chriss
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giovedì 19 agosto 2010
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un viaggio reale tra sogni e disillusioni...
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Midnight Cowboy, Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, è un capolavoro del cinema americano di fine Anni Sessanta. Il contesto storico, in cui l' opera va a collocarsi, è di vitale importanza, sia per la comprensione della stessa, sia per i movimenti culturali che si svilupparono in quegli anni. Era l' America multifacce che s' apprestava ad entrare nei celebri Anni Settanta. Era, ovvero, l' America dei presidenti Lyndon Johnson e Richard Nixon o del compianto Martin Luther King ( I have a dream). Era l' America dei Doors, del viaggio sulla luna di Neil Armstrong (e compagni) e della cultura hippie che abbracciava la rivoluzione sessuale.
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Midnight Cowboy, Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, è un capolavoro del cinema americano di fine Anni Sessanta. Il contesto storico, in cui l' opera va a collocarsi, è di vitale importanza, sia per la comprensione della stessa, sia per i movimenti culturali che si svilupparono in quegli anni. Era l' America multifacce che s' apprestava ad entrare nei celebri Anni Settanta. Era, ovvero, l' America dei presidenti Lyndon Johnson e Richard Nixon o del compianto Martin Luther King ( I have a dream). Era l' America dei Doors, del viaggio sulla luna di Neil Armstrong (e compagni) e della cultura hippie che abbracciava la rivoluzione sessuale. Era l' America dell' Lsd, della cannabis e della musica psichedelica. Ma, soprattutto, era l' America di Woodstock, vicino New York, dove si tenne uno dei più imponenti concerti nella storia della musica. E' proprio a New York che si scioglie la vicenda in esame. Un uomo da marciapiede è un viaggio reale tra sogni, disillusioni ed allucinazioni (vedi la festa in cui vanno) di Joe Buck, un bel ragazzo texano, con capelli biondi, spalle larghe ed occhi azzurri, che si reca a New York in cerca di gloria. Lascia il suo lavoro di lavapiatti per buttarsi nella difficile vita di gigolò. Non sarà facile, visto che non conosce nessuno e non è minimamente organizzato. Va all' avventura, proprio come un pirata che, con la sua nave, solca i mari affrontando mille battaglie. Avrà diverse relazioni fuggitive: due con donne più grandi di lui ed un' altra con uno studente che, però, non ha i soldi. Questo film è anche la storia di un' amicizia, inizialmente non compresa, ma che poi diventerà più profonda fino all' epilogo finale. Joe Buck, in una bella e degradata New York , avrà il piacere di conoscere uno storpio che vive di espedienti: l' italiano Enrico Salvatore Rizzo, detto Sozzo o Rico o Ratso. I due, che diventeranno amici più intimi, fino a dormire sotto lo stesso tetto, sono completamente diversi tra loro: Joe Buck è alto e bello, mentre Enrico Rizzo è basso e malandato, anche nella salute. Ambedue hanno un sogno: il texano vuole fare "lo stallone" per donne sole, Sozzo vuol andare in Florida, a Miami. Per racimolare un pò di soldi (gli servono 57 dollari), Joe cercherà di appartarsi in albergo con un uomo più grande di lui, che alla fine ci ripensa. Il texano lo uccide o almeno così sembra, in quanto non si capisce benissimo: mentre gli infila la cornetta del telefono in bocca, la scena viene tagliata. Prende i soldi e scappa in autobus con il suo amico, che però sta morendo. Sarà proprio Joe Buck a chiudergli per sempre gli occhi tra lo stupore dei passeggeri... Il film, che vinse tre Oscar ed altri premi minori, è accompagnato da una colonna sonora bellissima che si fregierà di un Grammy. Molte cose mi hanno colpito di questo bellissimo film, musica a parte. Per esempio, tra le tante, si vedono gli occhi meravigliati di Joe Buck di fronte ad una New York maledetta, tra luci, cinema e spettacoli da una parte e tra prostitute, imbroglioni e fanatici religiosi dall' altra. Il suo viaggio si conclude mestamente: non a caso, getterà via in un secchio i suoi vestiti da cow-boy. Un altro particolare interessante sono i ricorrenti sogni di Joe sulla nonna che lo accudiva da piccolo e su una presunta fidanzata del passato. Un tema onirico, felliniano, che si ripresenterà più volte durante tutto il corso del film. Anche Sozzo ne avrà qualcuno, ma in minor quantità. Insomma, è un film che a volte oscilla tra la realtà ed il sogno. Io l' ho trovato interessantissimo da un punto di vista sociale. Tocca anche i temi dell' emarginazione e della diversità sessuale. Bravo Jon Voight, ancor più bravo Dustin Hoffman in una parte più difficile. Cinque stelle quindi! Da vedere a tutti i costi. Palmieri Christian...
