vincenzo ambriola
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sabato 20 settembre 2014
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le ferite riaperte
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La morte del padre riapre ferite temporaneamente chiuse dagli psicofarmaci. La scoperta che si è trattato di un suicidio attiva nel figlio il desiderio di conoscerlo meglio, rivivendo letteralmente i suoi spazi, le sue manie, il suo lavoro, anche i suoi amori. Ma se le ferite si riaprono e i sentimenti sgorgano insieme alla vena creativa, il mal sottile si riafferma e si riprende tutto ciò che gli appartiene. Insieme ai matti il figlio ritrova il suo equilibrio, senza competizione, in una routine piatta ma rassicurante. Film interessante per il tema del rapporto filiale e dello squilibrio mentale, purtroppo carente nella sceneggiatura e nella recitazione, a volte piatta e scialba. Una volta tanto perdoniamo Avati per i suoi errori e promuoviamone l'idea e lo spunto che ci ha proposto per riflettere su un tema così delicato.
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alexia62
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sabato 20 settembre 2014
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film profondo
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Bellissimo film di Pupi Avati, lento e riflessivo,non certo il migliore ma comunque da apprezzare e da vedere.
Tema profondo, che analizza il rapporto postumo tra un figlio e un padre, quasi inesistente in vita ma che riemerge dopo la morte di quest',ultimo e si rafforza fino all'annullamento del figlio che arriva alla pazzia pur di rivalutare la figura del padre.
Bravo Scamarcio nella parte del figlio psicopatico, e ho apprezzato anche una Giovanna Ralli nella parte dell'anziana madre.
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iuras
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lunedì 22 settembre 2014
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occasione perduta
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Insieme "siamo invincibili",.."possiamo farcela",tale convincimento e il primo amore adolescenziale di Davide verso il padre nascono quando quest'ultimo gli fa saltare un ostacolo ritenuto insormontabile ma muoiono però quando lo stesso tradisce la famiglia e lui, rifugiandosi in un isolamento totale impegnato a cercare di creare un opera d'arte che lo realizzasse e gli procurasse riconoscimento e notorietà.Quando il padre improvvisamente muore ,Davide viene colto da un acuto rimorso e senso di colpa che lo inducono a cercare di conoscere chi fosse stato suo padre e quale la sua vita, sollecitato indirettamente da una rappresentante di una casa editrice che gli rivela come il padre fosse impegnato nella scrittura di un libro che realizzasse appuntoil suo sogno.
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Insieme "siamo invincibili",.."possiamo farcela",tale convincimento e il primo amore adolescenziale di Davide verso il padre nascono quando quest'ultimo gli fa saltare un ostacolo ritenuto insormontabile ma muoiono però quando lo stesso tradisce la famiglia e lui, rifugiandosi in un isolamento totale impegnato a cercare di creare un opera d'arte che lo realizzasse e gli procurasse riconoscimento e notorietà.Quando il padre improvvisamente muore ,Davide viene colto da un acuto rimorso e senso di colpa che lo inducono a cercare di conoscere chi fosse stato suo padre e quale la sua vita, sollecitato indirettamente da una rappresentante di una casa editrice che gli rivela come il padre fosse impegnato nella scrittura di un libro che realizzasse appuntoil suo sogno.Rivivendo "insieme possiamo farcela,Davide fa ricorso a tutte le sue energie sostenute da un largo uso di psicofarmaci per riordinare tutti gli scritti dispersi e rintracciati nel computer del padre,arrivare alla composizione del "libro" e vedere il realizzarsi,seppur a posteriori,del sogno paterno, cosa che in realtà poi avviene con la sua pubblicazione.Davide ha allora un crollo emotivo e distrutto dagli psicofarmaci finisce in una clinica di malati mentali.Che finisca lì per sempre o che ne esca risanato non ha alcuna importanza nel contesto del film ;peraltro una conclusione a lieto fine sarebbe stata troppo banale.Malgrado la materia (rapporti relazionale familiari ,incomunicabilità,rotture ecc.) sia interessante e di attualità,il film è lento,piatto quasi una cronaca senza momenti di approfondimento e vero coinvolgimento ed emozione dello spettatore .Un film comunque da vedere,peccato che per Avati sia una occasione persa
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mattiabertaina
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martedì 30 settembre 2014
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temi interessanti, poco approfondimento
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“Per noi è no ma lei ha comunque talento. Ma mi tolga una curiosità, lei non è parente di quel Bias che faceva quei filmacci vero? […] ne ero certo leggendo le cose che scrive”. Davide Bias, aspirante scrittore dalle aspettative costantemente frustrate, vive a Milano, tra le pillole contro la depressione e una fidanzata confusa ed inaffidabile; Davide lavora come creativo presso una agenzia pubblicitaria e spera in un futuro diverso. Davide ha però un’ombra lunga ed ingombrante, quella del padre, sceneggiatore di B movie del passato, col quale ha da sempre un “rapporto orrendo” o forse, meglio dire, un non-rapporto, una storia fatta di ostacoli, di incomprensioni, di competizioni e di delusioni.
