palese è il retaggio di Pasolini, per cui gli attori ,presi dalla strada, parlano il loro dialetto, per esprimere in modo autentico, immediato, vero, pur mantenendosi nella finzione, le passioni che emergono dalle loro parole, come nei film del regista-scrittore romagnolo. Man mano che si va avanti con le prove delle scene, una convinzione sempre più forte comincia a insinuarsi fra gli attori-carcerati, ciò che essi stanno facendo e dicendo solo per finta, non li ha semplicemente aiutati ad uscire da una condizione da reclusi, emarginati: questi individui sono entrati in una dimensione fino ad allora a loro sconosciuta, l'arte. I carcerati così, scoprono la libertà espressiva di cui l'arte è garante; cominciano a rendersi conto che quelle stesse passioni di cui quei personaggi furono portatori restano immortali grazie alla rappresentazione teatrale, grazie al loro sforzo in questo caso, di far rivivere quelle passioni. In definitiva, la scoperta dell'arte provoca nei carcerati la presa di coscienza di una superiore forma di libertà; cosicchè si ha la sensazione che ogni scena del dramma shakespeariano recitata dal gruppo di carcerati arrivi ad assumere un'aura epica, solenne: ogni dialogo fra i congiurati, ogni monologo, rappresenta nella finzione del dramma quanto per gli stessi carcerati, un passo avanti verso una sorta di ''avvaloramento'', ma soprattutto di pura redenzione morale. Quale tragedia avrebbe potuto esprimere meglio questi sentimenti, se non il dramma per antonomasia sulla lotta titanica contro il tiranno per la conquista della libertà, il Giulio Cesare? E' cosi che in questo film, grazie a questo particolare esperimento (neo)realista di teatro nel cinema, emerge dalla finzione scenica la pura verità sulla natura ancora profondamente e disperatamente umana di questi carcerati, che arrivano a identificarsi e immedesimarsi più che nella mente, nell'anima stessa dei loro personaggi, di Cesare, di Bruto, di Cassio, di Antonio. Ecco che nel film sorge spontanea la riflessione sul significato della recitazione, dell'interpretazione: non si tratta della semplice identificazione con una maschera fittizia, ma essa è tale se viene a crearsi l'amore vero e proprio per un personaggio, una condivisione di passioni e ideali. Il carcerato che interpreta Cesare, arriva a considerare il suo personaggio ''un genio'', l'interprete di Bruto prova con impegno maniacale le sue battute tanto è rimasto sedotto dalla tragica vicenda del cesaricida, in cui sembra quasi rivivere fatti di sangue di cui lui stesso fu testimone o protagonista. L'esperienza artistica-teatrale cambia radicalmente questi uomini, ma dopo la fine della rappresentazione teatrale, gli ''attori di Rebibbia'' tornano nelle loro celle, carichi di una nuova, tragica consapevolezza. Infatti, l'interprete di Cassio, rinchiuso nella sua cella, dopo qualche secondo di silenzio amaramente afferma:'' Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione''. La libertà interiore raggiunta grazie all'arte, ha reso pienamente consapevoli i carcerati della loro condizione, in cui sembra ormai impossibile esprimere se stessi a causa della reclusione. Questi uomini si rendono conto dell'altra faccia dell'arte, la sua natura illusoria, fittizia, appunto perchè libera creazione, ma che per qualunque uomo, e più che mai per condannati all'ergastolo o ad anni di prigione, può diventare più reale e straordinaria della vita stessa.
Tutto ciò viene espresso stilisticamente da uno splendido bianco e nero per tutte le scene del film ambientate nel carcere, che esprime perfettamente il senso di prigionia, aridità, inquietudine, e che nei moltissimi primi piani e nei campi lunghi delle scene di gruppo, come la riunione per il giuramento dei congiurati e dell'assassinio di Cesare, dona anche l'atmosfera di tragicità e maestosità per un Giulio Cesare girato direttamente in carcere per giunta.