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fedson
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domenica 30 giugno 2013
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alla faccia del sogno americano!
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Il regista britannico Schlesinger, qui immenso, proclama "Un uomo da marciapiede" come un film che vede l'impatto emotivo e psicologico delle vite di due "fuggiaschi dalla società nel quale sono immersi" di fronte all'immensa metropoli della New York degli anni '60, smascherata completamente nel modo più crudo e diretto possibile fino al totale smantellamento di tutte le illusioni e le finte gioie che questa propone. Non ci sono sogni in America. Essa non è più strumento di pura propaganda statunitense (almeno interiormente). Non è più conservatrice di un'ideologia corretta e pulita, ma bensì squallida e contro ogni regola.
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Il regista britannico Schlesinger, qui immenso, proclama "Un uomo da marciapiede" come un film che vede l'impatto emotivo e psicologico delle vite di due "fuggiaschi dalla società nel quale sono immersi" di fronte all'immensa metropoli della New York degli anni '60, smascherata completamente nel modo più crudo e diretto possibile fino al totale smantellamento di tutte le illusioni e le finte gioie che questa propone. Non ci sono sogni in America. Essa non è più strumento di pura propaganda statunitense (almeno interiormente). Non è più conservatrice di un'ideologia corretta e pulita, ma bensì squallida e contro ogni regola. I due protagonisti, Joe (Voight), giovane texano che lascia il paese alla ricerca di fortuna, e Rico (Hoffman), un italiano storpio e malato ma abbastanza esperto da capire come funziona il sistema americano, si trovano alle strette nei confronti di un sistema avido ed ostile, dove per sopravvivere bisogna adattarsi allo stesso. I due, dopo un primo passo falso, si sosterranno a vicenda per cercare fortuna altrove. Le tematiche del film, descritte da una regia attentissima, riprendono chiaramente la mentalità "ribelle" che cominciava a farsi strada negli anni '60 in America, e tutte quante vengono rispecchiate dai volti e le psicologie dei due protagonisti. Sono personaggi soli, indifesi, abbandonati al proprio destino, ma entrambi con uno spirito positivo che gli dà speranza, gli dà sogni e forse fortuna. Gli sguardi di Joe e Rico (soprattutto quest'ultimo), sono sguardi di chi si è trovato di fronte a sogni infranti e di chi ha combattuto duramente anche solo per percepirli con altri occhi. Il punto chiave del film viene esposto dal regista senza doppi sensi o troppi giri di parole (immagini, in questo caso): non esiste il sogno americano. Proprio così. La famigerata leggenda del sogno americano (tanto amato quanto bramato dai suoi concittadini) viene completamente smontata tramite immagini, scene e situazioni che riprendono la realtà che c'è oltre la bandiera a stelle e strisce. Ed è una realtà inimmaginabile, violenta e perpetrata da un senso di giustizia che non è tale, nonché popolata da una società che si fa profitto delle debolezze del prossimo. Da evidenziare la grandissima prova degli attori sopra citati: Voight è abilissimo nel rappresentare un ragazzo sicuro di se e dei suoi sogni, ma insicuro di ciò che non conosce; e Hoffman regala una delle sue più belle performance tramite un personaggio dotato di una psicologia così "maledettamente reale" che è impossibile pensare che sia un personaggio di fantasia. Crudo, aspro, realistico e violentemente oltraggioso. Uno dei film più grandi ed importanti della New Hollywood. Ed è proprio il caso di dirlo: alla faccia del sogno americano!
