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Rassegna stampa di Vittorio De Sica

Vittorio De Sica è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, musicista, è nato il 7 luglio 1901 a Sora (Italia) ed è morto il 13 novembre 1974 all'età di 73 anni a Neuilly-sur-Seine (Francia).

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

A trent’anni dalla morte, Vittorio De Sica resta in gran parte un enigma. Non l’uomo, non l’attore, non il regista, ma il posto di De Sica nella cultura italiana e mondiale conserva qualcosa del rebus. Nessuno dei nostri cineasti è stato così importante e insieme così popolare in patria, sia pure per motivi e in periodi diversi. Nessuno, tranne forse Fellini, Rossellini e più tardi Antonioni, ha esercitato un’influenza così profonda su scuole, autori e paesi anche lontanissimi, dall’Urss del disgelo al Giappone di Kurosawa passando per l’India di Satyajit Ray.
Eppure la leggenda De Sica resta sfumata e contraddittoria come la sua vita tutta all’insegna del travestimento, della moltiplicazione di ruoli e di identità, della dispersione e disseminazione di sé praticata nel privato e sul set.

PRISCILLA DEL NINNO
Il Secolo d’Italia

La stazza era decisamente quella del cineasta di talento. L’eleganza quella tipica dei grandi divi. Il fascino, indiscutibilmente quello del gentiluomo rubacuori, Per questo oggi, a ventiquattr’ore dal trentennale della sua scomparsa — che sarà ricordata un po’ ovunque, dal palcoscenico alla rassegne sparse qua e là, fino agli scaffali delle librerie pronte a rispolverare note biografie e a pubblicare inediti prolificati a suo nome — ci manca irrimediabilmente quella sua maschera tenera e beffarda, irresistibilmente furba Quella sua sapienza popolare dispensata in canzonette d’epoca, pièce datate o titoli d’antologia, ma sempre giocata sul terreno della spettacolarità intelligente. Dell’impegno autoriale. Per tutti questi motivi, allora, e per quell’alone di inspiegabile unicità che spesso circonda le personalità speciali, quando Vittorio De Sica, già nel 1940, dirige «Rose scarlatte», è almeno da quasi un decennio un attore affermato: il pubblico lo riconosce anche sotto le mentite spoglie del giornalaio pronto a dilapidare tutti i risparmi messi via a fatica per seguire una scombinata banda di ricconi da un grande albergo all’altro (Il signor Max). Fa il tifo per lui se nelle logori vesti di un semplice impiegato, con gli sci in collo appena comprati, parte per la montagna e già al bar della stazione incontra una ragazza sprovveduta quanto lui che ha l’inequivocabile charme di Assia Noris. e se rie innamora (Grandi magazzini). Magari gli crede un po’ meno quando indossa le lenti del cinico (La peccatrice), o quando si improvvisa tenerello alle prime armi e l’oggetto del suo amore è magari, come in Manco Lescaut, meno virtuosa dei dovuto. Insomma, non è l’eroe alla Nazzari. Non è un playboy quanto Rossano Brazzi. Ma De Sica seduce. Convince. Appassiona. Con una leggerezza e una intensità che, dal debutto all’addio, avrebbero sempre caratterizzato il suo impegno sul set, sia davanti che dietro la macchina da presa, lasciando che tra le sue dita confluisse sinergicamente, e in perfetta osmosi, tutto il fraseggio tipico della grammatica spettacolare di casa nostra, dal teatro leggero alla canzone, passando per il cinema, l’avanspettacolo, il repertorio drammaturgico colto, il gusto, quasi gigionesco, per la recitazione e, non ultima, l’influenza — in termini dì umori intellettuali e di sapori sociali — della città di Napoli, microcosmo privilegiato di fervore culturale e umana quotidianità, sincretico crocevia di commistione tra riflessioni alte e più prosaiche consapevolezze. Forse anche per questo, nei cinema e altrove; per i personaggi che interpreta per le storie che privilegia, tutti lo considerano un napoletano doc, mentre invece lui è nato a Sora, una paese della Ciociaria, il 7 luglio dei 1901. La famiglia lo aveva destinato, per studi e necessità, alla carriera di ragioniere ma lui per sé meditava ben altro. Tutto quello che, tra compagnie di giro e debutti cinematografici, tra commedie di gusto francese e drammi veristici, tra riduzioni dai classici e ardite reinterpretazioni lo avrebbe, nel tempo, portato ad essere quello che Vittorio De Sica è stato e ancora rappresenta: un uomo di spettacolo profondamente italiano, lontano — per sensibilità artistica