Questa pellicola pertanto, raggiunge per questi motivi un livello di eccellenza tale che ha pochissimi paragoni nel cinema italiano di questi ultimi anni, poichè la potenza visiva e comunicativa del film grazie alla sintesi di vita e arte, di verità e finzione, di Shakespeare e cinema, ha dato vita ad un'opera unica nel suo genere. Cesare deve morire è stato il film italiano scelto per partecipare agli Academy Awards del 2013 fra le pellicole che concorrono per aggiudicarsi l'Oscar al miglior film straniero. Il cinema italiano rappresentato dai precedenti Gomorra scelto nel 2009 e Terraferma nel 2012, non ebbe attribuita la statuetta, nonostante l'indiscutibile qualità superiore di queste pellicole, ma forse, il film dei Taviani riuscirà finalmente a ridare un po' di lustro ufficiale al nostro martoriato cinema, dopo l'ultimo Oscar a La Vita è Bella di Benigni nel '99.
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antonello chichiricco
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mercoledì 3 ottobre 2012
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anime schiacciate
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L’ultima opera dei fratelli Taviani è indubbiamente un riuscito film-documento (modernamente definito con l’ennesimo anglicismo traslato dalla Tv: docufiction) che, impalcato sul parziale libero adattamento di Fabio Cavalli (presente lui stesso nel film) del dramma scespiriano “Giulio Cesare”, affronta con efficacia il terribile tema della reclusione.
Favorire lo sviluppo di percorsi d’integrazione sociale e inserimento lavorativo per un ex detenuto che esce dal carcere è certamente arduo, tuttavia produce discrete probabilità di successo. Salvaguardare la psiche e la dignità di un essere umano costretto dentro una cella per lunghissimi anni o per tutto il resto della sua vita è molto più difficile e delicato.
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L’ultima opera dei fratelli Taviani è indubbiamente un riuscito film-documento (modernamente definito con l’ennesimo anglicismo traslato dalla Tv: docufiction) che, impalcato sul parziale libero adattamento di Fabio Cavalli (presente lui stesso nel film) del dramma scespiriano “Giulio Cesare”, affronta con efficacia il terribile tema della reclusione.
Favorire lo sviluppo di percorsi d’integrazione sociale e inserimento lavorativo per un ex detenuto che esce dal carcere è certamente arduo, tuttavia produce discrete probabilità di successo. Salvaguardare la psiche e la dignità di un essere umano costretto dentro una cella per lunghissimi anni o per tutto il resto della sua vita è molto più difficile e delicato. Lavoro, letture, studio, sono certamente utili ma presentano valenza soprattutto pedagogico-cognitiva. Mentre il laboratorio teatrale opportunamente intensificato e organizzato all’interno delle carceri potrebbe rappresentare per quegli esseri umani che “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo” un formidabile strumento polivalente di recupero della propria integrità. Forse il più efficace. Una sorta di psicodramma metamorfico e liberatorio di rinvenimento individuale.
Mi spiego meglio. Recitare – e questo vale per qualunque attore – è un po’ entrare in un personaggio ricercandone in se stessi un approvvigionamento emotivo mediabile e differenziabile. Nel caso del detenuto-attore, anche se non ha mai recitato, si spalanca in più un contatto diretto con la coscienza di sé in un incontro istintuale col proprio Io disaffermato. Si dissotterra la sua anima schiacciata, spaventata, indurita, reclusa più del corpo stesso. In quel “recitare” convergono allora potentissime pulsioni quali disperazione, castrazioni affettive, reminiscenze, paure, spasimi vitali, rivendicazioni, rigurgiti d’orgoglio, spinte autodistruttive, sensi di colpa, vettori che emergono esplodendo in superficie, legittimati da una finzione che libera la loro autenticità ed innesca un’ebrezza catartica incontenibile. E’ troppo superficiale e semplificatorio quindi affermare “ma guarda che bravi attori si rivelano questi detenuti!”.
