lorenzo1287
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sabato 4 giugno 2011
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l'inconfondibile mano di monicelli
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Davvero un bel film, la contrapposizione tra donne (più o meno argute) e uomini (sempre inetti o quasi) ne fa un "Maschi contro femmine" e "Femmine contro maschi" ante litteram. Ovviamente il prodotto monicelliano è mille volte superiore ai suddetti filmettini di Brizzi.
Il sarcasmo senza pietà di Monicelli raggiunge la sua apoteosi con la scena della morte del conte Leonardo (Philippe Noiret), un misto di impietosa crudeltà (in senso monicelliano) e di grottesco.
Tra tutti gli uomini, dall'inetto conte Leonardo all'arrivista Giuliano Gemma passando per il fidanzato musicista della De Sio, l'unico a salvarsi è lo zio Ugo (Bernard Blier), il più bislacco, e forse proprio per questo degno di salvezza nella concezione del mondo del regista di questo film.
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Davvero un bel film, la contrapposizione tra donne (più o meno argute) e uomini (sempre inetti o quasi) ne fa un "Maschi contro femmine" e "Femmine contro maschi" ante litteram. Ovviamente il prodotto monicelliano è mille volte superiore ai suddetti filmettini di Brizzi.
Il sarcasmo senza pietà di Monicelli raggiunge la sua apoteosi con la scena della morte del conte Leonardo (Philippe Noiret), un misto di impietosa crudeltà (in senso monicelliano) e di grottesco.
Tra tutti gli uomini, dall'inetto conte Leonardo all'arrivista Giuliano Gemma passando per il fidanzato musicista della De Sio, l'unico a salvarsi è lo zio Ugo (Bernard Blier), il più bislacco, e forse proprio per questo degno di salvezza nella concezione del mondo del regista di questo film.
Molto belle Catherine Deneuve e, se possibile, ancora di più Liv Ullmann, davvero brava con una recitazione impeccabile. Tre scene-cammeo per la Sandrelli, nella parte di un'amante del conte Leonardo alquanto sguaiata e svampita.
Al film nel complesso, quattro stelle meritate pienamente.
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rob8
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martedì 17 luglio 2018
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un’asciutta elegia bucolica
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A più di trent’anni dalla sua uscita, il film mantiene una certa freschezza di fondo ed una sua coerenza narrativa rispetto all’enunciato del titolo.
Dove l’auspicio è sostanzialmente relazionato alle deboli, quando non ridicole, figure maschili che intersecano le vite del gruppo di donne protagonista della vicenda.
Donne ritratte con affetto, ma anche con quel distacco critico che è stata sempre caratteristica del cinema di Monicelli. Così non abbiamo né sante né madonne, ma solo donne alle prese con i loro problemi: affettivi, sociali, imprenditoriali.
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A più di trent’anni dalla sua uscita, il film mantiene una certa freschezza di fondo ed una sua coerenza narrativa rispetto all’enunciato del titolo.
Dove l’auspicio è sostanzialmente relazionato alle deboli, quando non ridicole, figure maschili che intersecano le vite del gruppo di donne protagonista della vicenda.
Donne ritratte con affetto, ma anche con quel distacco critico che è stata sempre caratteristica del cinema di Monicelli. Così non abbiamo né sante né madonne, ma solo donne alle prese con i loro problemi: affettivi, sociali, imprenditoriali.
Un’asciutta elegia bucolica, che si consuma quasi tutta in un casale della campagna toscana, tra dramma e comicità, nel solco della migliore tradizione della commedia all’italiana.
A cui uno dei suoi padri riconosciuti rende ancora una volta omaggio.
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nicolas bilchi
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sabato 4 giugno 2011
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speriamo che sia femmina.
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Dopo il film su Mattia Pascal, nel 1985 Monicelli tornò alla regia con un'opera dalla portata ben minore, "Speriamo che sia femmina". Guardando il film esso sembra però un parto stanco, un po' malriuscito, ben lontano sia dalla squisitezza comica dei "Soliti ignoti" sia dall'impeccabile eleganza della "Grande guerra"; siamo di fronte ad un prodotto medio-borghese, in cui le caratteristiche portanti del cinema di Monicelli risplendono soltanto in rare occasioni, lasciando posto ad una piattezza generale che rischia a tratti di annoiare. Non che il regista abbia compiuto degli errori, anzi egli persegue il proprio scopo con sicurezza e fermezza di mano e di testa, ma l'handicap (che poi handicap non è perchè tutto deve essere subordinato, valutando oggettivamente, all'intento che ci si è prefissati e che quindi influenzerà fortemente il prodotto) è che la tematica stessa si presenta ostica e non assimilabile immediatamente in piena serenità.