e scelte estetiche — dal più facile consumismo commerciale. Un cineasta pronto a rimettere in discussione convinzioni registiche e traguardi istrionici in nome di nuova linfa ispiratrice attraverso cui rigenerare il cinema prima ancora che il suo ruolo o la sua immagine. Ruolo e immagine che, saltando dal set di un film alla scena della sua vita, tendevano — come nel più tradizionale dei copioni ispirati a un personaggio come lui — a fondersi. Tolto il trucco, insomma, sotto c’era il viso di un uomo a tratti debole eppure determinato, capace di prestare eleganti fattezze e credibilità istrionica al bravo ragazzo come al viveur scavezzacollo. Al dongiovanni impenitente e allo scapolo d’oro a un certo punto pronto a dirimersi. Sotto quegli strati di cerone, allora, fu Mario Camerini prima di tutti a intravedere tutto quell’enorme potenziale. A cavare, dall’attore che sorrideva al pubblico nel suo impeccabile abito da mondano, il bravo ragazzo della porta accanto e dai buoni sentimenti: il regista, che stava cercando l’interprete per il suo Gli uomini, che mascalzoni!, andò a teatro e scelse, contro il parere risolute: dell’intero settore produttivo, quel ragazzo alto, dal naso lungo che, da quel debutto in poi — arrivato dopo una gavetta che non aveva risparmiato a De Sica incursioni nell’avanspettacolo e nel teatro di genere — avrebbe raggiunto ben altre mete. Quel titolo, infatti, sarebbe stata la prima tappa di un lungo e brillante cammino artistico che avrebbe portato De Sica a battere i sentieri lunghi ma fortunati delle commedie cinematografiche semplici ma mai dozzinali, di facile fruizione eppure mai esenti da preziosi riferimenti sociali, Così come più tardi, la scelta di tematiche civili e l’adozione di linguaggi espressivi che hanno siglato a caratteri di fuoco la sua produzione autoriale, lo avrebbe portato a percorrere itinerari creativi più difficili e innovativi che hanno contribuito alla, creazione dei suo mito e alla sua internazionalità. Per il De Sica attore, infatti, prodigarsi come interprete, giovane, talentuoso e affascinante, capace di affrontare qualunque difficoltà ordinaria e di ridimensionare ogni problema quotidiano al più gestibile intoppo nello svolgimento di bonari raggiri amorosi, ha lo stesso significato che ricopre, per il De Sica autore, essere il protagonista che, dietro la macchina da presa, denuncia verità drammatiche, realtà scomode, analizzate, passo dopo passo, entrando fin nell’intimità più nascôsta delle cose. Immergendosi dentro le situazioni e calandosi al fianco !dei personaggi con uno sguardo d’autore che non tradisce mai freddezza! espressiva o distacco emotivo ma che, al contrario, trasuda curiosità e confessa complicità. E per questo, sia che rivesta il molo dei protagonista di Questi ragazzi di Mario Mattoli, sia che muova le fila registiche di un capolavoro come Ladri di biciclette o Umberto D., De Sica mette al servizio della settima arte la sua maestria. In più di centoquaranta interpretazioni sul grande schermo. In trentuno film firmati come regista, e, tanto per tirare le somme, tradotti in cinque Oscar attribuiti alle sue opere e in riconoscimento a una carriera che ha saputo ingentilire il disimpegno, omaggiare la leggerezza, guardare più in profondità. E che, quando gli è possibile, porta De Sica a gettare su elementi altamente spettacolari qualche granello dei sale del vecchio e scaltro neorealista. Come nell’Oro di Napoli, titolo in cui il regista, impegnato tra l’altro nell’indimenticabile oltre che autoironico episodio della partita a carte de I giocatori, lavora con freschezza e verve autoriale sulle festose invenzioni di Giuseppe Marotta; o come ne La ciociara, titolo che imprime idelebilmente su celluloide un irripetibile sodalizio, durato decenni, quello tra il regista e Sophia Loren, e l’inimitabile maestria di un autore eclettico quanto caparbio, capace di gestire e utilizzare artisticamente tutti i linguaggi del cinema. Tutta la gamma dei sentimenti. Capace di maneggiare storie corali e ritratti d’ambiente e di nobilitare soggetti semplici e al limite del bozzettistico, come nel caso de Il giudizio universale. Di aggiungere a una già nutrita galleria di eroiche vittime del quotidiano altri irrinunciabili volti, come quelli dell’indimenticabile Sordi protagonista del Boom; o come quelli di Mastroianni e della Loren al centro del controverso plot dei Girasoli.