Felicemente adeguata, riconducente al neorealismo, la scelta - che mi piace pensare con-passionevole - del bianco e nero, dove forse per un carcerato i colori dell’anima restano Fuori (“quanto azzurro lassù…”).
Apprezzabili nel significato ma paradossalmente poco verosimili o mal rappresentati gl’inserti “veristi”, sui retroscena conflittuali e personali dei vari interpreti. Forse insistere di più con stacchi su prove e preparativi avrebbe rimarcato ulteriormente l’autenticità della recita accentuandone il lirismo.
Azzeccate le presentazioni degli attori con nomi e cognomi nonché marchio identificativo della durata della detenzione. Irresistibilmente struggente la frase finale di Cosimo Rega, alias Cassio: “Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. E a proposito di frasi mi ha colpito negativamente quella tipica del gergo giuridico-carcerario, riportata nella scheda di alcuni interpreti: “fine pena: mai”. Un infelice locuzione inferta quale monito, secondo me concepita da un sadico con sottile perfidia. Quel “mai”, duro e inflessibile, suona tanto di crudele gratuita empietà, allora era meglio “ergastolo”, o “carcere a vita”.
Per concludere, un’opera di primaria importanza, che onora il cinema italiano (meritatissimo l’Orso d’oro di Berlino), che riporta l’attenzione su un dramma irrisolto della società civile e che conferma l’impegno e la coerenza dei “terribili vecchietti” Paolo e Vittorio Taviani.
Sarebbe interessante vedere un film analogo trasposto al femminile.
Antonello Chichiricco
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salvo90
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mercoledì 26 settembre 2012
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la visione di chi sa fare cinema
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I veri registi si vedono quando si mettono alla prova con l'impossibilità della rappresentazione. Rendere possibile la trasposizione cinematografica di una tragedia storica come il "Giulio Cesare" di Shakespeare recitata da detenuti è qualcosa che rasenta una doppia impossibilità. Eppure, la magistrale regia dei Taviani, la teatralità innata degli artisti-detenuti di questo film, la fotografia impressionante, altro non fanno che confermare che non ha senso rincorrere biechi giovanilismi nel cinema nostrano, ma che i grandi maestri come i Taviani sono sempre pronti a darci, anche a distanza di anni dall'ultimo film, una lezione, forse più una visione credibile e possibile di fare cinema anche tentando il triplo salto mortale.
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I veri registi si vedono quando si mettono alla prova con l'impossibilità della rappresentazione. Rendere possibile la trasposizione cinematografica di una tragedia storica come il "Giulio Cesare" di Shakespeare recitata da detenuti è qualcosa che rasenta una doppia impossibilità. Eppure, la magistrale regia dei Taviani, la teatralità innata degli artisti-detenuti di questo film, la fotografia impressionante, altro non fanno che confermare che non ha senso rincorrere biechi giovanilismi nel cinema nostrano, ma che i grandi maestri come i Taviani sono sempre pronti a darci, anche a distanza di anni dall'ultimo film, una lezione, forse più una visione credibile e possibile di fare cinema anche tentando il triplo salto mortale. La tragedia, la storia, la detenzione, l'arte, il cinema si fondono ed offrono allo spettatore una riflessione lancinante sulla società attuale. Attraverso giochi d'astrazione quali quelli del "coinvolgere i carcerati" si giunge non alla banale docufiction o al tentativo goffo di "sensibilizzare", ma ad uno spazio che nel genere storico è stato finora trascurato: la rappresentazione del reale mediante la finzione della tragedia. Opera magistrale e riuscita che merita in pieno ogni riconoscimento "possibile".
