Schindler's List

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Un film di Steven Spielberg. Con Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Caroline Goodall, Embeth Davidtz.
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Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 200 min. - USA 1993. - Universal Pictures uscita giovedì 24 gennaio 2019. MYMONETRO Schindler's List * * * * - valutazione media: 4,14 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

C’era una volta un giovane regista - se essere giovane vuoI dire non aver superato il mezzo secolo e/o non aver perso la capacità di sognare - che raccontava favole bellissime e fortunate, esorcizzando il fatto che, quando aveva quattordici anni, i suoi compagni di scuola lo avevano etichettato come il più noioso della classe. Quel giovane regista aveva la magica capacità di raccontare i propri sogni e di far credere al pubblico che fossero anche i suoi, di costruire grandi giocattoli che infantilmente si divertiva a fare a pezzi. Quando raccontava le sue ossessioni più cupe - l’incubo dell’abbandono e della guerra come lo può vivere un ragazzino (è accaduto con L’impero del sole, nel 1987) -il pubblico reagiva affascinato ma perplesso. Da lui si aspettava - e si aspetta - delle grandi macchine di puro divertimento. E sembrava finora che, fedele alla sua missione cinematografica, Spielberg avesse espresso il massimo della sua coscienza politica nel grido sdegnato pronunciato da Indiana Jones nel contesto giocoso della sua ultima crociata: “Nazisti! Odio quella gente!”.
Con apparente schizofrenia, a distanza di meno di un anno dall aver girato il colossale e fortunato luna park cinematografico di Jurassic Park, Steven Spielberg, realizzando Schindler’s List e portando sullo schermo l’Olocausto, volta pagina, si lascia alle spalle la sua eterna adolescenza, cambia tono, affronta il tema adulto e tragico per eccellenza, rischia il tema impervio della banalità del male. E rischia, proprio per quel suo passato “adolescenziale”, di essere guardato con occhi più sospettosi e meno fiduciosi che se fosse sempre stato un regista “adulto”. Basta sfogliare i ritagli delle reazioni - spesso adoranti e ammirate, ma anche impermalite, ostili e sopraccigliose -con cui il suo film è stato accolto in America, in Francia, in Inghilterra. Mentre al proposito si deve notare che nei due paesi più direttamente coinvolti nella memoria dell’Olocausto o nella volontà di dimenticarlo - la Germania riunificata e Israele -, salvo poche piccate e ingiuste recensioni, la risposta al film è stata di unanime commozione e gratitudine.
In realtà Steven Spielberg non ha né osato troppo né rinnegato se stesso. Dovrebbe colpire come squisitamente spielberghiano il fatto che - per affrontare dopo dieci anni di ripensamenti gli appelli della propria dimenticata identità ebraica, per sfidare Hollywood facendo un film in bianco e nero, di tre ore e un quarto, su un tema che l’America preferisce ignorare, per dimenticare l’interdetto di Adorno contro gli sfruttamenti “artistici” dell’Olocausto - l’ex bambino prodigio abbia scelto una delle rarissime storie dell’Olocausto che assomiglia a una favola: nera, terribile, dolorosa, ma con un barlume di lieto fine. Quello rappresentato dai seimila discendenti degli “Schindlerjuden”, gli ebrei di Schindler, che, filmati con i colori poveri e bruciati di una ripresa quasi amatoriale, sfilano al cimitero cattolico di Gerusalemme, nell’ultima, straziante sequenza del film, e depongono una pietra, secondo il rito ebraico, sulla tomba di Oskar Schindler, il “giusto” che li ha salvati: ogni vero Schindlerjude - invecchiato, provato o, per quelli che abbiamo visti bambini nel film, ormai oltre la linea d’ombra - accanto all’attore o all’attrice che lo ha incarnato sullo schermo, in uno struggente smontaggio della finzione, quasi che Spielberg la sentisse, alla fine, inadeguata.
Serve aggiungere che oggi, in Polonia, il paese da cui provengono i millecento ebrei salvati da Oskar Schindier e i loro discendenti, la comunità ebraica conta solo quattromila persone? Se il film è, salvo l’inizio e la fine, in bianco e nero (il mirabile bianco e nero del polacco Janusz Kanski, ispirato ai documentari dell’epoca e, nella prima irte, alle straordinarie fotografie di Roman Vishniac che raccontano il perduto mondo ebraico dell’Est), non è manicheo l’atteggiamento con cui Spielberg guarda al suo eroe e al suo doppio.