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Dopo il film su Mattia Pascal, nel 1985 Monicelli tornò alla regia con un'opera dalla portata ben minore, "Speriamo che sia femmina". Guardando il film esso sembra però un parto stanco, un po' malriuscito, ben lontano sia dalla squisitezza comica dei "Soliti ignoti" sia dall'impeccabile eleganza della "Grande guerra"; siamo di fronte ad un prodotto medio-borghese, in cui le caratteristiche portanti del cinema di Monicelli risplendono soltanto in rare occasioni, lasciando posto ad una piattezza generale che rischia a tratti di annoiare. Non che il regista abbia compiuto degli errori, anzi egli persegue il proprio scopo con sicurezza e fermezza di mano e di testa, ma l'handicap (che poi handicap non è perchè tutto deve essere subordinato, valutando oggettivamente, all'intento che ci si è prefissati e che quindi influenzerà fortemente il prodotto) è che la tematica stessa si presenta ostica e non assimilabile immediatamente in piena serenità. Monicelli, sempre pronto a sbeffeggiare con satira più o meno marcata i vizi e i difetti della nostra Italia prendendo a modello personaggi, o nuclei familiari come in questo caso, che divengono figure emblematiche, in "Speriamo che sia femmina" incentra la riflessione su una famiglia di piccoli imprenditori borghesi benestanti, toscani, che vivono, come tutti, i propri guai e tragedie, che all'interno del sistema capitalistico vanno alla ricerca del soddisfacimento dei consumi che la loro posizione richiede aprioristicamente (dunque neanche per colpa loro, in fin dei conti): ecco dunque che il marito, che a casa non c'è mai per lavoro e ovviamente a Roma si è fatto l'amante (una giovanissima Stefania Sandrelli nella parte di semi-comprimaria), è pronto a mettere tutto sotto ipoteca per concludere un affare che potrebbe renderlo miliardario, ecco che la moglie, anch'essa consolatasi con le attenzioni del fattore del podere, decide di vendere tutto per andare a vivere nella Capitale dove, pur non facendo la gran signora, "potrà togliersi qualche soddisfazione". Monicelli critica questa mentalità precostituita nella nostra società moderna con la forma di ironia più forte che c'è, cioè mostrando in modo realistico e molto meno "comico" rispetto a suoi film precedenti la degenerazione morale e culturale che da questa condizione deriva. Ugualmente sbeffeggiati, ma su registri più tradizionalmente monicelliani, sono gli uomini, falsi ed ipocriti, capaci solo di far soffrire le figure femminili (o, come lo zio che impara a cucire calze per cavalli, ridotte a macchiette quasi effeminate), le quali quindi stravincono il confronto/scontro, sempre presente ma mai marcato verso l'inverosimiglianza, con gli esponenti dell'altro sesso. Ed infatti il finale, nonostante la negatività di fondo dell'opera, celata solo superficialmente dal clima da commedia, o al massimo da melodramma, che il regista non può fare a meno di impostare, lascia trasparire un barlume di speranza; le donne della famiglia, pacificatesi dopo litigi e contrasti reciproci, si siedono tutte a tavola, alla stessa tavola in cui il film era iniziato, ma epurate da tutte le fastidiose ed ingombranti figure maschili, anzi accompagnate da un nascituro che ancora non si fa sentire ma che è presente, dando quasi l'idea che quella tavola, salva con tutta la baracca quando l'affare della vendita dei poderi viene mandato a monte dalla padrona di casa, non resterà vuota, e l'augurio finale, che è anche il culmine della riflessione monicelliano su tutto ciò che ci è stato fatto vedere nella pellicola, è che il bambino sia un'altra femmina la quale, simbolicamente, è ciò che dovrà portare un miglioramento, un riscatto del mondo secondo principi nuovi, che sono in realtà principi antichi, valori comuni ormai dimenticati a vantaggio del profitto e dell'arricchimento, quali la famiglia, l'amicizia, la solidarietà gli uni verso gli altri.
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