
Un cineasta che riflette su uno dei nervi scoperti della contemporaneità.
di Mauro Gervasini
Dei cineasti (ma vale anche per gli scrittori) che scelgono di girare sempre intorno al medesimo argomento è bene diffidare. Il rischio è che antepongano il "contenuto" al resto, senza un'idea di estetica. Quando però si incontrano autori capaci di riflettere con tenacia creativa su uno dei nervi scoperti della contemporaneità, trasformando il tema con la T maiuscola anche in occasione di sperimentazione del linguaggio, non si può non restare fermi in ascolto. È il caso di Andrea Segre, classe 1976, e del suo cinema irrequieto, in bilico tra tensione documentaristica e narrazione della realtà attraverso la finzione, con la costante appunto del nucleo tematico. Etnie e migrazioni: ma forse il vero centro di gravità dei suoi racconti è il confronto tra un apparente noi e un inesistente loro. Siamo fan dell'ultimo film di Andrea Segre La prima neve, presentato in Orizzonti alla Mostra di Venezia e da questa settimana nelle sale. È imperfetto, ha un finale discutibile (a partire da quel ragazzino che sembra volersi far accompagnare dall'amico africano dietro l'angolo, in cinque minuti, e invece si finisce in alta montagna con una ellisse improbabile) ma ha una densità di caratteri e situazione che francamente opere italiane ben più blasonate si sognano.
Partiamo da qui allora, dall'ultimo film. La prima neve racconta il legame tra un uomo del Togo sbarcato a Lampedusa dalla Libia e finito chissà come nella Valle dei Mocheni in Trentino, dove ancora si parla un dialetto di marca tedesca. Qui diventa amico di un ragazzino che ha perso il padre in vetta e ha un rapporto complicato con la madre (ma bellissimo col nonno). Il resto è montagna, vita, aspra e difficile per tutti ma soprattutto per loro due, il più grande "straniero" con il desiderio irrefrenabile di andarsene, il secondo ancora bambino con la ribellione "dentro", conseguenza di una perdita che non capisce e non accetta. Il tema non viene didascalicamente sviluppato (sì, si parla di documenti di soggiorno ma in maniera quasi incidentale) perché sciolto nel confronto e nella ricerca di una felicità che ci vede tutti uguali. Lo stesso confronto che lega due "anime nella nebbia" come Shuan Li, oste cinese, e il Poeta, pescatore serbo, la cui storia comune è avversata in quel di Chioggia, "piccola patria" veneta (il regista è di quelle parti) dove le chiusure intransigenti appartengono a ogni singola comunità (sono per primi i cinesi a stigmatizzare la relazione della ragazza). Accade in Io sono Li (2011) il film che anche a livello internazionale ha rivelato il talento di Andrea Segre.
Con la finzione finiamo qui. Perché il cineasta nasce come documentarista. L'esordio nel 1998 con Lo sterminio dei popoli zingari sull'odissea tragica dei Rom in Europa nel secolo breve, con echi chiari della situazione dei nostri giorni. Nel 2008 Segre si concentra invece su un altro dramma contemporaneo, la cui urgenza è purtroppo pure oggi sotto gli occhi di tutti: l'esodo dei migranti dall'Africa all'Europa. Accade in Come un uomo sulla terra, in fondo l'inizio del viaggio ideale di ricerca che ha portato a La prima neve. Un argomento sviluppato ancora meglio nel più recente e più acclamato dei suoi documentari, Mare chiuso (realizzato insieme a Stefano Liberti nel 2012), che parte dai "respingimenti" dei migranti in Libia da parte della Marina italiana in seguito agli accordi tra Berlusconi e Gheddafi. Dopo la guerra civile migliaia di uomini e donne (soprattutto somali e eritrei) si ritrovano nei campi profughi allestiti in Tunisia, dove vengono intervistati da Segre e Liberti. La loro storia è simile a quella dei naufraghi di Lampedusa, così come è identico il mare. Un tempo detto "nostrum".