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gianni lucini
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mercoledì 16 novembre 2011
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un hoffman cinico e incattivito
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Un anno dopo il grande successo de “Il laureato” Dustin Hoffman si cimenta con altrettanta efficacia e bravura professionale con un personaggio complesso e difficile come quello di Rico Rizzo detto “Sozzo”, un derelitto frustrato e peno di rancore verso una società che l’ha emarginato e lo costringe a vivere d’espedienti. Il suo è un ruolo chiave per la stessa riuscita del film perché se non viene interpretato in modo credibile rischia di vanificare la stessa efficacia della narrazione filmica che si regge proprio sul contrasto tra il disilluso e cinico abitatore dei marciapiedi e il giovanottone pieno di belle speranze costretto suo malgrado a fare i conti con la realtà.
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Un anno dopo il grande successo de “Il laureato” Dustin Hoffman si cimenta con altrettanta efficacia e bravura professionale con un personaggio complesso e difficile come quello di Rico Rizzo detto “Sozzo”, un derelitto frustrato e peno di rancore verso una società che l’ha emarginato e lo costringe a vivere d’espedienti. Il suo è un ruolo chiave per la stessa riuscita del film perché se non viene interpretato in modo credibile rischia di vanificare la stessa efficacia della narrazione filmica che si regge proprio sul contrasto tra il disilluso e cinico abitatore dei marciapiedi e il giovanottone pieno di belle speranze costretto suo malgrado a fare i conti con la realtà. Il suo personaggio deve saper incarnare tutto ciò che è estraneo alla stessa concezione del sogno ottimista americano sullo schermo. Non è anglosassone, non ha alcuna prestanza fisica anzi è zoppo e ammalato di tubercolosi, è disincantato dalla vita e non nutre alcuna ambizione oltre a quella di tirare a campare e vive da parassita ai margini della società opulenta e consumista. In più la sua condizione, unita ai malanni fisici lo rende rancoroso e violento. Incattivito da un’esistenza condotta nei bassifondi di New York utilizza tutti i mezzi possibili per sfruttare e ingannare il prossimo. Nonsotante queste caratteristiche, però, sarà proprio lui a dare l’ultima opportunità allo sprovveduto Joe. È evidente che un ruolo simile chiede un’attenta preparazione dal punto di vista recitativo, non soltanto squisitamente tecnica, per evitare di incappare nei due principali rischi che corre chi deve dare anima e corpo a questo tipo di personaggi. Il primo è quello di attingere troppo alla lezione teatrale, interiorizzando troppo il personaggio con una scarsa e a volte inefficace resa filmica. L’altro è quello di esagerare nell’espressività corporale finendo per farlo assomigliare più a una caratterizzazione che a un ruolo di protagonista. Dustin Hoffman evita tutti i rischi e dà una grande prova del suo talento inaugurando quello stile di recitazione nervosa, sorretta da una serie di tic in invasivi, che caratterizzerà in futuro molte delle sue più importanti prove d’attore.
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gianni lucini
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mercoledì 16 novembre 2011
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l'altra faccia del sogno americano
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Primo film girato negli Stati Uniti dal britannico John Schlesinger “Un uomo da marciapiede” è ispirato all’omonimo romanzo di James Leo Herlihy, pubblicato nel 1965. Il regista riesce a fondere egregiamente l’introspezione psicologica dei personaggi con una realistica quanto impietosa descrizione della vita degli emarginati che, lontanissimi dalle luminose promesse del “sogno americano” sopravvivono d’espedienti nei bassifondi della metropoli. Vista dalla prospettiva dei due protagonisti New York appare cupa e ostile e alimenta la violenza dei rapporti umani che attraversa impalpabile l’intera storia anche se per scelta registica appare più accennata che ostentata.