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Dopo il successo di Miracolo a Milano, Vittorio De Sica ha seguito vie non di rado contraddittorie in cui, pur mantenendosi saldamente legato a quell'ispirazione lirica da cui erano nati i suoi film migliori, ha accolto suggerimenti non sempre riconducibili ad una concezione unitaria del cinema. Con risultati a volte egualmente felici, a volte abbastanza discutibili.
La sua collaborazione con Cesare Zavattini continua, e in maniera costante, consentendogli di approfondire sempre più il mondo delle idee e delle polemiche contemporanee, innestandolo spesso ai filoni più rigogliosi della migliore letteratura e della cultura più moderna e impegnata. Come largamente dimostra anche Umberto D. , un film che, pur qua e là discontinuo, ha permesso a De Sica di risolvere cinematograficamente, con pagine addirittura esemplari, il soggetto propostogli da Zavattini. Un soggetto, a dire il vero, non sempre molto plausibile, tutto impostato com'è sul dramma di un povero pensionato nei confronti del quale gli uomini si comportano regolarmente come animali feroci (a differenza degli animali che invece, gli si rivolgono con sentimenti quasi umani). Perché, però, gli antagonisti di Umberto D. sono creature così belluine e perché mai si è pensato di venircelo a raccontare? Il film non risponde in modo convincente dato che la storia di Zavattini, pur descrivendoci un modesto episodio di « vita vissuta », mirava a raggiungere posizioni letterarie in cui realtà e fantasia agiatamente si fondessero alla luce di climi allucinati e irreali; in questo caso la cattiveria avrebbe avuto una sua spiegazione e, forse, la sua descrizione avrebbe potuto rasentare la poesia.
De Sica, invece, ha fedelmente riprodotto l'episodio - e la sua regia, nei particolari tutti veri, ha raggiunto sovente nitide e delicate atmosfere - ma ne ha a volte frainteso gli interni motivi di irrazionalità, cadendo nell'artificioso e nel gratuito (in questo aiutato dal sovrabbondare, nel testo, di elementi narrativi non sempre molto chiari).
Restano però a suo onore delle pagine di stile degne della più viva considerazione, a cominciare da quel risveglio della servetta al mattino in cui la minuziosa osservazione realistica raggiunge effetti delicatissimi, umani, concreti.
L'anno seguente, 1953, ecco Stazione Termini, un film che, pur avendo alla base gli stessi presupposti realistici degli altri film di De Sica, è indebolito in partenza da un incontro, per i tempi ancora prematuro, con il cinema di Hollywood, presente non soltanto come apporto produttivo, ma anche con due fra i suoi più celebrati interpreti del momento, Jennifer Jones e Montgomery Clift.
Una giovane americana di Filadelfia, Maria, viene a vivere qualche tempo a Roma, presso una sorella. Qui nonostante in America abbia un marito e una figlia, si innamora di un italiano, Giovanni, e per un mese dimentica tutto al suo fianco. Un giorno, di colpo, l'assale, con i rimorsi, il ricordo della famiglia lontana, e decide di partire. Giovanni la raggiunge alla stazione e tenta invano di convincerla a restare. L'andirivieni dei viaggiatori, i treni, i piccoli incidenti quotidiani di una grande stazione fanno da sfondo a questo concitato colloquio fra i due che, pur volendo la stessa cosa - restare uniti - finiranno per separarsi.
In questo colloquio, ora drammatico, ora tenero, ora violento, ora romantico, consiste tutto il film che fa esattamente coincidere la sua durata con la durata dell'azione. Quando ha dovuto opporre l'uomo e la donna nel dolore e nell'impeto della loro passione, De Sica, si è dimostrato sensibile psicologo e osservatore attento e preciso; quando invece ha suscitato attorno al dramma centrale la rumorosa cornice della stazione (il cui clima, o indifferente o svagato, doveva naturalmente contrastare, secondo l'esempio celebre del Diavolo in corpo, con lo stato d'animo dei due protagonisti) si è limitato a dar vita a una modesta galleria di tipi umani, caratterizzati spesso con una certa imprecisione.