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“Per noi è no ma lei ha comunque talento. Ma mi tolga una curiosità, lei non è parente di quel Bias che faceva quei filmacci vero? […] ne ero certo leggendo le cose che scrive”. Davide Bias, aspirante scrittore dalle aspettative costantemente frustrate, vive a Milano, tra le pillole contro la depressione e una fidanzata confusa ed inaffidabile; Davide lavora come creativo presso una agenzia pubblicitaria e spera in un futuro diverso. Davide ha però un’ombra lunga ed ingombrante, quella del padre, sceneggiatore di B movie del passato, col quale ha da sempre un “rapporto orrendo” o forse, meglio dire, un non-rapporto, una storia fatta di ostacoli, di incomprensioni, di competizioni e di delusioni. Pupi Avati si muove ancora una volta sul filo dell’autobiografico portando sullo schermo un dramma fatto di speranze, di rapporti familiari difficili, di lavoro, di disturbi della personalità e di difficoltà emotive ed affettive. Il regista scava nel passato e nelle frasi non dette, nei “come se”, negli “anche se”, nei “come avrei” di un rapporto padre-figlio complicato che torna prepotentemente alla luce dopo la dipartita del capo-famiglia che muore in un incidente (?) stradale. Una sceneggiatura che si propone di indagare temi importanti ma che non riesce a convincere fino in fondo; una regia un po’ troppo televisiva e smaltata che incede con ritmo fiacco per buona parte della pellicola. Riccardo Scamarcio dà profondità al protagonista, in bilico tra personalità asociale in balìa dei farmaci ed elemento violento quanto mai autentico; la Capotondi, al limite della macchietta, non riesce a fornire credibilità a Silvia, la fidanzata di Davide; fuori tempo massimo l’interpretazione (e la presenza stessa) di Sharon Stone, che pare una figura da fotoromanzo anni ’70, presenza quanto mai ambigua e fine a se stessa. Il risultato complessivo de “Un ragazzo d’oro” è un prodotto di media qualità che coinvolge ma che non fa davvero breccia nel cuore dello spettatore. Un’occasione mancata di approfondimento che difetta parzialmente di originalità e di indagine.
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monty
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lunedì 6 ottobre 2014
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malinconica follia di un ragazzo d'oro
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Film d'autore sul rapporto fra genitori e figli ma anche sulla sensibilità troppo acuta di un ragazzo che viene purtroppo punita dalla società di oggi che non riesce e non vuole capire quello che c'è oltre la superficie.Il film scava nel profondo della psicologia del protagonista.Un ragazzo d'oro ,come dice il titolo del film, perchè troppo leale e troppo spontaneo.Il suo errore è quello di credere in ideali sui quali non ci si dovrebbe neanche soffermare a pensare.Il rapporto con il padre è burrascoso fino a quando non vi trova un punto d'incontro.Capisce che il padre non è lo sceneggiatore che le produzioni cinematografiche hanno voluto mostrare riducendo i suoi film soltanto a macchiette comiche per scopi commerciali così come lui non riesce a realizzare i propri sogni di scrittore per non riuscire a trovare un' editore che voglia rischiare con i suoi racconti.
