Falso movimento

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Un film di Wim Wenders. Con Rudiger Vogler, Hanna Schygulla, Marianne Hoppe, Nastassja Kinski, Ivan Desny.
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Titolo originale Falsche Bewegung. Drammatico, durata 102 min. - Germania 1974.
   
   
   

Poesia delle metropoli e fuga da se stessi Valutazione 4 stelle su cinque

di Signora Aby


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martedì 31 gennaio 2012


Falso movimento / Falsche Bewegung
“Poesia delle metropoli” e fuga da se stessi

Opera metacinematografica verrebbe da definire questo film di Wenders del 1974, in cui il regista si cimenta in una narrazione doppia. Da una parte c’è il viaggio dei protagonisti che è tuttavia un divagare senza meta, il quale invece di apportare un progresso, produce perdita e alienazione; dall’altra c’è una scrittura che affiora proprio dalle immagini del movimento di cose e persone, rivelando specularmente la sagoma più intimista del racconto. Falso movimento è l’ars poetica di Wenders, il lavoro dove con la maggiore incisività viene formulata la domanda di fondo che percorre l’intera sua produzione, ossia come si possa definire coi mezzi cinematografici la falsità caratteriale che ispira il movimento cinema. Ritmicità quasi ossessiva, quella con cui i mezzi di spostamento e comunicazione sono rappresentati sulla scena, già peraltro fotografati nel ruvido espressionismo della metropoli contemporanea in Alice nelle città.
Wilhelm, il protagonista, alter ego del Wilhelm Meister di Goethe, vorrebbe diventare scrittore ma riconosce il proprio limite nel non riuscire a comunicare e nell’essere indifferente ai comportamenti della gente. Decide così di allontanarsi da casa per qualche tempo, portando con sé Vita di un perdigiorno e L’educazione sentimentale, da leggere durante il viaggio. Ben presto si ritrova a far parte di una comitiva stranamente assortita, composta da un vecchio cantante, ex atleta alle Olimpiadi del ’36 e nazista, Mignon, la ragazzina che lo accompagna, una giovane e sensuale Nastassia Kinski, al suo esordio nel ruolo di artista di strada, un’attrice e un aspirante poeta austriaco. L’inizio, con l’immagine del treno che si perde nella campagna, sembra preparare lo spettatore a una dimensione di spaesamento che costituisce il leitmotif della storia; né è casuale la scelta dell’inquadratura da dietro, come nella sequenza della passeggiata tra i vicoli della città, quasi a voler mettere in risalto la contiguità tra figura umana e architettura delle case, in un’ambigua sovrapposizione.
Al di là del raffinato recupero dei tratti del road movie e oltre l’esplorazione psicologica dell’uomo delle città che si confronta con gli eventi, cercando di adeguarvi la propria percezione, Wenders prova ad analizzare, partendo dal disagio individuale, l’odierna scissione tra la singola personalità e ciò che determina l’azione politica di uno Stato. Emblematica in questo senso è la confessione di un uomo, incontrato in una villa, mentre sta meditando il suicidio. Rimasto insieme a Wilhelm davanti al camino del salotto, parla della solitudine: «Qui [in Germania] sembra essere impalpabile e allo stesso tempo più dolorosa che altrove, e ciò è dovuto al continuo voler esorcizzare la paura […] –  la paura in Germania o è superbia o è vergogna – una cosa che è diventata filosofia di Stato e i metodi per superarla sono perfino legge».
La poetica dell’inquietudine e del disincanto raggiunge in Falso movimento uno dei punti più alti. Ma il regista sembra volontariamente provocare una fase di stallo, lasciando allo spettatore il compito di risolverla. L’impasse è chiarissima nelle due battute scambiate tra Wilhelm e il cantante: «Se solo la politica si unisse alla poesia in un tutt’uno…», «Sarebbe la condanna di ogni desiderio e la fine del mondo». Maestro indiscusso nel cinema di quella che all’inizio del XX secolo Ludwig Meidner salutava come “lirica delle metropoli”, Wenders in questo lavoro ripropone gli elementi chiave del viaggio iniziatico, territorio eletto delle scritture di ogni tempo e in particolare del romanticismo tedesco (si pensi a Faust, Godwi e Peter Schlemihl). Tuttavia qui l’allontanamento dalla città e dalle coordinate apparentemente certe della vita quotidiana non comporta una conquista di consapevolezza, o almeno non soltanto questa. Il rivelarsi di ciascuna personalità avviene per via frammentaria, i ritratti non emergono mai nell’insieme ma si intuiscono solo dai singoli dettagli, e l’uscita dal labirinto è rimandata di continuo. Sull’inseguimento di più voci e narrazioni il regista costruisce l’intelaiatura fondamentale della propria illusione di movimento, e chi osserva non può fare a meno di sentire su di sé la disagevole contesa di immobilismo e impulso alla fuga. Arianna ha tagliato il filo perché trovassimo in noi le risorse per affrontare il Minotauro.

Claudia Ciardi, gennaio 2012

  


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