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donni romani
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venerdì 21 settembre 2012
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shakespeare a rebibbia
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Coraggioso Orso d'oro al Festival di Berlino - coraggioso perchè il film dura poco più di un'ora, perchè la pellicola è in bianco e nero, perchè gli attori sono dilettanti e perchè "profanare" Shakespeare facendolo recitare in dialetto è una magia riuscita a pochi - arriva in sala l'ultima fatica dei fratelli Taviani e spiazza anche i puristi, anche chi Shakespeare è abituato a sentirlo recitare da attori come Sir Lawrence Olivier o Kenneth Branagh. Perchè il gruppo di detenuti del carcere romano di Rebibbia cui è affidato il compito di allestire il "Giulio Cesare" di Shakespeare mettono in scena non solo i versi immortali e mai tanto attuali - fatti di arrivismo, tradimento e congiure politiche - del Bardo, ma anche le loro storie, il loro vissuto doloroso, la delusione e il fallimento di una intera esistenza.
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Coraggioso Orso d'oro al Festival di Berlino - coraggioso perchè il film dura poco più di un'ora, perchè la pellicola è in bianco e nero, perchè gli attori sono dilettanti e perchè "profanare" Shakespeare facendolo recitare in dialetto è una magia riuscita a pochi - arriva in sala l'ultima fatica dei fratelli Taviani e spiazza anche i puristi, anche chi Shakespeare è abituato a sentirlo recitare da attori come Sir Lawrence Olivier o Kenneth Branagh. Perchè il gruppo di detenuti del carcere romano di Rebibbia cui è affidato il compito di allestire il "Giulio Cesare" di Shakespeare mettono in scena non solo i versi immortali e mai tanto attuali - fatti di arrivismo, tradimento e congiure politiche - del Bardo, ma anche le loro storie, il loro vissuto doloroso, la delusione e il fallimento di una intera esistenza. E danno vita, e voci roche, e volti scavati, e corpi provati, ad un'opera che è insieme testimonianza del potere dell'arte, afflato di partecipazione umana ad un progetto comune, rivincita verso se stessi e verso il destino, e non ultimo, una messa in scena appassionata, in cui ogni battuta è stata provata centinaia di volte, nel silenzio di una cella, nascosti in cortile, per dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stessi, che se pur estromessi dal mondo civile si ha ancora un'anima cui aggrapparsi. La messa in scena è semplicemente magistrale, le scene si sovrappongono e gli spazi entro cui si provano i dialoghi si aprono come se fossero davvero i Fori Romani. I protagonisti, da Cesare, a Bruto, a Cassio, ad Antonio, hanno il merito di mettere in palcoscenico tutte le loro fragilità, tutta la violenza in cui sono cresciuti, tutta la voglia di riscatto - due di loro hanno poi scritto un libro, un terzo è diventato attore dopo aver scontato la sua pena - ma è ai grandi registi che sono i fratelli Taviani che va il merito di aver saputo maneggiare tematiche più che scottanti senza mai calcare la mano o prendere una posizione politica, ma di aver semplicemente fatto dell'arte pura, vera, cinematograficamente impeccabile ed umanamente emozionante.
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gianmarco.diroma
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martedì 31 luglio 2012
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'na cosa mia
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"Chesta è 'na cosa mia!", dice Bruto/Salvatore Striano, rivolgendosi rabbioso al suo regista, quando il racconto che sta interpretando inizia a coinvolgerlo troppo. Mentre Marco Antonio/Antonio Frasca, preda dello stesso malore (frutto dei rischi insiti in una recita giocata in prima persona) risponde con un mutismo assordante, che lascia intuire spazi bui di un'anima che ha conosciuto l'inferno di chissà quali interrogatori.
La frase/battuta "chesta è 'na cosa mia!", pronunciata da Bruto/Salvatore ed il silenzio di cui si nutre la rabbia di Marco Antonio/Antonio, sono i due estremi entro i quali si muove il dramma shakespeariano (o scespiriano) del Giulio Cesare filmato tra le mure di Rebibbia dai fratelli Taviani.