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Film d'autore sul rapporto fra genitori e figli ma anche sulla sensibilità troppo acuta di un ragazzo che viene purtroppo punita dalla società di oggi che non riesce e non vuole capire quello che c'è oltre la superficie.Il film scava nel profondo della psicologia del protagonista.Un ragazzo d'oro ,come dice il titolo del film, perchè troppo leale e troppo spontaneo.Il suo errore è quello di credere in ideali sui quali non ci si dovrebbe neanche soffermare a pensare.Il rapporto con il padre è burrascoso fino a quando non vi trova un punto d'incontro.Capisce che il padre non è lo sceneggiatore che le produzioni cinematografiche hanno voluto mostrare riducendo i suoi film soltanto a macchiette comiche per scopi commerciali così come lui non riesce a realizzare i propri sogni di scrittore per non riuscire a trovare un' editore che voglia rischiare con i suoi racconti.Il lavoro gli dà contro trovando soltanto qualcuno disposto a rubargli le idee e la fidanzata.La ragazza è un personaggio a doppio ruolo che aiuta il protagonista ma non riesce ad amarlo fino in fondo perchè è un ragazzo "difficile" e preferisce tradirlo con il suo ex.Il protagonista nella sua sentita solitudine si chiude nella sua scrittura fino ad arrivare alla follia che poi ,una volta guarito,sceglie come alternativa di vita a quella in una società troppo ipocrita e complicata perfino dopo il successo come scrittore arrivato fingendosi il padre unico modo che aveva per pubblicare il suo romanzo.Film che fa riflettere sul ruolo della sensibilità in una società basata su meccanismi che non le lascia spazi dove non conta chi sei ma soltanto il ruolo che hai.
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flyanto
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martedì 23 settembre 2014
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quando il passato ritorna e sconvolge in maniera d
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Film in cui si narra di un giovane uomo (Riccardo Scamarcio) alquanto nevrotico, aspirante scrittore, il quale da anni ha un pessimo rapporto col proprio padre, un famoso sceneggiatore di soggetti cinematografici di basso livello artistico. In seguito al suicidio di quest'ultimo, egli è costretto a fare i conti col proprio passato e a ritornare da Milano, dove si è trasferito, a Roma dalla madre. Qui viene in contatto con anche un'ex amante del padre (Sharon Stone) che peraltro è la direttrice di una casa editrice e che da anni è alla ricerca di un'opera inedita e, forse, tenuta nascosta appositamente, del defunto. Da qui una serie di eventi porterà il protagonista a decidere di "sostituirsi" al padre come scrittore e a far pubblicare il tanto ricercato ed ambito romanzo che si dimostra essere subito un grande successo.
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Film in cui si narra di un giovane uomo (Riccardo Scamarcio) alquanto nevrotico, aspirante scrittore, il quale da anni ha un pessimo rapporto col proprio padre, un famoso sceneggiatore di soggetti cinematografici di basso livello artistico. In seguito al suicidio di quest'ultimo, egli è costretto a fare i conti col proprio passato e a ritornare da Milano, dove si è trasferito, a Roma dalla madre. Qui viene in contatto con anche un'ex amante del padre (Sharon Stone) che peraltro è la direttrice di una casa editrice e che da anni è alla ricerca di un'opera inedita e, forse, tenuta nascosta appositamente, del defunto. Da qui una serie di eventi porterà il protagonista a decidere di "sostituirsi" al padre come scrittore e a far pubblicare il tanto ricercato ed ambito romanzo che si dimostra essere subito un grande successo. L'epilogo tragico chiude l'intera vicenda.
