thomas
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lunedì 21 febbraio 2022
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intimo
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Il tempo trascorre inesorabile, le vite si spengono com’è naturale e, nell’approssimarsi della fine, sgorgano riflessioni come quelle che arricchiscono “Leonora addio”. Un film strano, diseguale, composto da due parti legate tra loro da un filo esilissimo: la prima, ben più estesa, relativa al peregrinare delle ceneri di Luigi Pirandello, struggente nel bianco e nero splendidamente fotografato, la seconda, ispirata al suo racconto “Il chiodo”, ben più breve e tutt’altro che convincente nella struttura narrativa e negli accesi colori. Entrambe però hanno la funzione di sollecitare una meditazione sul grande mistero della morte, non già nella prospettiva dell’aldilà, bensì “dell’aldiqua”, del rapporto tra i vivi e gli invisibili, tra coloro che rimangono e quelli che sono andati via.
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Il tempo trascorre inesorabile, le vite si spengono com’è naturale e, nell’approssimarsi della fine, sgorgano riflessioni come quelle che arricchiscono “Leonora addio”. Un film strano, diseguale, composto da due parti legate tra loro da un filo esilissimo: la prima, ben più estesa, relativa al peregrinare delle ceneri di Luigi Pirandello, struggente nel bianco e nero splendidamente fotografato, la seconda, ispirata al suo racconto “Il chiodo”, ben più breve e tutt’altro che convincente nella struttura narrativa e negli accesi colori. Entrambe però hanno la funzione di sollecitare una meditazione sul grande mistero della morte, non già nella prospettiva dell’aldilà, bensì “dell’aldiqua”, del rapporto tra i vivi e gli invisibili, tra coloro che rimangono e quelli che sono andati via. Paolo Taviani infatti dedica il film allo scomparso fratello Vittorio, compagno di tante belle storie cinematografiche, dallo stupendo “La notte di San Lorenzo” (il loro più grande capolavoro) fino all’ultimo bellissimo ma sottovalutato “Una questione privata” (in cui vi è una delle più folgoranti dichiarazioni d’amore del Cinema: “Fulvia, splendore”). E la dedica, all’inizio del film, è proprio personale, non a caratteri di stampa, ma scritta a mano, proprio per essere ancora più intima e vera. E così il peregrinare delle ceneri di Pirandello (fatto realmente accaduto, il Maestro della letteratura ebbe definitiva sepoltura parecchi anni dopo la sua morte) diventa il pretesto per una sentita carrellata sulla nostra Storia e su ciò che eravamo: il fascismo, le fosse Ardeatine, la Resistenza, la condanna a morte del Prefetto Caruso, la terza classe, i treni a vapore, il tressette col morto, le superstizioni medievali e gli scongiuri, i balli da oltreoceano, le assolate campagne disseminate di paesini, i funerali visti dal balcone, gli universitari con i cappelli a punta e i preti che hanno l’ultima parola, i contadini con le facce cotte dal sole, il tutto arricchito da citazioni e rimandi a “Stromboli – Terra di Dio” di Rossellini (il reduce che sposa la tedesca e la porta nella propria isola) fino a “Baaria” di Tornatore (la roccia a tre punte). Paolo Taviani racconta l’Italia di ieri e lo fa con leggerezza, mescolando pochi dialoghi e tanta intimità, lasciando parlare le immagini in bianco e nero e accompagnando il tutto con un sorriso leggero, come di chi, acquisita col tanto tempo trascorso la saggezza, riesce a scorgere il lato più vero e profondo delle cose che ne hanno riguardato la vita. La seconda parte, “Il Chiodo”, ben più breve, non vale affatto la prima, ma ci restituisce un’immagine comunque bella, quella del giovane che, fino alla vecchiaia torna a far visita alla tomba della ragazzina dai capelli rossi che aveva ucciso quando era ragazzo “perché il chiodo era caduto apposta”. Quel giovane/anziano forse è Paolo, che dopo una lunghissima vita artistica con il fratello Vittorio, continuerà a vivere nel ricordo e non mancherà di fargli visita sempre, fino alla fine.
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[+] la mancanza di vittorio
(di roberto_rondini)
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antonio miredi
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venerdì 25 febbraio 2022
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pirandellianamente taviani
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Come raccontare un film non “raccontabile”? Partendo da Pirandello, e da un suo aforisma: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive. Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la sta vivendo più: la subisce, la trascina.” Pirandello non potendola “vivere” immagina la sua morte scrivendone le ultime disposizioni testamentarie. Un funerale senza solennità, nella nudità di una cassa di legno per poi incenerire il corpo e poter infine depositare le ceneri nella pietra viva della campagna della nativa Agrigento. Disposizioni spiazzanti per un film spiazzante che parte propria da questo funerale non funerale, al suo tormentato viaggio nel tempo, con tutto il fastidio e la cura verso la morte di un corpo e un autore disturbante per l'Italia fascista e posfascista.