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Primo film girato negli Stati Uniti dal britannico John Schlesinger “Un uomo da marciapiede” è ispirato all’omonimo romanzo di James Leo Herlihy, pubblicato nel 1965. Il regista riesce a fondere egregiamente l’introspezione psicologica dei personaggi con una realistica quanto impietosa descrizione della vita degli emarginati che, lontanissimi dalle luminose promesse del “sogno americano” sopravvivono d’espedienti nei bassifondi della metropoli. Vista dalla prospettiva dei due protagonisti New York appare cupa e ostile e alimenta la violenza dei rapporti umani che attraversa impalpabile l’intera storia anche se per scelta registica appare più accennata che ostentata. Su questo scenario desolante viene messo in scena il rapporto tra due soggetti che, almeno in partenza appaiono decisamente diversi tra loro. Il texano Joe è il tipico ragazzone della provincia statunitense ingenuo ma allo stesso tempo convinto delle sue qualità e, soprattutto, delle opportunità offerte dal sistema a tutti coloro i quali hanno la voglia e la determinazione necessari ad affermarsi. A fargli da contraltare c’è Rico, storpio, ammalato di tubercolosi e disincantato abitatore delle zone buie di quello stesso sistema. La storia è una spietata denuncia della società dei consumi, capace di alimentare sogni che per molti sono ben presto destinati a diventare incubi in un mondo che brucia le illusioni illude e disillude senza pietà. È un mondo spietato quello con cui si trovano a fare i conti Joe e Rico, dove per sopravvivere bisogna arrangiarsi. Nella metropoli brulicante di gente chi non ce la fa si ritrova solo. Il meccanismo che alimentava i film hollywoodiani degli anni Cinquanta e di gran parte degli anni Sessanta viene scardinato. La famiglia protettiva, il cuore caldo della società che garantisce a La famiglia protettiva, il cuore caldo della società che garantisce a tutti la possibilità di realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni non c’è più. Anche Joe, prototipo dell’ottimismo e della sicurezza di farcela, è stato allevato da una nonna troppo intenta a badare a se stessa per aiutarlo a crescere. Per questa ragione quando si affaccia alla vita scopre di essere solo e impreparato ad affrontare il mondo dove trionfano cinismo, violenza ed emarginazione. Il film, che ottiene uno straordinario successo di pubblico in tutto il mondo, viene osannato dalla critica statunitense ma accolto con minor entusiasmo da una parte di quella europea che punta il dito contro «gli eccessivi patetismi e l’ovvietà del ricatto sentimentale imperniato sulle disgrazie dei due personaggi».
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joker 91
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venerdì 11 marzo 2011
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un grandissimo film
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un film molto crudo e reale che rappresenta che cosa riserva il sogno americano ad un ragazzo provinciale ed con grosse problematiche esistenziali alle spalle che portano un' identità ancora non ben sviluppata,il sogno per questo individuo diventa incubo eppure non si da per vinto e continua a scappare dalla sua cruda realtà rifugiandosi in un idea di bellezza vitale per lui impossibile,Voight è bravo ma ancora meglio è il mitico Dustin hoffman che regala un personaggio sognatore e distrutto nel proprio io quanto quello di voight che vuole fuggire e dare un senso alla propria esistenza da essere zoppo e fallito. un bellissimo film psicologico che fece storia,MERITA ALMENO UNA VISIONE
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shiningeyes
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mercoledì 21 agosto 2013
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manifesto della new hollywood
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Manifesto della New Hollywood, “Un uomo da marciapiede”, si prende il compito di criticare gli Usa come stato corrotto che non offre più le possibilità di realizzare i propri sogni, presentandoci una New York dal suo lato più oscuro e sporco, fatto da gente emarginata che vive di stenti e che deve rubacchiare e truffare qua e là per cercare di tirare avanti, al posto della lucentezza dei ricchi borghesi affaristi sempre pieni di soldi e di capacità di stare a galla. “Un uomo di marciapiede” è crudelmente realistico verso coloro che vogliono fare successo senza una reale abilità, come il nostro protagonista John, che vuole fare soldi facendo il gigolò, ma senza la dovuta organizzazione che serve nel sapersi vendere, finendo a breve col culo per terra.