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"Chesta è 'na cosa mia!", dice Bruto/Salvatore Striano, rivolgendosi rabbioso al suo regista, quando il racconto che sta interpretando inizia a coinvolgerlo troppo. Mentre Marco Antonio/Antonio Frasca, preda dello stesso malore (frutto dei rischi insiti in una recita giocata in prima persona) risponde con un mutismo assordante, che lascia intuire spazi bui di un'anima che ha conosciuto l'inferno di chissà quali interrogatori.
La frase/battuta "chesta è 'na cosa mia!", pronunciata da Bruto/Salvatore ed il silenzio di cui si nutre la rabbia di Marco Antonio/Antonio, sono i due estremi entro i quali si muove il dramma shakespeariano (o scespiriano) del Giulio Cesare filmato tra le mure di Rebibbia dai fratelli Taviani. Nello spazio di una "cheba" (come si direbbe a Venezia), che per associazione evoca l'immagine di una gabbia qual è lo spazio della prigione, s'inscena il tempo dell'arte. Esiste il tempo dell'arte diceva Sun Tzu. Ed esiste il tempo della guerra. Curioso come l'Italia abbia rivoluzionato i codici linguistici dell'arte nel secolo scorso poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale (con il Futurismo), e subito dopo la fine della Seconda (con il Neorealismo). Curioso come questi personaggi possano incarnare con tale intensità le parole del Bardo: sono detenuti nella vita prestati al cinema verità dei fratelli Taviani, persone che non solo hanno vissuto delle guerre durissime che si possono solo immaginare (e che hanno perso), ma che vivono in una condizione di guerra permanente (in guerra con il proprio passato, rappresentato dall'"essersi fidate di persone sbagliate" in un sistema-malavita in cui "anche i gabbiani hanno scelto di (o sono costretti ad) andarsi a sfamare nelle discariche", in guerra con il proprio presente, rappresentato dallo spazio angusto di un "buso", e con il proprio futuro, in cui diventa difficile pensare di potersi reintegrare). E tra la pieghe di questa macabra curiosità, in cui si cela un qualcosa di masturbatorio, si cela quella stellina mancante per giudicare (con tutta l'umiltà possibile e con il rispetto necessario che Paolo e Vittorio Taviani meritano) questo film un capolavoro. Perché il film si chiude con questa battuta (più o meno), pronunciata da Cosimo Rega/Cassio: "Da quando ho conosciuto l'arte, questa stanza è diventata veramente una prigione". Perché chiudendo il film con questa battuta si è voluto elogiare la forza liberatrice dell'arte, trascurando però le cause che hanno permesso a questo film di essere un'opera d'arte a tutti gli effetti: la prigionia forzata dei suoi protagonisti, ovvero la condizione necessaria per la riuscita di questa operazione! E quindi diventa ancora più curioso constatare una reale corrispondenza tra i personaggi e i detenuti scelti per interpretarli. Se ne scelgono due in questa sede: Bruto e Marco Antonio. Bruto è una sorta di "pasionaria" repubblicana che quando il gioco si fa duro, non si riesce a trattenere ed urla al proprio regista, "chesta è 'na cosa mia!". Marco Antonio sceglie la via del silenzio quando il dolore della sua interpretazione si fa troppo pressante ed interpreta colui che con grande abilità politica obbligherà Bruto (e Cassio) alla fuga e alla battaglia (e alla sconfitta e al suicidio). Da una parte lo sfogo femmineo quindi, dall'altra il rigore del silenzio. Da una parte quindi la biografia spettacolarizzata di Salvatore Striano. Dall'altra il silenzio di Antonio Frasca.
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paride86
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venerdì 27 luglio 2012
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sempliciotto e buonista
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Sull'opera di Shakespeare non si può dire nulla di male, e farla recitare ai carcerati è sicuramente un'idea interessante e, in un certo senso, terapeutica.