L' ultima opera di Pupi Avati presenta un soggetto del tutto nuovo per ciò che riguarda il genere solitamente da lui trattato. Infatti, ai ricordi nostalgici di vicende sentimentali ambientate in epoche per lo più passate, il regista bolognese qui affronta un argomento singolare, che sempre affonda e riporta in vita vicende passate, ma dove il presente è preponderante e fortemente protagonista. Il tema degli affetti e dei rancori mai sopito è ben analizzato e, del resto, Avati è un grande maestro nello descrivere tutto ciò e pertanto non costituisce una novità. Ma il dispiegamento della vicenda assume dei connotati particolari affrontando tematiche, magari già trattate (vedi, per esempio, la frustrazione di non riuscire artisticamente, i sentimenti profondi ma contrastanti nei confronti di vari affetti e componenti familiari, il tentativo di smodata emulazione e l'epilogo triste ed amaro che sembra riportare tutto alla sua giusta dimensione) ma in una forma nuova e molto attinenti alla realtà odierna, da costituire, appunto, una sorta di innovazione rappresentativa per il regista.
Il cast risulta ben costituito ed ognuno degli attori corrisponde perfettamente al proprio personaggio che interpreta: da Scamarcio, uomo tormentato ed infelice, a Sharon Stone, donna d'affari algida ma molto seducente, a Cristiana Capotondi guovane donna dal viso angelico e dolce ma ben determinata a seguire la propria strada, ecc...
Insomma, sebbene non un capolavoro, vale la pena di essere visto.
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ely57
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lunedì 20 ottobre 2014
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iperboli opposte
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Film con sceneggiatura complessa in quanto attraverso un processo temporale sviluppa un percorso interiore drammatico e fattivo vissuto nello stesso tempo dal protagonista, questo processo ha di interessante un andamento per iperboli sincroniche, simmetriche ed opposte: una ascendente quella del fare-produrre-costruire che permette al protagonista di raggiungere un successo apicale realizzando con grande sforzo un libro-capolavoro, l'altra iperbole quella discendente ci parla dell'essere, e fa tracollare il protagonista nel peggiore dramma psicologico cioè il rifiuto alla vita sino al venir rinchiuso in una clinica psichiatrica senza possibilità di ritorno, in uno stato sempre più catatonico e totalmente fuori gioco.
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Film con sceneggiatura complessa in quanto attraverso un processo temporale sviluppa un percorso interiore drammatico e fattivo vissuto nello stesso tempo dal protagonista, questo processo ha di interessante un andamento per iperboli sincroniche, simmetriche ed opposte: una ascendente quella del fare-produrre-costruire che permette al protagonista di raggiungere un successo apicale realizzando con grande sforzo un libro-capolavoro, l'altra iperbole quella discendente ci parla dell'essere, e fa tracollare il protagonista nel peggiore dramma psicologico cioè il rifiuto alla vita sino al venir rinchiuso in una clinica psichiatrica senza possibilità di ritorno, in uno stato sempre più catatonico e totalmente fuori gioco. Scamarcio è fisionomicamente ed interpretativamente perfetto per questa difficile parte introspettiva ed involutiva.
Tutta la quantità di energia profusa gli permette di realizzare un capolavoro ma la stessa energia lo ha totalmente consumato interiormente e neppure l'amore della madre, una grande interpretazione di Giovanna Ralli, nè della fidanzata unica consapevole di ció che sta evolvendo in lui di giorno in giorno, riescono ad aiutare e salvare il protagonista in quanto certe patologie psichiatriche non vedono e non sentono l'amore che gli altri prodigano per loro in quanto trattasi di disturbi profondi al di là della vita reale.
Avati riesce a tradurre in una fluida sequenza filmica, questo parallelismo antitetico tra la costruzione di un capolavoro e la distruzione del proprio essere, con giuste tempistiche, buone interpretazioni e rispettando tempi di riflessione necessari allo spettatore, tutto ció rende questo film, un film di buon livello qualitativo in un ambito, quello degli abissi della psiche e il contesto del soggetto, che lo ha messo alla prova nella difficile ma ben riuscita traduzione cinematografica.
Il film è importante in quanto sensibilizza e fa riflettere sui grandi temi sottesi: il rapporto padre-figlio come puó essere percepito e vissuto e la presa di coscienza sull'escalation tragica di una personalità disturbata che diviene irrecuperabile.