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Manifesto della New Hollywood, “Un uomo da marciapiede”, si prende il compito di criticare gli Usa come stato corrotto che non offre più le possibilità di realizzare i propri sogni, presentandoci una New York dal suo lato più oscuro e sporco, fatto da gente emarginata che vive di stenti e che deve rubacchiare e truffare qua e là per cercare di tirare avanti, al posto della lucentezza dei ricchi borghesi affaristi sempre pieni di soldi e di capacità di stare a galla. “Un uomo di marciapiede” è crudelmente realistico verso coloro che vogliono fare successo senza una reale abilità, come il nostro protagonista John, che vuole fare soldi facendo il gigolò, ma senza la dovuta organizzazione che serve nel sapersi vendere, finendo a breve col culo per terra.
In ogni caso, John crescerà nella sua esperienza di vagabondo nella grande mela, allargando le sue strette vedute da provincialotto e facendogli anche scoprire il valore della vera amicizia, acquisita con il truffaldino Rico, storpio e tisico, ma con una furbizia degna delle sue origini italiane.
Parlando più strettamente del film, ci si rende conto di trovarci con un gioiello della storia del cinema, dotato di una potenza visiva oltre ai limiti, piena di scene da incorniciare, dalle scene della topaia che condividono John e Rico a quelle della scena dei festaioli strafatti e di quella del commovente viaggio verso la Florida dei due amici protagonisti.
C'è da dire anche che, con due interpreti eccezionali come Jon Voight e Dustin Hoffman (il primo sconosciuto e il secondi in fase ascendente), che ci offrono una prova intensissima e memorabile, è opportuno aspettarsi un gran bel film; meno opportuno non dargli l'Oscar ex aequo, meritatamente preso da John Schlensiger per la regia.
“Un uomo da marciapiede” è da vedere sia per la sua importanza storica, dove vengono pure abbattuti muri censori sulla questione dell'omosessualità e della prostituzione maschile, e soprattutto per capire al meglio questa scuola cinematografica, dedita allo sperimentalismo e all'abbattimento del cinema inteso come industria, mettendoci in mostra una storia vissuta da tutti coloro che hanno provato sulla loro pelle la falsità del sogno americano.
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great steven
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lunedì 25 novembre 2013
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voight e hoffman amici nelle avversità della vita.
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UN UOMO DA MARCIAPIEDE (USA, 1969) di JOHN SCHLESINGER con JON VOIGHT – DUSTIN HOFFMAN – BRENDA VACCARO – SYLVIA MILES – BOB BALABAN § Dal romanzo (1965) di James Leo Herlihy, adattato da Waldo Salt. Joe Buck decide di farla finita con un insoddisfacente lavoro da lavapiatti, si veste da perfetto cowboy e raggiunge New York, armato solo di fastidiosa spavalderia e un fascino più debole di quello che vorrebbe. Prostituendosi, crede di incassare facilmente e in breve tempo numerosi quattrini, e invece la sua clientela non si materializza, e lui si ritrova costretto ad unirsi all'italoamericano Enrico Salvatore Rizzo, zoppo e malato di tubercolosi, col quale sopravvive a forza di stenti.
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UN UOMO DA MARCIAPIEDE (USA, 1969) di JOHN SCHLESINGER con JON VOIGHT – DUSTIN HOFFMAN – BRENDA VACCARO – SYLVIA MILES – BOB BALABAN § Dal romanzo (1965) di James Leo Herlihy, adattato da Waldo Salt. Joe Buck decide di farla finita con un insoddisfacente lavoro da lavapiatti, si veste da perfetto cowboy e raggiunge New York, armato solo di fastidiosa spavalderia e un fascino più debole di quello che vorrebbe. Prostituendosi, crede di incassare facilmente e in breve tempo numerosi quattrini, e invece la sua clientela non si materializza, e lui si ritrova costretto ad unirsi all'italoamericano Enrico Salvatore Rizzo, zoppo e malato di tubercolosi, col quale sopravvive a forza di stenti. Quando finalmente le cose si mettono meglio per Joe, la salute di Rizzo peggiora e l'amico, assecondando il suo desiderio, prepara un viaggio in Florida. Ma non riuscirà a salvarlo. Vietato ai minori di 18 per l'abbondanza di nudi e sequenze oscene, fu l’unica pellicola con questo divieto ad aggiudicarsi l'Oscar al miglior film, insieme alle statuette per la regia e la sceneggiatura non originale. Ma vale tantissimo specialmente per l'eccellente recitazione dei due trentenni protagonisti, uno prestante e bifolco e l'altro sciancato e furbo, ma complementari malgrado le forzature