Tuttavia ha senso considerare cinema la sua illustrazione? Non si tratta, in realtà, di un percorso che inizia e finisce nel carcere di Rebibbia?
"Cesare deve morire" è in realtà un documentario intriso di buonismo che non dimostra nulla, si limita a mostrare come alcuni detenuti - colpevoli di gravissimi crimini - preparano uno spettacolo teatrale.
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Sull'opera di Shakespeare non si può dire nulla di male, e farla recitare ai carcerati è sicuramente un'idea interessante e, in un certo senso, terapeutica.
Tuttavia ha senso considerare cinema la sua illustrazione? Non si tratta, in realtà, di un percorso che inizia e finisce nel carcere di Rebibbia?
"Cesare deve morire" è in realtà un documentario intriso di buonismo che non dimostra nulla, si limita a mostrare come alcuni detenuti - colpevoli di gravissimi crimini - preparano uno spettacolo teatrale.
Non c'è un parallelo con storie e percorsi interiori dei protagonisti, e quando i registi tentano di proporlo suona falso e forzato.
A trionfare è lo zucchero: assassini e criminali che recitano Shakespeare commuovono perché il messaggio che si sottintende è che il profondo valore dell'Arte possa salvare e redimere qualsiasi vita.
Ma per favore! Abitare in Italia, dunque, dovrebbe essere la panacea per ogni tipo di criminalità.
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fukaeri
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giovedì 28 giugno 2012
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shakespeare a rebibbia
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Favoloso film del fratelli Taviani, come dimostra il meritatissimo Orso d'Oro che si sono aggiudicati a Berlino.
Tratta della rappresentazione del "Giulio Cesare" di Shakespeare da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia, i quali riescono ad attualizzarlo a tal punto, da rivedersi negli stessi personaggi che interpretano. Questo parallelismo tra rappresentazione e realtà viene esaltato ancora più da quelle che sono le principali caratteristiche di questi detenuti-attori: il senso dell'onore, del rispetto, la vendetta..
Si assiste quindi, a una meravigliosa recitazione, profonda e significativa che risalta la sofferenza e la rabbia dei protagnisti.
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Favoloso film del fratelli Taviani, come dimostra il meritatissimo Orso d'Oro che si sono aggiudicati a Berlino.
Tratta della rappresentazione del "Giulio Cesare" di Shakespeare da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia, i quali riescono ad attualizzarlo a tal punto, da rivedersi negli stessi personaggi che interpretano. Questo parallelismo tra rappresentazione e realtà viene esaltato ancora più da quelle che sono le principali caratteristiche di questi detenuti-attori: il senso dell'onore, del rispetto, la vendetta..
Si assiste quindi, a una meravigliosa recitazione, profonda e significativa che risalta la sofferenza e la rabbia dei protagnisti.
"Cesare deve morire" non è un semplice film, ne un documentario; ma un filo conduttore tra cinema, teatro e vita.
Ottima la scelta del bianco e nero che esalta la narrazione, così come l'utilizzo dei vari dialetti.
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gabriele marolda
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domenica 13 maggio 2012
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shakespeare a rebibbia
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Il film dei fratelli Paolo e VittorioTaviani, premiato con l'Orso d'oro al festival del cinema di Berlino e con i David di Donatello, rientra a buon diritto tra quelli più significativi dell'odierna cinematografia italiana.
Realizzato con lo stile della docu-fiction, è stato girato interamente nei laboratori teatrali creati all'interno del carcere Rebibbia di Roma dal regista Fabio Cavalli e interpretato esclusivamente da persone condannate a pene detentive per gravi reati (per alcuni di essi "fine pena mai").
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Il film dei fratelli Paolo e VittorioTaviani, premiato con l'Orso d'oro al festival del cinema di Berlino e con i David di Donatello, rientra a buon diritto tra quelli più significativi dell'odierna cinematografia italiana.