Un Avati inedito in questa sceneggiatura perbolica.
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susanna trippa
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giovedì 30 ottobre 2014
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un ragazzo d’oro – una storia di archetipi
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Gli archetipi sono forze sottili che ‘colorano’ l’ambito in cui ci muoviamo. E i vari protagonisti del film, quasi Carte dei Tarocchi, ce li richiamano.
Non solo loro, gli umani, ma anche le ambientazioni del film sono simboliche.
Milano: città del concreto, del terreno, del quotidiano, della vita ‘reale’ infine. La stessa terapeuta, da cui all’inizio va il Figlio/Scamarcio, si preoccupa che ‘prenda le medicine’ (sempre qualcosa di materico).
Roma: dove scrittura, cinema, atmosfera stessa della città rimandano a qualcosa di più sotterraneo e aereo, l’inconscio, il sogno, il fuggire dalla realtà.
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Gli archetipi sono forze sottili che ‘colorano’ l’ambito in cui ci muoviamo. E i vari protagonisti del film, quasi Carte dei Tarocchi, ce li richiamano.
Non solo loro, gli umani, ma anche le ambientazioni del film sono simboliche.
Milano: città del concreto, del terreno, del quotidiano, della vita ‘reale’ infine. La stessa terapeuta, da cui all’inizio va il Figlio/Scamarcio, si preoccupa che ‘prenda le medicine’ (sempre qualcosa di materico).
Roma: dove scrittura, cinema, atmosfera stessa della città rimandano a qualcosa di più sotterraneo e aereo, l’inconscio, il sogno, il fuggire dalla realtà. E’ anche il luogo della finzione per eccellenza, il cinema.
Quel luogo/tana a Roma – lo studio del Padre – dove poi Scamarcio/Figlio, identificandosi con lui, proprio come lui trascorrerà giorni e notti (e dove io, appena nel film è stato inquadrato, ho riconosciuto la descrizione che Avati, nell’autobiografia, fa del suo studio alla DUEA).
E questa stanza/tana è il crogiuolo, il laboratorio alchemico dove si compie la ‘macerazione’ del Figlio: la sua ‘Notte oscura dell’anima’ senza purtroppo la sua uscita dantesca a ‘Riveder le stelle’.
Poi ci sono i luoghi, sempre all’esterno, giardini e parchi – belli, non nello sporco chiassoso della città – degli incontri del Figlio con la ex diva Sharon Stone, musa della Creatività.
Così il protagonista, Scamarcio – bravo – è il Figlio.
Poi c’è un Padre, appena scomparso e molto probabilmente suicidatosi, di cui è sempre presente attraverso il Figlio l’ombra tossica che ha lasciato su di lui. Il Padre non è una vera persona, o comunque non interessa alla storia che viene narrata chi fosse veramente, perché rappresenta unicamente l’ombra tossica del Figlio, cioè come ha influito su di lui.
C’è dunque il dramma di un Figlio che, per riuscire a vivere pienamente cioè strutturando finalmente il proprio Io e trovare il proprio talento (il piano divino della propria vita), deve liberarsi dall’ombra del Padre.
Potrebbe farlo attraverso la Scrittura, che rappresenta appunto il suo talento, quel qualcosa – come per Avati il cinema – che fa realizzare nella terra la sua anima, il suo piano divino.
Solo che, quando finalmente nel momento emozionale di riavvicinamento alla figura del Padre (e questo può portare a sciogliere il grosso nodo che esiste tra loro attraverso il perdono), decide di scrivere il romanzo paterno, in realtà non accetta il fallimento del Padre – che è stato incapace di scrivere il romanzo - ma, identificandosi con lui (anche con cambiamenti fisici e di abbigliamento), cade insieme a lui nell’abisso. E così non si salverà.
Questa fine del Figlio si intuisce quando lui stesso si ferma assorto davanti al precipizio dove il Padre è caduto con l’auto. In quel momento c’è un’immedesimazione molto precisa: si domanda se il padre abbia urlato, reazione che lui avrebbe avuto ed ha di fronte al terrore di una morte psichica.
