laulilla
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venerdì 18 giugno 2010
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prima che sia troppo tardi
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il film ci ricorda che, prima del 1948, anno in cui fu costituito e riconosciuto lo stato di Israele, nel territorio ora israeliano, convivevano pacificamente gruppi di palestinesi di culture e religioni diverse (la madre del regista, ad esempio, era di cultura cattolica), che conducevano una vita dignitosa e civile e che non gradirono certamente la nuova condizione. I primi tentativi di ribellione vennero brutalmente stroncati: alcuni pagarono con la vita, altri accettarono faticosamente la situazione, nutrendo propositi più o meno velleitari di ribellione. Fuad Suleiman, padre del regista, esperto tornitore di Nazareth, un tempo fabbricante di armi, dopo aver drammaticamente subito, sulla propria pelle, le conseguenze del nuovo stato di cose, sembrava aver ritrovato, oltre alla propria casa, il proprio lavoro e la possibilità di farsi una famiglia con la donna amata, che riteneva perduta.
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il film ci ricorda che, prima del 1948, anno in cui fu costituito e riconosciuto lo stato di Israele, nel territorio ora israeliano, convivevano pacificamente gruppi di palestinesi di culture e religioni diverse (la madre del regista, ad esempio, era di cultura cattolica), che conducevano una vita dignitosa e civile e che non gradirono certamente la nuova condizione. I primi tentativi di ribellione vennero brutalmente stroncati: alcuni pagarono con la vita, altri accettarono faticosamente la situazione, nutrendo propositi più o meno velleitari di ribellione. Fuad Suleiman, padre del regista, esperto tornitore di Nazareth, un tempo fabbricante di armi, dopo aver drammaticamente subito, sulla propria pelle, le conseguenze del nuovo stato di cose, sembrava aver ritrovato, oltre alla propria casa, il proprio lavoro e la possibilità di farsi una famiglia con la donna amata, che riteneva perduta. Il nuovo stato di Israele, infatti, aveva cercato, agli inizi, un consenso vasto intorno a sé, garantendo diritti civili e religiosi a tutti, anche a coloro che ebrei non erano. Col passare del tempo, però, purtroppo, i rapporti fra i diversi gruppi etnici e religiosi peggiorarono e intorno ai vecchi abitanti del territorio israeliano cominciarono a crearsi sospetti e incomprensioni, in un lento, ma inesorabile crescendo di sopraffazioni,e intimidazioni. Nel raccontarci la storia della sua famiglia, e quindi anche la propria storia, Elia Suleiman ci mostra con ironia, con dolore e con incredulo sbigottimento l'assurdità di una situazione in cui da una parte lo stato di Israele, grazie alle sue istituzioni efficienti e democratiche, assicura a tutti la scuola, la sanità, l'assistenza agli anziani, ma contemporaneamente limita sempre più le libertà individuali degli antichi abitanti palestinesi, in modo ottuso, non riuscendo a distinguere, ad esempio, un'attività di pesca notturna da un traffico d'armi; una scorta di bulgur dalla polvere da sparo. Il risultato di questo modo di procedere è un'umiliazione continua, la sensazione di vivere una vita senza speranze per il futuro e senza identità, nonché la frustrazione di ogni progetto. Il regista assiste, con assoluta impassibilità, al progressivo degrado della dignità delle minoranze umiliate, con occhi attoniti e sbigottiti, che a molti hanno ricordato la fissità dello sguardo di Buster Keaton. I fatti, sembra dirci, parlano da sé, e preludono, forse, se non cambierà nulla, a una deflagrazione dalle imprevedibili conseguenze, di cui è metafora la vicenda con cui il film si apre: quella del taxi che ha smarrito la strada e che, avendo anche esaurito la benzina, è destinato a perdersi in una tempesta d'acqua e di fulmini di insospettabile violenza. Film bellissimo, connotato da un tono pacato e tranquillo, senza odio, quasi un invito alla ragione, prima che sia troppo tardi.
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(di giovj)
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bravobene
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venerdì 18 giugno 2010
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il tempo sottratto
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Quello del tassista che accompagna il cliente (Elia Suleiman) a casa dall'aeroporto ma, colto da un improvviso e violentissimo, veterotestamentale acquazzone, è costretto a fermarsi in una strada che non riconosce più, perso anche il contatto audio con la stazione dei taxi, tra lo scoppio di tuoni dalla potenza inaudita, sorpreso, stupito e infine sconvolto da tanto scompiglio meteorologico e capace solo di ripetere "Ma, che sta succedendo? Che sta succedendo?", è uno dei migliori incipit cinematografici degli ultimi anni. Viene un po' da ridere a vedere un omaccione che si spaventa ogni volta che un lampo squarcia il cielo buio, seguito subito da una tremenda esplosione e poi si resta coinvolti nel suo "perdersi" davanti a qualcosa di così repentino e inspiegabile, in un certo modo sovrannaturale.