perché i difetti e i pregi assenti nel primo si riscontrano nel secondo e viceversa: un rapporto di coppia costruito a regola d'arte come pochi altri. Il confronto ideologico e le aspirazioni esistenziali superano in importanza e intensità la differenza fisica. Meno riusciti i caratteri secondari, anche se la Shirley di B. Vaccaro sorprende per malizia e la Cass di S. Miles è bravissima nella sua poderosa nevrosi, nonostante l'esiguità della loro presenza scenica. Valido anche il maniaco religioso consigliato da Rizzo a Buck, per la dinamica energia dialettica. Non inferiori sono la fotografia, con belle riprese della New York sul finire degli anni '60 (con una stupenda contrapposizione tra il fango dei quartieri degradati e lo sfarzo delle case altolocate), e il montaggio, che nel montaggio alla Andy Warhol nella scena del party si esibisce in un particolare esercizio di virtuosismo. Caso raro ormai (parlando del maleducatissimo Nuovo Millennio) di turpiloquio che si fa portabandiera del decadimento morale e sociologico che affligge i personaggi, ma anche della rabbia che spinge alle più disperate rivincite. Doppiaggio italiano: Ferruccio Amendola prestò la voce a Hoffman e Massimo Turci a Voight. Stranamente, ha un patetismo appassionato nei personaggi che rimanda a Molnàr e riprende in una certa maniera il microcosmo della metropoli "sporca" dickensiano.
Drammatico; giudizio personale: 8 (buono)
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eugenio
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sabato 6 luglio 2013
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lungo le strade della grande mela
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Una storia, a suo dire, circolare. Inizia con un viaggio in corriera, evolve in maniera lineare e termina in modo altrettanto semplice e “incompiuto”. Un uomo da marciapiede, film del 1969 di John Schlesinger, trasferito in quest’occasione dall’Inghilterra in America, descrive l’amara odissea di un ingenuo ragazzotto texano, Joe Buck (J. Voight) egotico e vanesio “pseudo-ranchero” convinto di possedere un fascino ammaliatore verso donne più o meno mature (meglio se ricche). A discapito del cognome, il giovane ranchero è privo di pecunia, pertanto, abbagliato dal fascino di una New York industrializzata e dalle molteplici possibilità lavorative, parte alla ricerca di fortuna con l’obiettivo di far carriera come gigolò professionista.
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Una storia, a suo dire, circolare. Inizia con un viaggio in corriera, evolve in maniera lineare e termina in modo altrettanto semplice e “incompiuto”. Un uomo da marciapiede, film del 1969 di John Schlesinger, trasferito in quest’occasione dall’Inghilterra in America, descrive l’amara odissea di un ingenuo ragazzotto texano, Joe Buck (J. Voight) egotico e vanesio “pseudo-ranchero” convinto di possedere un fascino ammaliatore verso donne più o meno mature (meglio se ricche). A discapito del cognome, il giovane ranchero è privo di pecunia, pertanto, abbagliato dal fascino di una New York industrializzata e dalle molteplici possibilità lavorative, parte alla ricerca di fortuna con l’obiettivo di far carriera come gigolò professionista. Dopo le prime iniziali sconfitte, la conoscenza di Rico (interpretato magistralmente da Hoffman), emarginato claudicante tubercolotico che campa con piccoli inganni e truffe, cambierà la sua vita. Ma non positivamente come lo stallone aveva sperato…
Parabola patetica sugli sconfitti dalla società, Un uomo da marciapiede mostra luoghi, gesti di un’America temporalmente lontana ma socialmente simile al contesto odierno dove le pieghe più profonde e tenebrose sono intimamente ricoperte da un’abbondante dose di conformismo e apparenza. Schlesinger sembra quasi evocare le pellicole grottesco/simboliche di Herzog (come il celebre La ballata di Strotzsek con protagonisti emarginati in cerca di successo distrutti dall’esistenza stessa che avevano tentato vanamente di costruirsi) ma ciò che nel cineasta tedesco è riflessione qui è trasformato in dramma soggettivo della realtà umana. La società de Un uomo da marciapiede sembra essere inevitabilmente suddivisa in due categorie: i vinti tira a campare malati e sofferenti (Rico/Hoffman ha giustamente meritato un Oscar) e i borghesi (donne in primis) imbellettati e profumati che necessitano dei primi per sfogare le loro frustrazioni quotidiane. Non esiste una zona grigia: essa è annientata dalle luci psichedeliche di ambienti omosessuali o da allucinazioni psicotiche di droghe “hippie”.