Il romanzo che scrive, e consegna a pezzi – come un parto faticosissimo - alla ex diva ora editrice
( personificazione della carta dei Tarocchi Imperatrice – figura mitica vincente, qui Creatività/Scrittura l’unica che potrebbe salvarlo), alla fine viene pubblicato e vince addirittura il Premio Strega. Solo che appare come opera del Padre.
In tutta questa fase del film ho sperato che il Figlio se ne assumesse la paternità; fino alla fine ho sperato che urlasse “No maledizione! è mio! l’ho scritto io”.
E invece no. Questo non succede. Il Figlio non ce l’ha fatta. Non è uscito dalla sua Notte Oscura. Non è riuscito a superare le Dodici Fatiche di Ercole. Perché non le ha superate?
Semplicemente perché ha scritto un romanzo meraviglioso, ma non ha preso consapevolezza di questo suo talento. Il donarlo al Padre non è stato un atto generoso, ma ha dimostrato la sua incapacità ad Essere e a Vivere. Il suo dono ha mostrato il suo terrore.
Ecco il perché del titolo – ironico - UN RAGAZZO D’ORO.
Il Figlio muore alla vita, alla sua realizzazione in terra, preferendo restare nell’ospedale psichiatrico per il terrore di affrontare se stesso. Per questo stesso terrore è sprofondato nell’abisso dell’immedesimazione con il Padre.
A nulla vale la visita della musa Scrittura/Sharon Stone, che si fa annunciare come ‘fidanzata’ (perché in realtà è lei la sua vera fidanzata).
Il Figlio oramai non uscirà più da là. Con l’ultima sua frase/ritornello ‘Io e te papà insieme siamo invincibili’ sprofonda irrimediabilmente nell’abisso, avvinghiato al corpo del Padre gettatosi nel dirupo.Gli archetipi sono forze sottili che ‘colorano’ l’ambito in cui ci muoviamo. E i vari protagonisti del film, quasi Carte dei Tarocchi, ce li richiamano.
Non solo loro, gli umani, ma anche le ambientazioni del film sono simboliche.
Milano: città del concreto, del terreno, del quotidiano, della vita ‘reale’ infine. La stessa terapeuta, da cui all’inizio va il Figlio/Scamarcio, si preoccupa che ‘prenda le medicine’ (sempre qualcosa di materico).
Roma: dove scrittura, cinema, atmosfera stessa della città rimandano a qualcosa di più sotterraneo e aereo, l’inconscio, il sogno, il fuggire dalla realtà. E’ anche il luogo della finzione per eccellenza, il cinema.
Quel luogo/tana a Roma – lo studio del Padre – dove poi Scamarcio/Figlio, identificandosi con lui, proprio come lui trascorrerà giorni e notti (e dove io, appena nel film è stato inquadrato, ho riconosciuto la descrizione che Avati, nell’autobiografia, fa del suo studio alla DUEA).
E questa stanza/tana è il crogiuolo, il laboratorio alchemico dove si compie la ‘macerazione’ del Figlio la sua ‘Notte oscura dell’anima’ senza purtroppo la sua uscita dantesca a ‘Riveder le stelle’.
Poi ci sono i luoghi, sempre all’esterno, giardini e parchi – belli, non nello sporco chiassoso della città – degli incontri del Figlio con la ex diva Sharon Stone, musa della Creatività.
Così il protagonista, Scamarcio – bravo – è il Figlio.
Poi c’è un Padre, appena scomparso e molto probabilmente suicidatosi, di cui è sempre presente attraverso il Figlio l’ombra tossica che ha lasciato su di lui. Il Padre non è una vera persona, o comunque non interessa alla storia che viene narrata chi fosse veramente, perché rappresenta unicamente l’ombra tossica del Figlio, cioè come ha influito su di lui.
C’è dunque il dramma di un Figlio che, per riuscire a vivere pienamente cioè strutturando finalmente il proprio Io e trovare il proprio talento (il piano divino della propria vita), deve liberarsi dall’ombra del Padre.