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Quello del tassista che accompagna il cliente (Elia Suleiman) a casa dall'aeroporto ma, colto da un improvviso e violentissimo, veterotestamentale acquazzone, è costretto a fermarsi in una strada che non riconosce più, perso anche il contatto audio con la stazione dei taxi, tra lo scoppio di tuoni dalla potenza inaudita, sorpreso, stupito e infine sconvolto da tanto scompiglio meteorologico e capace solo di ripetere "Ma, che sta succedendo? Che sta succedendo?", è uno dei migliori incipit cinematografici degli ultimi anni. Viene un po' da ridere a vedere un omaccione che si spaventa ogni volta che un lampo squarcia il cielo buio, seguito subito da una tremenda esplosione e poi si resta coinvolti nel suo "perdersi" davanti a qualcosa di così repentino e inspiegabile, in un certo modo sovrannaturale.
Un evento inspiegabile e improvviso, sembra voler dire il regista, come fu per i palestinesi la proclamazione dello stato di Israele nel 1948. Non si tratta qui di trovare una soluzione alla questione israelo-palestinese, che servirebbero molto più dei 105 minuti e, a questo punto, è più difficile da sviscerare del problema di cosa sia nato prima se l'uovo o la gallina, ma di entrare in una casa palestinese e standoci dentro vedere cosa è successo. Quindi il punto di vista è quello di un palestinese. Precisamente di Elia Suleiman che non inventa ma si basa sui diari del padre del periodo della resistenza e sui suoi stessi ricordi che impasta e modella in forma surreale, forse l'unico modo valido di analizzare una vicenda al di là di ogni concezione logica che si trascina da decenni (o secoli?).
Ne viene fuori una vera e propria opera d'arte, un film ricco di sorprese visive, di rimandi al cinema di Tati e di Buster Keaton ma che fa anche pensare a una sorta di Amarcord felliniano, con i suoi personaggi strambi che subiscono la storia. Fotogrammi che a tratti sembrano quadri di Hopper e richiami fischiettati al Padrino e al film wester per eccellenza. Difficile scegliere, in tutto questo, la scena più bella. Si va dalle grottesche foto istituzionali che terminano puntualmente con il primo piano del fondoschiena del fotografo (al momento della firma del trattato tra il sindaco di Nazareth e i militari israeliani e alla premiazione del coro scolastico) alla guerriglia urbana interrotta dal passaggio di una madre col passeggino che si ferma proprio nel mezzo e quando i soldati israeliani le intimano di andare a casa lei gli urla contro, come se stesse litigando con la dirimpettaia, "Io a casa? Voi andatevene a casa!". Oppure il reiterarsi dei vaghi tentativi di suicidio del vicino di casa che si cosparge di benzina e dice che non ha senso vivere in quel modo. Il cannone di un carrarmato che segue millimetricamente i movimenti di un giovane che fa avanti e indietro parlando al cellulare senza mollarlo un secondo. La pattuglia di soldati israeliani che annunciano il coprifuoco all'esterno di un locale ma lo fanno a ritmo della musica house. O la cucina dove si siedono a tavola il piccolo Elia Suleiman, la madre e il padre e che diventa il fulcro delle vicende col passare degli anni. Anni che scivolano via senza che niente cambi. Anni di vita del padre di Elia sempre impegnato nella resistenza, tra costruzione casereccia di armi e nottate passate al mare a "pescare". Anni di vita della madre di Elia che scrive lettere ai parenti in esilio e che assiste in silenzio agli arresti prima del marito poi del figlio. Anni di vita dello stesso Elia che vediamo da bambino sgridato dal preside della scuola ("Chi ti ha detto che l'America è colonialista? Eh? Chi ti ha detto che l'America è imperialista? Eh?" ) e che tenterà il salto con l'asta del muro che li separa dalla realtà. E' forse questo il significato del titolo. Che non si tratta solo di territorio ma anche, e soprattutto, di tempo sottratto, il tempo che rimane. Un film da vedere assolutamente.