ENZO NATTA
Famiglia Cristiana

«Evitava l’ideologia stretta, andando alla ricerca di un’umanità pura». Sono bastate poche parole a Gianni Arnelio per tracciare un profilo capace di esprimere quell’impegno etico di Vittorio De Sica che André Bazin l’indimenticabile critico di Esprit, padre putativo di Truffaut e di buona parte della nidiata della Nouvelle Vague) attribuiva ai film del Neorealismo, ma soprattutto alle opere di De Sica e Rossellini, che avevano incarnato al meglio l’essenza del cristianesimo.
La tensione morale di De Sica (il 13 novembre ricorrono i trent’anni dalla morte) era alimentata da un sentimento che affondava le sue radici nel dovere: il sentimento di sentirsi vicino alla gente e il dovere di esternarlo. Come? In una vocazione che si manifestava attraverso l’istinto dello spettacolo e che cominciò a farsi sentire quando De Sica era ancora bambino. Racconta egli stesso nella bella biografia che gli ha dedicato Franco Pecori nella collana Il Castoro Cinema: «Nel 1911 ci fu un’epidemia di colera. Le autorità avevano proibito di mangiare fichi. Mia madre se ne rideva e continuava a scendere nei bassi per procurare fichi a tutti noi. Restavo di vedetta nel vicolo, per poter dare l’allarme. Una volta arrivarono due carabinieri e io iniziai a cantare Torna a Surriento, mentre alle mie spalle le ceste venivano fatte sparire. I carabinieri mi dissero: “Bravo, guaglio’, continua!”, mentre il tramestio nel basso non accennava a finire. Per prendere tempo cantai tutto il repertorio napoletano».

PIETRO BIANCHI

La lettura del film di De Sica, Stazione Termini, richiede allo spettatore una certa consapevolezza. Stazione. Termini, probabilmente, non è una svolta rivoluzionaria, un ritorno alla norma, una conversione agli attori professionisti da parte del regista di Frosinone: è una vacanza, e, se si vuole, un ripensamento, forse una sosta, sull’intrapresa via di Damasco. Secondo Berenson, è stata una incongruenza, da parte del Caravaggio, l’aver concessa una maggiore importanza figurativa, nel dipinto famoso,. al cavallo che all’impetuoso cavaliere, ancora Saulo per brevi istanti, caduto per terra; opinione. discutibile, come ognuno sa. Ma ora non vorremmo cadere, per parte nostra, in un’incongruenza più evidente concedendo alla nuova scelta di De Sica (scelta di ambiente, di personaggi, di dialogo, di contenuti «non sociali») un’importanza maggiore di quella che essa abbia in effetti.
Da qualche anno si osserva nel nostro cinema più rappresentativo una inclinazione verso i valori borghesi. Cominciò il bravo Antonioni (cui l’infortunio de La signora senza camelie non dovrebbe levar credito) con Cronaca d’un amore, seguito dal nervoso, ambizioso, insufficiente, ma interessante Europa 5di Rossellini, cui s’è aggiunta un’opera equilibrata e riuscita come La provinciale di Soldati. A questo gruppo si può attribuire, con qualche latitudine, l’intelligente ma difettoso Bellissima di Visconti. Non è chi non veda, da questo elenco, come il nostro cinema, mostrando tanti segni di vitalità, possa incoraggiare le migliori speranze.. L’ultimo a convertirsi è stato De Sica; anche se i suoi zelatori più interessati son lì a suggerirci che si tratta di una conversione forzata, come quella, strappata ai marrani, o poco meno, dai monaci dell’Inquisizione. Eppure qualche elemento c’è, poco chiaro. Il soggetto è stato concepito da Zavattini, in chiave «italiana»; secondo l’idea originale, la protagonista è un’adultera che, pentita e soprattutto vogliosa della sua bambina (press’a poco la situazione di «Anna Karenina», con lo smarrimento di Wronski in meno), lascia l’amante, innamoratissimo, che invano cerca di contrastarle la partenza con gli argomenti soliti in questi casi. A rigore, Zavattini avrebbé ammesso anche la presenza di una straniera, ma che avesse caratteristiche, tali da far comprendere in pieno la smania dell’amante frustrato: Linda Darnell, per esempio. La scelta di Jennifer Jones che, malgrado il giuoco stravagante di Duello al sole, non è un’attrice «sexy» ma un’intellettuale con un sospetto di isterismo, ha legittimato in un certo senso il diverso andamento del racconto.

