Potere. Soldi. Sangue. Questi sono i valori con i quali gli abitanti di Caserta devono scontrarsi ogni giorno. Non esiste scelta, devi obbedire e seguire le regole del Sistema, la Camorra, altrimenti sono guai. Sembra un altro mondo, distopico, apocalittico, ma è ben radicato nella nostra Italia.
Gomorra è uno dei film più importanti degli ultimi anni, e si tratta anche di uno dei rari sprazzi di grandiosità, del cinema italiano, che riesce, in un’epoca di cinepanettoni, a sfornare capolavori. Basato sull’omonimo romanzo di Roberto Saviano, Gomorra è un intersecarsi di quattro storie ed un antefatto ambientato in un centro abbronzante. Vivere a 30 anni sotto scorta, e col peso di aver scoperchiato il vaso di Pandora della camorra casertana (la più potente della Campania, probabilmente), dev’essere difficile. Ancora più difficile se il proprio lavoro è diventato quasi un paradigma di un nuovo modo d’intendere l’impegno civile e il racconto impegnato in Italia. Perciò, dopo un romanzo best seller e un’importante opera teatrale, per Roberto Saviano arriva anche l’atteso e importante film. Scelta rischiosa, resa ancora più intrigante dalla scelta di mettere in cabina di regia il talento e la capacità immaginifica di Matteo Garrone. Ma la forza del progetto e la caratura degli elementi in campo danno vita, finalmente per l’Italia, a un grande film. Scritto da Garrone con Saviano, Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio e Massimo Gaudioso, un film che scavalca definizioni, etichette e generi (anche se sembra un vero e proprio film di guerra), un enorme e poderoso affresco non solo della camorra e delle articolazioni dei suoi traffici, ma anche della sua gente, dei suoi luoghi, dei suoi riferimenti culturali e sociali, fatti di musica neo-melodica, cinema frainteso, valori deturpati. Ambientato nei veri luoghi della camorra, tra le inquietanti architetture dell’urbanesimo campano (la casa bruciata del boss, Le Vele), il film racconta l’abisso infernale in cui è sceso il profondo sud italiano finito in mano alla violenza e all’interesse economico più spietato, in cui ogni minima forma di onore, valore o rispetto è stato distrutto in nome del denaro e del potere, misurabile oltre che con la moneta anche con la possibilità di uccidere e commettere impunemente atrocità: un terzo o altro mondo che ha reagito all’abbandono e all’incuria del potere precostituito con proprie regole, leggi e istituzioni (il contabile che paga la pensione ai vecchi affiliati), ma che – a differenza di organizzazioni parastatali come la mafia – non ha saputo dare coerenza e ordine a un gioco di bambino presto trasformatosi in puro orrore, dove non solo non esistono più buoni o cattivi, ma nemmeno alleati e nemici. E ognuno uccide quasi per conto proprio. Tutto filtrato dai punti di vista di giovani ed estranei al sistema criminale, il film parte già dal folgorante incipit all’insegna di una notevole cura filmica messa al servizio del racconto che Garrone gestisce attaccandosi alla realtà con rispetto, cercando di rendere con secchezza e lucidità la società e la realtà, non solo locale, che alla camorra è connessa, attraverso la necessaria frammentazione narrativa, ma anche con una maturità di sguardo e di approccio impressionanti, che riescono a raccontare mondi e connessioni e sottotesti che vanno molto al di là di ciò che lo schermo rimanda. Garrone e soci, con una struttura maestosa, dimostrano una grande abilità nel maneggiare un racconto quasi non narrativo, ma più documentaristico, dalle rarissime convenzioni, e il piglio cronachistico e d’indagine, nel costruire climax, personaggi e andamenti narrativi quasi da saga senza mai far sentire il peso del racconto. In modo che la regia possa dare prova di straordinario talento e misura, nell’uso accuratissimo di steadycam e contributi tecnici (fotografia di Marco Onorato, montaggio di Marco Spoletini, scenografie di Paolo Confini), primo e primissimo piano, soprattutto del fuori fuoco, per raccontare un mondo al singolare, fatto di imperativi categorici che finiscono necessariamente per condurre lontano, fuori dalla mischia, per scelta o per forza, tradotto in immagini che – di nuovo nel panorama nostrano – possiamo definire significative. A comporre ulteriormente la potenza dell’affresco, così profondo nel sondare un’intera “civiltà”, un incredibile cast fatto di attori noti (Toni Servillo, Gianfelice Imparato), glorie del teatro partenopeo (Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo) e non professionisti coinvolti di persona nelle storie raccontate. Si esce scossi e coinvolti senza nemmeno accorgersene, come uno dei personaggi finiti per caso al fondo dell’umanità. Ma consapevoli che si possono ancora fare in un paese come il nostro film, di nuovo, necessari. Non solo per ciò che dicono. Ma soprattutto per come lo dicono.
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