Realizzato con lo stile della docu-fiction, è stato girato interamente nei laboratori teatrali creati all'interno del carcere Rebibbia di Roma dal regista Fabio Cavalli e interpretato esclusivamente da persone condannate a pene detentive per gravi reati (per alcuni di essi "fine pena mai").
La tragedia shakesperiana di Giulio Cesare viene magistralmente rappresentata da detenuti/attori selezionati tra i volontari con regolari provini, che formano essi stessi parte avvincente dello spettacolo. E' una ricostruzione molto originale di tutto il percorso di realizzazione dell'opera, in cui i personaggi veri trovano attraverso l'impegno teatrale una motivazione umana di recupero dei valori sociali, dell'arte, di una vita diversa e migliore di quella in cui si sono cacciati per il loro comportamento criminale. Molto apprezzabile l'iniziativa del carcere di Rebibbia, poiché essa realizza quella che nella nostra Costituzione è la funzione rieducativa della pena.
Interessante l'idea di far recitare gli attori ciascuno nel dialetto proprio, allo scopo di consentir loro di vivere in modo più intimo, personale, la parte assegnata.
L'uso preponderante del bianco e nero contribuisce a dare un tono più forte al dramma che si consuma nella scena, e appare più adeguato all'ambiente in cui si svolge la rappresentazione.
In questi attori improvvisati abbiamo trovato una capacità straordinaria di entrare con una capacità da veri professionisti nei personaggi loro affidati: Cosimo Rega interpreta Cesare ed anche la sua facies dà bene l'idea del grande condottiero
nel dubbio tra l'ambizione e l'amore per la sua Roma; Salvatore Striano è Bruto, il cospiratore il cui amore per la Res Publica prevalse su quello per l'amico Cesare tanto da indurlo all'assassinio; Antonio Frasca è Marcantonio, autore di una delle più mirabili orazioni funebri, capace di mutare, con il suo appassionato discorso in memoria di Cesare, l'animo del popolo, prima attratto dall'uomo d'onore Bruto e dalla sua affabulazione, contro gli assassini, cacciati dalla città.
Un pauso ai venerandi fratelli, che hanno dato contenuti degni di ammirazione ad una umanità dolente, resa consapevole finalmente di valori che possono almeno alleviare la triste stagione della pena. Scioccante una delle ultime battute messe in bocca all'interprete di Bruto, tornato nella sua cella alla fine del dramma: "Ora che ho conosciuto l'arte questa cella è diventata una prigione".
I nostri protagonisti hanno respirato l'universalità dell'arte, a conclusione del loro nobile lavoro vengono accompagnati mestamente nelle loro celle, e il suono sinistro del cancello e della porta metallica che si chiude alle loro spalle cade come un pesante sipario d'acciaio sulla loro anima, e forse un po' anche in quella dello spettatore.
Nell'ultima scena, tuttavia, nei costumi dell'antica Roma e a vividi colori, perché la vita trionfa su tutte le tristi vicende umane, il corpo di Bruto riprende vita tirato su da un Cesare, pure lui redivivo.
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zelos1977
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giovedì 10 maggio 2012
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shakespeare nel duemila in carcere
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Un esemplare esempio di grande cinema nostrano sperimentale.. ricorda abbastanza (con le rispettive proporzioni) il "Riccardo III Un Uomo un Re" di Al Pacino. Ben fotografato, diretto, recitato da detenuti "attori" del carcere di Rebibbia con un sconvolgente coinvolgimento emotivo collettivo.
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Un esemplare esempio di grande cinema nostrano sperimentale.. ricorda abbastanza (con le rispettive proporzioni) il "Riccardo III Un Uomo un Re" di Al Pacino. Ben fotografato, diretto, recitato da detenuti "attori" del carcere di Rebibbia con un sconvolgente coinvolgimento emotivo collettivo.
Orso d'Oro al Festival di Berlino 2012 meritatissimo.. forse il più bel film della carriera dei registi toscani! W il cinema italiano!
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