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Come raccontare un film non “raccontabile”? Partendo da Pirandello, e da un suo aforisma: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive. Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la sta vivendo più: la subisce, la trascina.” Pirandello non potendola “vivere” immagina la sua morte scrivendone le ultime disposizioni testamentarie. Un funerale senza solennità, nella nudità di una cassa di legno per poi incenerire il corpo e poter infine depositare le ceneri nella pietra viva della campagna della nativa Agrigento. Disposizioni spiazzanti per un film spiazzante che parte propria da questo funerale non funerale, al suo tormentato viaggio nel tempo, con tutto il fastidio e la cura verso la morte di un corpo e un autore disturbante per l'Italia fascista e posfascista. Taviani torna a Pirandello ma senza questa volta il fratello Vittorio, scomparso da poco. Un film omaggio a questo fratello con cui il film era maturato già subito dopo Kaos, un fratello la cui assenza è presente nel senso della morte e di un lutto da elaborare, e un omaggio allo stesso Pirandello la cui vita è stata solo e sempre Teatro, al punto da sentirsi persino al momento della premiazione del Nobel a Stoccolma come uomo profondamente solo e triste. Un film in due parti non unitario ma non separabile, in un bianco e nero, con spezzoni di cinema del neorealismo, e l'altra di un colore trafiggente come un chiodo. E “Il chiodo” è proprio il titolo dell'ultima novella scritta da Pirandello, pochi mesi prima di morire. Un funerale grottesco e la storia di un bambino costretto a lasciare la sua terra per l'America, sradicato e senza la capacità di un recupero di memoria di senso sacrale della vita che ha bisogno sempre di continuità, se non solo attraverso la morte del suo stesso futuro, affidato solo al gesto pietoso di una fedeltà vissuta come espiazione davanti a un cippo funerario. Tutto nella circolarità pirandelliana di verità e finzione, assurdità e mistero. Inutile pirandellianamente cercare un senso attraverso la novella che dà il titolo al film, Eleonora addio, del tutto assente come storia. Una grande prova registica per Paolo Taviani, quasi un personale testamento, e nella parte con protagonisti i bambini, forse un apologo per il nostro tempo, orfano di un futuro incapace di essere pensato se non attraverso il senso di una morte sempre presente. Antonio Miredi
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antonio miredi
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venerdì 25 febbraio 2022
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pirandellianamente taviani
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Come raccontare un film non “raccontabile”? Partendo da Pirandello, e da un suo aforisma: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive. Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la sta vivendo più: la subisce, la trascina.” Pirandello non potendola “vivere” immagina la sua morte scrivendone le ultime disposizioni testamentarie. Un funerale senza solennità, nella nudità di una cassa di legno per poi incenerire il corpo e poter infine depositare le ceneri nella pietra viva della campagna della nativa Agrigento. Disposizioni spiazzanti per un film spiazzante che parte propria da questo funerale non funerale, al suo tormentato viaggio nel tempo, con tutto il fastidio e la cura verso la morte di un corpo e un autore disturbante per l'Italia fascista e posfascista.
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Come raccontare un film non “raccontabile”? Partendo da Pirandello, e da un suo aforisma: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive. Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la sta vivendo più: la subisce, la trascina.” Pirandello non potendola “vivere” immagina la sua morte scrivendone le ultime disposizioni testamentarie. Un funerale senza solennità, nella nudità di una cassa di legno per poi incenerire il corpo e poter infine depositare le ceneri nella pietra viva della campagna della nativa Agrigento. Disposizioni spiazzanti per un film spiazzante che parte propria da questo funerale non funerale, al suo tormentato viaggio nel tempo, con tutto il fastidio e la cura verso la morte di un corpo e un autore disturbante per l'Italia fascista e posfascista. Taviani torna a Pirandello ma senza questa volta il fratello Vittorio, scomparso da poco. Un film omaggio a questo fratello con cui il film era maturato già subito dopo Kaos, un fratello la cui assenza è presente nel senso della morte e di un lutto da elaborare, e un omaggio allo stesso Pirandello la cui vita è stata solo e sempre Teatro, al punto da sentirsi persino al momento della premiazione del Nobel a Stoccolma come uomo profondamente solo e triste. Un film in due parti non unitario ma non separabile, in un bianco e nero, con spezzoni di cinema del neorealismo, e l'altra di un colore trafiggente come un chiodo. E “Il chiodo” è proprio il titolo dell'ultima novella scritta da Pirandello, pochi mesi prima di morire. Un funerale grottesco e la storia di un bambino costretto a lasciare la sua terra per l'America, sradicato e senza la capacità di un recupero di memoria di senso sacrale della vita che ha bisogno sempre di continuità, se non solo attraverso la morte del suo stesso futuro, affidato solo al gesto pietoso di una fedeltà vissuta come espiazione davanti a un cippo funerario. Tutto nella circolarità pirandelliana di verità e finzione, assurdità e mistero. Inutile pirandellianamente cercare un senso attraverso la novella che dà il titolo al film, Eleonora addio, del tutto assente come storia. Una grande prova registica per Paolo Taviani, quasi un personale testamento, e nella parte con protagonisti i bambini, forse un apologo per il nostro tempo, orfano di un futuro incapace di essere pensato se non attraverso il senso di una morte sempre presente. Antonio Miredi
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