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brian77
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giovedì 12 agosto 2010
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impegnativo, ma notevole
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E' un film straordinario, che ci racconta la tragedia dei palestinesi con i modi di una comica raggelata. Sconcerta buona parte del pubblico, perché non usa il tradizionale coinvolgimento narrativo in una vicenda, con personaggi, racconto naturalistico eccetera. E' invece raccontato per vignette caustiche, per gag apparentemente farsesche dove però non c'è niente da ridere, perché la materia è tragica. C'è l'umorismo, ma amaro. Soprattutto, è un film totalmente cinematografico, che si esprime tutto attraverso le immagini, i ritmi visivi, i vuoi e i pieni delle immagini. Trovo solo un po' meccanica nella seconda parte l'alternanza tra la realtà sempre più degradata e lo sguardo "keatoniano" dello stesso regista come interprete.
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E' un film straordinario, che ci racconta la tragedia dei palestinesi con i modi di una comica raggelata. Sconcerta buona parte del pubblico, perché non usa il tradizionale coinvolgimento narrativo in una vicenda, con personaggi, racconto naturalistico eccetera. E' invece raccontato per vignette caustiche, per gag apparentemente farsesche dove però non c'è niente da ridere, perché la materia è tragica. C'è l'umorismo, ma amaro. Soprattutto, è un film totalmente cinematografico, che si esprime tutto attraverso le immagini, i ritmi visivi, i vuoi e i pieni delle immagini. Trovo solo un po' meccanica nella seconda parte l'alternanza tra la realtà sempre più degradata e lo sguardo "keatoniano" dello stesso regista come interprete. E mentre il film procede ripetendo spesso situazioni analoghe, ma con tempi sempre un po' diversi, ci interroghiamo: sul modo in cui ci abituiamo alla sopraffazione e all'orrore, sullo scorrere della vita nell'ingiustizia, sul degrado sempre maggiore in cui viviamo, sul brutto da cui siamo sempre più circondati. Alla fine siamo inebetiti, la musica della sala da ballo finisce per accordarsi grottescamente alle frasi del poliziotto israeliano, come in un rap surreale. Peccato che il doppiaggio rovini l'impasto tra immagini e sonoro originale. E' vero: si tratta di un film che non ci fa ridere (che c'è da ridere?) e non ci fa piangere (e lo credo, non vuol essere ricattatorio, patetico, come tanto cinema medio, simil-televisivo, quello che chiamano "di qualità" ma che non ha affatto qualità, è solo retorico). Ma è un film che emoziona, perché trasmette emozioni profonde, quelle del cinema, del trasmettere concetti ed emozioni attraverso gli strumenti particolari del cinema, non facendoci pistolotti. Ad esempio, "Il giardino dei limoni" è un film decoroso ma ovvio, ci dice cose che sappiamo senza spostarci di un centimetro. Questo è di tutt'altro livello, ci interroga sulla Palestina e Israele, ma anche su di noi e sul cinema.
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alberto pezzi
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domenica 9 agosto 2015
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efficace ma rischioso
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E’ SICURAMENTE UN FILM MOLTO DIFFICILE. DOPO LA PRIMA, HO PROVATO A RIVEDERLO UNA SECONDA VOLTA, E’ STATO MOLTO UTILE. SI TRATTA DI UN FILM RICCO DI METAFORE, RICCO DI SPUNTI, MA MOLTO PESANTE DA CAPIRE AL PRIMO IMPATTO. E’ CERTAMENTE UNA FOTOGRAFIA CHIARA E DECISA DEL PUNTO DI VISTA PALESTINESE NELL’ ETERNA GUERRA CON ISRAELE. UNA FOTOGRAFIA CHE RIASSUME DI CONSEGUENZA ANCHE LA POSIZIONE DEL REGISTA. NON A CASO INFATTI, SI TRATTA DI UN FILM SEMI-AUTOBIOGRAFICO. COSA DIRE E COSA FARE DI FRONTE A QUESTA PELLICOLA?? IO HO CERCATO DI CAPIRE E RISPETTARE PROFONDAMENTE LA POSIZIONE PALESTINESE, E’ VERO INFATTI CHE NON BISOGNA ESSERE PER FORZA ESTREMISTI PER ESSERE PALESTINESI.