Potrebbe farlo attraverso la Scrittura, che rappresenta appunto il suo talento, quel qualcosa – come per Avati il cinema – che fa realizzare nella terra la sua anima, il suo piano divino.
Solo che, quando finalmente nel momento emozionale di riavvicinamento alla figura del Padre (e questo può portare a sciogliere il grosso nodo che esiste tra loro attraverso il perdono), decide di scrivere il romanzo paterno, in realtà non accetta il fallimento del Padre – che è stato incapace di scrivere il romanzo - ma, identificandosi con lui (anche con cambiamenti fisici e di abbigliamento), cade insieme a lui nell’abisso. E così non si salverà.
Questa fine del Figlio si intuisce quando lui stesso si ferma assorto davanti al precipizio dove il Padre è caduto con l’auto. In quel momento c’è un’immedesimazione molto precisa: si domanda se il padre abbia urlato, reazione che lui avrebbe avuto ed ha di fronte al terrore di una morte psichica.
Il romanzo che scrive, e consegna a pezzi – come un parto faticosissimo - alla ex diva ora editrice
( personificazione della carta dei Tarocchi Imperatrice – figura mitica vincente, qui Creatività/Scrittura l’unica che potrebbe salvarlo), alla fine viene pubblicato e vince addirittura il Premio Strega. Solo che appare come opera del Padre.
In tutta questa fase del film ho sperato che il Figlio se ne assumesse la paternità; fino alla fine ho sperato che urlasse “No maledizione! è mio! l’ho scritto io”.
E invece no. Questo non succede. Il Figlio non ce l’ha fatta. Non è uscito dalla sua Notte Oscura. Non è riuscito a superare le Dodici Fatiche di Ercole. Perché non le ha superate?
Semplicemente perché ha scritto un romanzo meraviglioso, ma non ha preso consapevolezza di questo suo talento. Il donarlo al Padre non è stato un atto generoso, ma ha dimostrato la sua incapacità ad Essere e a Vivere. Il suo dono ha mostrato il suo terrore.
Ecco il perché del titolo – ironico - UN RAGAZZO D’ORO.
Il Figlio muore alla vita, alla sua realizzazione in terra, preferendo restare nell’ospedale psichiatrico per il terrore di affrontare se stesso. Per questo stesso terrore è sprofondato nell’abisso dell’immedesimazione con il Padre.
A nulla vale la visita della musa Scrittura/Sharon Stone, che si fa annunciare come ‘fidanzata’ (perché in realtà è lei la sua vera fidanzata).
Il Figlio oramai non uscirà più da là. Con l’ultima sua frase/ritornello ‘Io e te papà insieme siamo invincibili’ sprofonda irrimediabilmente nell’abisso, avvinghiato al corpo del Padre gettatosi nel dirupo.
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pisiran
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venerdì 19 settembre 2014
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cinema d'autore...............
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Sarà che il tema mi appartiene, sarà che il regista mi piace, sarà che Scamarcio l'ho trovato all'altezza, certo quando un film ti emoziona e ti commuove, a mio avviso risulta essere sempre un buon film.
Forse un pò lento ma di una lentezza, visto l'argomento, indispensabile.
Con la presenza di una grande attrice quale è Sharon Stone, non invadente, quasi al margine della storia pur essendone parte integrante, e una Capotondi di rilievo nella sua parte, il tutto a dare il giusto spessore a uno Scamarcio significativo.
Il film lento e riflessivo pone in primo piano il rapporto tra genitori e figli, argomento sempre attuale, sia pure nelle sue svariate ed infinite fasi di scontro, dando modo al " tempo galantuomo " di poter aggiustare dei giudizi a volte affrettati o determinati dalla poca conoscenza.
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Sarà che il tema mi appartiene, sarà che il regista mi piace, sarà che Scamarcio l'ho trovato all'altezza, certo quando un film ti emoziona e ti commuove, a mio avviso risulta essere sempre un buon film.