Oskar Schindler - il tedesco dei Sudeti trafficone, imbroglione forse, marito infedele certamente, puttaniere, seduttore - non è un eroe senza incrinature. E se anche lo vediamo un po’ alla volta trasformarsi - da profittatore che assolda per convenienza la mano d’opera pressoché gratuita degli ebrei a protettore occulto che li fa lavorare nella sua fabbrica per salvarli dalla tragedia dei campi di sterminio - non ci stupisce il suo rapporto con Amon Goeth, il comandante del campo di Plaszow, l’assassino che, tra un’orgia e una crisi di narcisismo, gioca al tiro al bersaglio contro i suoi schiavi innocenti.
L’eroe non ancora eroe e il suo doppio (Liam Neeson seducente, ambiguo, forte, determinato, e Ralph Fiennes altrettanto ambiguo, insicuro, certo solo del potere della sua crudeltà) sono due riflessi della stessa perversa burocrazia della morte. All’origine una mostruosa deformazione mentale travestita da ideologia ha imposto le regole: ora, ugualmente protetti dal distintivo nazista, Schindier ne approfitta addolcendole con la sua naturale bonomia, Goeth sfruttandole per sfogare la sua follia. Se sconvolgo-no il tiro all’innocente praticato da Goeth o le crudeltà che perpetra nella sua stessa casa, non meno minacciose sono le sequenze in cui i burocrati dello sterminio preparano a grande velocità i tavolini pieghevoli su cui stenderanno le loro liste mortali. Dell’Olocausto, sembra suggerire Spielberg, la cosa più spaventosa non è l’arbitrarietà della sua follia, ma l’ordine, oil modo in cui piega ai suoi fini la perversione dei singoli. Ed è all’interno dell’ordine che si ribella Schindler, quando con l’aiuto del suo capo contabile ebreo Iszthak Stern (un nuovamente grande Ben Kingsley) ricostruisce a forza di memoria la “lista” dei “suoi” ebrei, per sottrarli ancora una volta alla deportazione. Resta sì, nel film come nella storia, il mistero di come Schindler ce l’abbia fatta, di come abbia potuto continuare per anni ad essere insieme l’industriale bene accetto alle gerarchie naziste (che inconsapevolmente o distrattamente gli permettevano in sostanza di mandare avanti il SUO progetto umanitario) e allo stesso tempo - o poco dopo - arrivare a rischiare ogni suo avere nella sua disinteressata e folle crociata.
Sceneggiando il singolare romanzo di Thomas Keneally da cui il film è tratto (singolare perché si tratta di una versione in forma narrativa di cinquanta testimonianze di prima mano) Steven Zaillan ha costruito, in una struttura impeccabilmente concepita e realizzata mirabilmente dal montaggio, una continua contrapposizione tra mondi e stati d’animo opposti, alternando la follia omicida dei nazisti alle tecniche di sopravvivenza degli oppressi, la scalata al successo di Schindler alla burocrazia omicida dei suoi amici. Il risultato sembra l’osservazione onnisciente di un testimone oculare e rappresenta, per pudore, coerenza, forza, uno straordinario risultato di Spielberg regista. Certo, ci sono anche dei difetti. E di troppo quella bambina vestita di rosso che spicca nel bianco e nero della razzia del ghetto di Cracovia come un simbolo di sopravvivenza. E teatrale e troppo lunga la scena degli addii di Schindler ai suoi ebrei. La musica è ridondante. Ma sono osservazioni minori di fronte a un film che se non ha il rigore di Notte e nebbia (su cui pure all’epoca Truffaut ebbe a ridire) o di Shoha (ma quanta gente ha retto le nove ore dell’austero documento di Lanzmann?), grazie al cielo è anche lontanissimo dalla pornografia del dolore di La scelta di Sophie. Ma è il film dell’autore più fortunato del secolo, che trascinerà il “suo” pubblico - e forse gli altri - per metterlo di fronte, senza sentimentalismi, concessioni, pretese di assoluto, a una tragedia troppo spesso rimossa.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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