NOAH (USA, 2014) di DARREN ARONOFKSY. Interpretato da RUSSELL CROWE, JENNIFER CONNELLY, EMMA WATSON, ANTHONY HOPKINS, RAY WINSTONE, LOGAN LERMAN
La macchina da presa percorre il Creato, lanciata in carrellate su lirismo ad archi. Il punto di vista non è quello dei serpenti o degli uccelli, bensì di voce che li richiama all’Arca, alla salvezza, alla vita. Aronofsky è il creatore, e come Creatore non può rispettare il senso della misura, il limite umano, la rinuncia alla sovrabbondanza nella sua messa in scena d’una parte della Genesi. Delirio di onnipotenza? A tratti potrebbe sembrare di sì, ma i punti in comune col cinema di Mel Gibson, che molti critici hanno notato, si riducono perlopiù all’assunzione di quel già citato punto di vista che vorrebbe dedurre codici, postulati, forme, sottotesti e grammatiche per reinventarsi il linguaggio cinematografico o addirittura comporlo secondo una vera e propria Genesi. Il regista dimostra prolissità e autocompiacimento nell’elaborazione di un contesto che pecca per pacchianeria ed effetti speciali fuori luogo per la loro debordante insistenza, ma non lo si può calunniare per la scelta di un cast in cui brillano ottimi attori, che regalano ciascuno una performance di incredibile pregio. Quanto all’atmosfera da rilevare loro attorno, vi sono più rimandi alla cosmologia contemplativa di Terrence Malick (osservata in The Tree of Life) o agli universi naturalistici tolkieniani che non a riferimenti biblici di tipo schietto: è un peccato, infatti, che Hollywood debba sempre soggiacere alle sue personali interpretazioni dei testi sacri e di quelli mitologici quando intende mirare alto con un’opera colossale, e problemi di questo genere s’erano già verificati negli anni addietro a causa di Troy e Alexander, e con risultati alquanto imbarazzanti per la fedeltà all’originale. Ma Noah punta sulla recitazione di base, che parte senz’altro col piede giusto, per raccontare il Diluvio Universale: l’assassinio di Abele; la nascita dei tre figli maschi di Noè; l’arrivo sull’Arca di mammiferi, uccelli e rettili; l’incantesimo compiuto da Matusalemme per rendere fertile la figlia adottiva di Noè e sua moglie; la nascita delle due gemelle; gli episodi che ebbero luogo quando le immani piogge cessarono. Crowe potente e convincente, Connelly intensa, Winstone perfetto nei panni del mefistofelico capo-bracconiere Tubal-cain, Watson e Lerman adattissimi ad incarnare i giovani Ila e Cam. E poi c’è il Matusalemme di A. Hopkins: un omaggio che l’attore ha fatto alla sua maturità di interprete navigato. Le immancabili differenze dall’originale ecclesiastico sono arrivate come ci si aspettava e purtroppo la colonna sonora riesce affastellata e sgargiante, ma in compenso la tensione narrativa che si accumula sequenza dopo sequenza è degna dei miglior thriller degli ultimi tempi, e non solo. Non funziona a dovere, tuttavia, la dialettica del discorso sull’uomo: già dopo la prima metà si intravedono e percepiscono drastiche morali ecologistiche e politiche, che favoriscono la Natura e guardano con occhio cattivo e ottuso all’uomo (Noè salva i fiorellini e preserva gli animaletti, mentre i suoi simili è disposto a ucciderli a sangue freddo). Questa interpretazione, che privilegia il Dio punitivo del Vecchio Testamento, è il motivo principale di una sceneggiatura che sviluppa una storia a tratti logorroica e monumentale. Come ribadito, si salvano gli attori, e insieme a loro parte dei contributi tecnici (montaggio e fotografia soprattutto).
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