Il miglio verde

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Un film di Frank Darabont. Con Tom Hanks, David Morse, Michael Clarke Duncan, Michael Jeter, James Cromwell.
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Titolo originale The Green Mile. Fantastico, durata 188 min. - USA 1999. MYMONETRO Il miglio verde * * * - - valutazione media: 3,47 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

King adattato stupendamente da Darabont, con un Hanks al meglio della sua forma.

di GreatSteven


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sabato 24 febbraio 2018

IL MIGLIO VERDE (USA, 1999) di FRANK DARABONT. Con TOM HANKS, DAVID MORSE, MICHAEL CLARKE DUNCAN, BONNIE HUNT, JAMES CROMWELL, MICHAEL JETER, GRAHAM GREENE, SAM ROCKWELL, DOUG HUTCHISON, BARRY PEPPER, JEFFREY DEMUNN, HARRY DEAN STANTON, DABBS GREER, EVE BRENT, WILLIAM SADLER, PAUL MALCOMSON, GARY SINISE
1935. Nel braccio della morte del penitenziario di Cold Mountain, lavorano quattro secondini: il capo responsabile Paul Edgecombe, Brutus "Brutal" Howell, Harry Terwilliger e Dean Stanton. Assieme a loro v’è anche l’irascibile e petulante Percy Wetmore, guardia carceraria raccomandata in quanto nipote del governatore dello Stato. Fra i detenuti vi sono il cajun francese Eduard Delacroix e un capo cherokee. Arriva un giorno il gigante di carnagione scura John Coffey, uomo apparentemente ritardato ma reo d’aver violentato e ucciso le figlie di un fattore. Poco dopo giunge nel braccio anche William "Wild Bill" Wharton, maniaco sessuale sguaiato e provocatorio. Dopo l’esecuzione del nativo americano, Percy non manca di creare problemi, rompendo tre falangi a Delacroix (che odia) e addirittura provocando un guaio irreparabile durante l’esecuzione del francese, evitando di bagnargli la testa con la spugna affinché la corrente scorri nel copro del condannato (la pena capitale viene eseguita tramite la sedia elettrica). Ma anche Wild Bill, che Wetmore teme per via di un’inattesa aggressione, non è da meno: sputa saliva in faccia a Paul e un tortino nel viso di Brutal, urina sui piedi di Harry e per poco non strangola Dean con le manette, appena incarcerato. L’unico a rimanersene tranquillo è Coffey, uomo fragile che ha paura del buio malgrado la sua stazza, insieme a Delacroix, che addestra un topo a far girare un rocchetto e che battezza Mr. Jingles. Paul arriva a comprendere, col passare del tempo, che John aspetta con pazienza e serenità il giorno della sua esecuzione perché si sa innocente e dunque, contrariamente a quanto sostengono i genitori delle bambine ammazzate e l’avvocato stesso che lo difese al processo, conquista con la sua inesauribile umanità la fiducia dei secondini compiendo vari miracoli: guarisce Paul da un’infezione alle vie urinarie che gli impedisce minzioni non dolorose e di far l’amore con la moglie Jan, fa risorgere Mr. Jingles dopo che Wetmore l’ha schiacciato con un piede e soprattutto, il più grande e complicato fra tutti, cura il tumore al cervello di Melinda, la moglie di Warden Hal Morse, il direttore del penitenziario di Cold Mountain e diretto superiore di Paul e degli altri agenti di polizia. Dopo quest’ultima impresa molto rischiosa sia per Coffey (che, a differenza degli altri due precedenti miracoli, non vomita dalla bocca nugoli di vespe) sia per i secondini che sono costretti a scortarlo fuori dalla galera per permettergli di compiere il miracolo, il gigante buono punisce Wetmore e Wharton passando il nugolo di vespe nella bocca del primo che, in un raptus, spara a morte al secondo, per poi venire ricoverato in un ospedale psichiatrico. La scena clou arriva quando John, chiedendo la mano a Paul, gli mostra come sono andate in realtà le cose: non fu lui ad assassinare le due bimbe, ma Wharton, assunto dalla famiglia contadina come aiutante, che le «uccise col loro amore», nel senso che, se una delle due avesse urlato, lui avrebbe fatto del male alla sorella. A livello legale, Paul non può far niente per salvare l’ingiustamente condannato John da quanto lo aspetta, ma vorrebbe far qualcosa prima che la sentenza venga eseguita: due giorni prima, alla presenza di Brutal, il migliore amico di Paul da sempre, John confessa d’essere stanco di percepire, grazie ai poteri magici che il Signore stesso gli ha donato, il dolore che v’è nel mondo e pertanto desidera farla finita, ma chiede di poter vedere una pellicola con Fred Astaire e Ginger Rogers. Sarà proprio quel film che a Paul, una volta invecchiato e rimasto vedovo e perduti tutti i suoi amici e colleghi, rievocherà il ricordo di quel servo di Dio che lui mandò senza nessuna giustificazione plausibile a morire nonostante la sua non colpevolezza, e racconta tutta questa storia in superficie assurda ma reale all’amica e compagna d’ospizio Ellie, a cui rivela anche d’aver compiuto 