Forse un pò lento ma di una lentezza, visto l'argomento, indispensabile.
Con la presenza di una grande attrice quale è Sharon Stone, non invadente, quasi al margine della storia pur essendone parte integrante, e una Capotondi di rilievo nella sua parte, il tutto a dare il giusto spessore a uno Scamarcio significativo.
Il film lento e riflessivo pone in primo piano il rapporto tra genitori e figli, argomento sempre attuale, sia pure nelle sue svariate ed infinite fasi di scontro, dando modo al " tempo galantuomo " di poter aggiustare dei giudizi a volte affrettati o determinati dalla poca conoscenza.
La pellicola di Pupi Avati a mio avviso merita un plauso, come del resto quasi tutta la sua cinematografia, e va ad arricchire la storia che il cinema italiano (grande) ha scritto negli anni.
Film da vedere e consigliabile a tutti. Buona visione al cinema.
Pisiran-Vr
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[+] per scrivere cosi sei amico della produzione
(di amos5)
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no_data
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martedì 23 settembre 2014
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mamma mia!
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Nel cinema di Roma dove ho visto il film di Avati, ad un certo mometo si sente il rumore della stampante del computer, utilizzata sullo schermo da Scamarcio-Bias, provenire da dietro le spalle di noi spettatori (eravamo in 7 o 8). Siccome non si percepiva subito che era un effetto sonoro (per coinvolgerci di più? Dio mio!) ci siamo girati tutti per vedere cosa stesse succedendo. Bene, questa è stata l'unica emozione che il film è stato in grado di comunicare. Per il resto... calma piatta. Personalmente non ricordo di aver mai visto un film così incapace di coinvolgere, indignare, far riflettere, provocare disgusto o ammirazione come questo. Ad un certo punto ti senti come lo spermatozoo nero tra milioni di bianchi in un vecchio film di Woody Allen e ti chiedi: ma io che ci faccio qui?
Dispiace parlare così di un fim di Pupi Avati, regista che in genere apprezzo, ma così stanno le cose.
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Nel cinema di Roma dove ho visto il film di Avati, ad un certo mometo si sente il rumore della stampante del computer, utilizzata sullo schermo da Scamarcio-Bias, provenire da dietro le spalle di noi spettatori (eravamo in 7 o 8). Siccome non si percepiva subito che era un effetto sonoro (per coinvolgerci di più? Dio mio!) ci siamo girati tutti per vedere cosa stesse succedendo. Bene, questa è stata l'unica emozione che il film è stato in grado di comunicare. Per il resto... calma piatta. Personalmente non ricordo di aver mai visto un film così incapace di coinvolgere, indignare, far riflettere, provocare disgusto o ammirazione come questo. Ad un certo punto ti senti come lo spermatozoo nero tra milioni di bianchi in un vecchio film di Woody Allen e ti chiedi: ma io che ci faccio qui?
Dispiace parlare così di un fim di Pupi Avati, regista che in genere apprezzo, ma così stanno le cose.
Sorprende cha al Festival di Montreal il regista si sia aggiudicato il primo premio per la sceneggiatura di questo ragazzo d'oro, perché è proprio questa che fa acqua da qualunque parte la si guardi. Se il soggetto anche se trito poteva essere svolto in direzioni intriganti, la sceneggiatura neanche ci prova.E il resto? Andiamo con ordine.
Pietosa la Marini nel suo cameo in sé pietoso. Scamarcio sa fare di meglio e merita di meglio. Sciatto il personaggio della Capotondi che non può fare di più, non ne ha lo spazio. Giovanna Ralli? Come sopra. Ma il meglio arriva co Sharon Stone. Non è colpa sua, la disegnano così. Neanche Avati resiste a mostrarcela a cosce larghe in un'inquadratura, del resto meglio tacere. Sciatti i dialoghi ("sai come si baciano le donne sposate?"- Roba da fotoromanzo anni cinquanta). Regia inesistente, fotografia non qualificata; le musiche di Gualazzi neanche le senti.
Lo so, sono stato cattivo.
Claudio.
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