Lazzaro Felice

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Lazzaro e il Lupo

di Caregnato Sergio


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lunedì 4 febbraio 2019

Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.

Nelle loro dimore un centinaio di mezzadri e le loro famiglie vivono 'ammucchiati', regolati da ruoli di inclusione ed esclusione tipici del branco: “bestie” li definisce infatti la 'marchesa', padrona delle loro vite e non solo della terra che coltivano. E tuttavia, nonostante essi presentino ora tratti deformi ora impulsi sadici, il gruppo resta una comunità coesa coinvolta com'è nei riti tradizionali del mondo contadino.

Lazzaro è l'unico membro della comunità le cui origini rimangono incerte. Per la sua condizione di orfano egli è costretto a subire, senza ribellarsi, una doppia discriminazione – da un lato la discriminazione esercitata sui mezzadri dall'aristocratica famiglia che possiede le terre, dall'altro anche quella dei mezzadri. Significativa, a questo proposito, è la conversazione tra la Marchesa e il figlio, Tancredi. Qando il giovane obietta alla madre che la relazione della famiglia con in contadini è 'tutto un inganno', la marchesa respinge l'accusa: secondo lei, tutta la vita sarebbe regolata da un rapporto di sopraffazione tra forte e debole. Allora, ribadisce Tancredi, quale sarebbe lo statuto di chi nella vita, come Lazzaro, si trova nello scalino più basso e non ha nessuno su cui esercitare una qualche 'forza'?

Sfruttato da sfruttatori e da sfruttati, Lazzaro è degradato allo statuto di 'sub-schiavo'. Una delle scene iniziali in cui gli viene riservato il ruolo di 'cane da guardia' contro i possibili attacchi dei lupi, testimonia di una condizione di inferiorità che egli accetta come 'naturale'. La scena è la prima di una serie che infittisce le allusioni ad una relazione con gli uomini mediata da un rapporto privilegiato con il mondo dei cani e dei lupi. I riferimenti al mondo dei lupi consente a Lazzaro di articolare due opposti livelli simbolici – quello 'basso' (o quasi-umano) e, d' altro canto, quello di una spiritualità 'alta' attraverso l'allusione alla riconciliazione tra lupo e uomo associata all'agiografia francescana. Il cane da salotto di Tancredi, vero e proprio 'lap-dog', costituisce un filo che consentirà il finale ritrovamento dei due. Lazzaro, cane egli stesso e in simbiotica relazione coi lupi, reincontra Tancredi grazie al 'lap-dog', simbolo innocente di una diminuzione urbana e borghese del cane/lupo.

La sua seconda vita , a partire dalla morte e resurrezione, è sotto la tutela dello spirito della selva e del selvatico, delle piante, delle erbe, delle cose e della parola degli uomini, entità mescolate ma sempre, per Lazzaro, portatrici di un segno unico di verità. Le cose, coinvolte tra loro, non hanno mai l'aspetto 'altro': sono come appaiono o come sono dette – questo è l'aspetto sacrale di Lazzaro. Nessuna duplicità o molteciplità semantica è ammessa – l'assenza di sotterfugio, di qualsiasi lasco tra parola e cosa, indicano lo spazio di una sacralità primitiva. Essa è intangibile e incomprensibile al mondo dei 'normali', siano essi dandy urbani (Tancredi), oppure appartenenti al micro cosmo della società rurale.


Quando il gruppo viene integrato nella società moderna, si sperde in mille rivoli. Ognuno si potrà difendere, forse, individualmente, o per piccole bande, disperse, che vivono di espedienti. Il degrado e l'emarginazione sono il 'campo' degli ex-lavoratori schiavi, persino peggiore di quel recinto concluso organizzato dalla signora marchesa. In quel mondo nuovo, luogo di salvazione secondo l'ipocrisia mediatica, gli emarginati si degradano ulteriormente, e il sub-umano Lazzaro, ultimo tra gli ultimi, scende l'ultimo gradino e affronta, inconsapevole, la condanna e la morte.

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