108 anni poiché Coffey, appena prima di esser giustiziato, gli aveva passato una parte di sé stringendogli nuovamente la mano, e non si trattò d’un dono: per aver mandato a morire un innocente, la sua condanna sarà quella di vivere sufficientemente a lungo per veder andarsene tutte le persone a lui care. Ma Paul Edgecombe si conforta pensando che anche per lui arriverà il momento di percorrere il miglio verde, come fanno tutti gli esseri umani, presto o tardi, accusati a torto o a ragione. Tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King (1996), la sua più eccelsa opera di quel decennio e uno dei suoi più toccanti in assoluto, ne rispetta la raffigurazione di un Gesù Cristo di pelle scura che tenta di diffondere umanità attorno a sé e di aiutare chi si trova in condizione di disperato bisogno senza pretender alcunché in cambio, e dell’uomo che lo conosce per caso e giunge a comprenderne le motivazioni fin nel profondo dell’anima, un mestierante che svolge le sue mansioni con perizia e incrollabile forza di volontà, ma evita di fermarsi di fronte alle apparenze ingannevoli per penetrare oltre i misteri che avvolgono tanto l’Umanità quanto i singoli uomini e donne stessi. È, con ogni probabilità, il miglior adattamento di un libro di King per la fedeltà con cui è stato trasposto sul grande schermo e la somiglianza veridica che ha permesso ad un F. Darabont (anche co-produttore insieme a David Lardes) in forma smagliante di creare un piccolo capolavoro che alterna toni varianti fra il grottesco, il comico e il patetico (l’ammaestramento del topo; le prove con l’inserviente Toot che scherza con maleducazione divertita sul fatto che il condannato finisca letteralmente arrosto) a tratti che raggiungono la commozione (la guarigione di Melinda Morse con tutta la sua preparazione e tutto ciò che ne consegue dentro al Miglio; la promessa fatta a Eduard di Mouseville, immaginaria città circense dei roditori; gli ultimi giorni di vita dell’omone nero, conditi con un tocco magico e delizioso di lucidità emotiva), fondendo il tutto in un’epicità che tenta di spiegare, riuscendoci appieno, il perché del Male sul nostro pianeta, come mai gli uomini diventino cattivi e lo pratichino e come mai certi altri (compresi i secondini, che hanno a che fare quotidianamente con la gestione della violenza) lo contrastino contrapponendovi l’affetto, l’eros e la carità, tanto per citare un collega non contemporaneo di King come Clive Staples Lewis. Uno straordinario T. Hanks, con la magnifica voce italiana di Roberto Chevalier, è affiancato da un cast di attori non famosissimi, ma tutti degni del personaggio che interpretano per l’immenso impegno che vi profondono, a partire dal Brutal di D. Morse per passare al Dean di B. Pepper, all’Harry di J. DeMunn, alla fedele e amata consorte di B. Hunt, al pragmatico e melanconico direttore di J. Cromwell, al giureconsulto di G. Sinise (il tenente Dan di Forrest Gump, che cinque anni dopo ricompare al cinema di fianco ad Hanks, anche se soltanto per pochi minuti di proiezione), perfino a personaggi negativi come il sadico Percy di D. Hutchison e il Wild Bill pluriomicida di S. Rockwell. Tutti eccezionali. Dimenticavo il co-protagonista, l’eccellente M. C. Duncan (1957-2012), miracolo vivente che elargisce senza riserve e con bontà (ma pure giustizia) infinita i poteri soprannaturali che gli servono per sanare i malanni che infettano il globo, purché il suo intervento sia tempestivo, giacché, nel suo primo dialogo col «capo Edgecombe», asserisce che «ho cercato di rimediare, ma era troppo tardi». Ottime musiche di Thomas Newman, che un momento sottolineano la leggerezza del momento e in un altro ne accentuano la tensione crescente fino alla sua graduale esplosione, tensione che soltanto un maestro del thriller come King è in grado di mettere nero su bianco. E Darabont se ne è dimostrato un validissimo adattatore trasformando in immagini audiovisive 376 pagine di pathos, lucentezza, candore e spiegazione del senso della violenza. Due unici appunti: un mancato accenno al perché Wild Bill e Delacroix siano stati destinati al braccio della morte (nel libro l’autore spiega che vi vengono mandati rispettivamente per lo stupro e l’omicidio di una donna adulta e per la non voluta esplosione di una residenza a causa di petrolio incendiato che ha provocato la morte di sette persone) e alla scomparsa di Jan, la moglie di Paul, che muore nel 1956 a causa di un incidente d’autobus, ma l’omissione credo sia motivata appieno dal doppio motivo di non appesantire la forza visiva e perforante della pellicola e di non togliere ad essa quel che di fantasy possiede, appunto per evitare di smarrire per strada fondamentali frammenti tipici del genere. Candidato a quattro premi Oscar.

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