Il divario netto tra bene e male non convince fino in fondo: il cowboy texano Voight è passiva spalla di Hoffman che gli ruba spesso la scena, lasciando trasparire una dabbenaggine più fittizia che naturale evidenziata dallo sguardo stralunato da ragazzo di campagna stordito dai frastuoni di una grande città che tutto inghiotte.
La sofferta enfasi nelle movenze dei due attori, emblema della moderna ambiguità post-sessantottina, è permessa soprattutto dalla colonna sonora di Eveybody talkin, sempre-eterno leit-motiv di una nazione appunto che ha fatto della parola una virtù. E poco male che a rimetterci ci siano coloro che soffrano. Show must go on.
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dandy
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venerdì 4 gennaio 2019
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il cowboy di mezzanotte...
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Uno dei film-manifesto del '69,assieme a "Easy Rider".Basato sull'omonimo romanzo di James Leo Herlihy,un film per l'epoca forte e innovativo nel mettere in scena la freddezza delle grandi metropoli e l'impossibilità di certi reietti di emergervi,o sopravviverci...Il regista,al suo debutto in America dopo i successi ottenuti in Inghilterra,stempera il pietismo nelle peripezie dei due protagonisti grazie all'ottime interpretazioni:Hoffman spavaldo ma mortificato dalla propria condizione,più tormentato Voight(semiesordiente e qui al suo trampolino di lancio),fisico massiccio e viso fanciullesco,vulnerabile.In linea col periodo non mancano godibili guizzi lisergico-surreal-sperimentali(i flashback e le visioni di Joe,la scena di sesso con i canali che cambiano,il party alla andy Wahrol,dove appaiono diverse star della Factory[Viva,Ultra Violet,Taylor Mead,Paul Morrissey]),e cose come prostituzione,degrado e omosessualità vengono affrontate in modo schietto,ma mai eccessivo o gratuito.
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Uno dei film-manifesto del '69,assieme a "Easy Rider".Basato sull'omonimo romanzo di James Leo Herlihy,un film per l'epoca forte e innovativo nel mettere in scena la freddezza delle grandi metropoli e l'impossibilità di certi reietti di emergervi,o sopravviverci...Il regista,al suo debutto in America dopo i successi ottenuti in Inghilterra,stempera il pietismo nelle peripezie dei due protagonisti grazie all'ottime interpretazioni:Hoffman spavaldo ma mortificato dalla propria condizione,più tormentato Voight(semiesordiente e qui al suo trampolino di lancio),fisico massiccio e viso fanciullesco,vulnerabile.In linea col periodo non mancano godibili guizzi lisergico-surreal-sperimentali(i flashback e le visioni di Joe,la scena di sesso con i canali che cambiano,il party alla andy Wahrol,dove appaiono diverse star della Factory[Viva,Ultra Violet,Taylor Mead,Paul Morrissey]),e cose come prostituzione,degrado e omosessualità vengono affrontate in modo schietto,ma mai eccessivo o gratuito.Il film ricevette comunque un X-rating,diventando il primo film vietato ai minori a venire premiato con l'Oscar( per il miglior film,miglior regista e migliore sceneggiatura).Indimenticabile il finale.Nella colonna sonora di John Barry spicca la canzone "Everybody's Talking" di Fred Neil cantata da Nilsson,diventata un'hit.Oggi, 50 anni di distanza,ha ancora un'indubbia efficacia nel mostrare i bassifondi squilibrati di una New York squilibrata e al tempo stesso incredibile.Un posto che sarebbe valsa la pena visitare...
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