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E’ SICURAMENTE UN FILM MOLTO DIFFICILE. DOPO LA PRIMA, HO PROVATO A RIVEDERLO UNA SECONDA VOLTA, E’ STATO MOLTO UTILE. SI TRATTA DI UN FILM RICCO DI METAFORE, RICCO DI SPUNTI, MA MOLTO PESANTE DA CAPIRE AL PRIMO IMPATTO. E’ CERTAMENTE UNA FOTOGRAFIA CHIARA E DECISA DEL PUNTO DI VISTA PALESTINESE NELL’ ETERNA GUERRA CON ISRAELE. UNA FOTOGRAFIA CHE RIASSUME DI CONSEGUENZA ANCHE LA POSIZIONE DEL REGISTA. NON A CASO INFATTI, SI TRATTA DI UN FILM SEMI-AUTOBIOGRAFICO. COSA DIRE E COSA FARE DI FRONTE A QUESTA PELLICOLA?? IO HO CERCATO DI CAPIRE E RISPETTARE PROFONDAMENTE LA POSIZIONE PALESTINESE, E’ VERO INFATTI CHE NON BISOGNA ESSERE PER FORZA ESTREMISTI PER ESSERE PALESTINESI. C’E’ UN CONTINUO SUSSEGUIRSI DI STACCHI, SGUARDI, INQUADRATURE E POSIZIONI CHE POSSONO CREARE UNA CERTA CONFUSIONE. PIU’ CHE DI COMICITA’, PENSO CHE IL FILM SIA RICCO DI SARCASMO. L’ OPERA DI SULEIMAN E’ DI CERTO NOTEVOLE, ANCHE ALLA LUCE DEL FATTO CHE TRATTARE CERTI TEMI NON E’ FACILE. A MIO PARERE, LA COSA PIU’ BELLA DEL FILM, E’ LA STORIA D’ AMORE INFINITA CHE LEGA LA MAMMA ED IL PAPA’ DEL PROTAGONISTA. LA MAMMA DI ELIA E’ UN SIMBOLO DEL FILM, COME IL PADRE, LEGATO ALLA SUA TERRA IN MODO MOLTO PROFONDO. BISOGNA PERO’ STARE ATTENTI, AVERE PAZIENZA E NON GIUNGERE A CONCLUSIONI AFFRETTATE NELL’ AFFRONTARE QUEST’ OPERA. FILM A SENSO UNICO??? PUO’ DARSI. DI CERTO IL REGISTA NON RINNEGA LE SUE ORIGINI. BISOGNEREBBE APPROFONDIRE CON CURA QUESTA STORIA, QUESTA GUERRA INFINITA TRA QUESTI DUE POPOLI, PER DIRE QUALCOSA IN PIU’. IMPEGNATIVO E DIFFICILE. MA NON INUTILE. DI CERTO CHI LO VEDE, ESCE DALLA SALA CON UN BAGAGLIO DI CONOSCENZE AUMENTATO RISPETTO A PRIMA. CREDO CHE IL MESSAGGIO DI SULEIMAN SIA DA PRENDERE IN SERIA CONSIDERAZIONE, CONDIVISIBILE O MENO ESSO SIA.
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stefano capasso
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lunedì 14 settembre 2020
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parabola di una famiglia e di un popolo
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Elia Suleiman, regista nato a Nazareth, racconta in questo film, la storia della Palestina dal 1948 ad oggi. È una storia che è vista attraverso gli episodi familiari di cui è stato testimoni ed altri che fanno parte della narrazione della famiglia stessa. Suleiman divide il racconto in quattro macro episodi, che vanno dal 1948 ad oggi, passando per gli anni ’60 e gli anni ’80. Attraverso episodi di vita quotidiana, che ripetono a volta in modo ossessivo e una messa in scena sempre al limite del grottesco, il regista costruisce quello straniamento necessario per mettere sullo sfondo, senza allontanarlo, il grande conflitto vissuto dal suo popolo dal momento dell’occupazione israeliana.
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Elia Suleiman, regista nato a Nazareth, racconta in questo film, la storia della Palestina dal 1948 ad oggi. È una storia che è vista attraverso gli episodi familiari di cui è stato testimoni ed altri che fanno parte della narrazione della famiglia stessa. Suleiman divide il racconto in quattro macro episodi, che vanno dal 1948 ad oggi, passando per gli anni ’60 e gli anni ’80. Attraverso episodi di vita quotidiana, che ripetono a volta in modo ossessivo e una messa in scena sempre al limite del grottesco, il regista costruisce quello straniamento necessario per mettere sullo sfondo, senza allontanarlo, il grande conflitto vissuto dal suo popolo dal momento dell’occupazione israeliana. Recitazione e assenza di dialoghi quasi totale restituiscono l’assurdità di tale conflitto, che entra nell’intimità del tessuto familiare. Un linguaggio, quello di Suleiman, assolutamente originale, malinconico e tagliente che pur non mostrando quasi mai momenti drammatici, li evoca continuamente, in particolar modo nella sagoma che mette in scena egli stesso nel suo auto interpretarsi nell’ultimo episodio.
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