MARIO SOLDATI

Lui aveva trent'anni, io ventisei. Di passo concorde, sicuro, gioioso, scendevamo via Broletto, via Ponte Vetero, via Mercato, sul marciapiede destro. Era una mattina di aprile, a Fiera aperta. L'aria fresca, frizzante: ma sole vivo, chiaro, che già bruciava. L'indomani s'incominciava a girare Gli uomini che mascalzoni! soggetto di Aldo De Benedetti, che avevo sceneggiato con Camerini, per Camerini: ed ero preoccupatissimo di come sarebbe stato vestito il protagonista, Bruno, giovane meccanico disoccupato... Oggi, questi non sono più problemi. Oggi, il regista dispone normalmente di collaboratori specializzati, costumisti coi fiocchi anche quando il film non è in costume. E, per la verità, non sarebbe più stato un problema solo pochi anni dopo. Ma allora, ma nel 1932, un attore che doveva fare la parte di operaio, vestirlo credibilmente, senza sbagli, come nel 1932 poteva vestirsi un vero operaio, ebbene, pareva un'impresa difficile, rischiosa, coraggiosa: soprattutto un'impresa mai tentata prima, mai neppure pensata.
La notte precedente, De Sica e io avevamo accompagnato Camerini all'albergo. Sul portone (era l'Europe, al Corso), Camerini aveva detto a De Sica: «Domattina, vai con Soldati a scegliere il vestito».
E io, rimasto solo con Vittorio, avevo cominciato, esitando, con mille cautele, a spiegargli questa piccola rivoluzione iniziale che pareva così necessaria, a Camerini e a me, se volevamo girare un film con qualche possibilità di verosimiglianza.
Esitazioni? Cautele? E perché? Ma perché conoscevo abbastanza bene la mentalità degli attori del nostro teatro di prosa, per aspettarmi una ferma presa di posizione al riguardo. E De Sica recitava fino dall'età di sedici anni. De Sica, entrato in compagnia col ruolo di «secondo brillante» nel 1923, passato «primo attore giovane» nel 1927 con Gigetto Almirante, la Rissone, Tofano, era, ormai, «primo attore assoluto» dal 1930, nella Compagnia diretta da Guido Salvini! Per questo, temevo la sua reazione. Temevo, per dirla tutta, che De Sica mi rispondesse, come qualunque altro attore di prosa: «Non ti preoccupare, ho un paio di completi vecchi, grigi, un po' lisi, caso mai ci facciamo un piccolo strappo, qualche macchiolina... non ti preoccupare».

SERGIO DONATI

Beh, De Sica notoriamente era capace di far recitare anche un lavabo di marmo, e dalla Loren ha cavato prove d'attrice anche di molto superiori, come nella Ciociara o nell'Oro di Napoli.
Quanto ai “Girasoli”, l'ho visto quand'é uscito, ed era il '69, un bel quarto di secolo fa. Considero De Sica in assoluto il Migliore del nostro cinema, ma ricordo di aver trovato quel particolare film piuttosto imbalsamato e di maniera, molto “confezionato” per il mercato americano dove all'epoca sia Loren che Mastroianni erano “hot stuff”. Ricordo anche che qui il film andò malaccio come critica e botteghino, e solo un po’ meno peggio negli Stati Uniti. Eravamo tutti un po’ troppo insessantottati? Può essere.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Regista, ma prima attore, e prima ancora «napoletano» a tutti gli effetti, il giovane De Sica dalla Ciociaria raggiunge la capitale del sud e vi trova l'ambiente suo, che terrà dentro di sé sino alla fine. Attore, è in teatro l'amoroso in compagnie importanti. Nel cinema è il bel giovane seducente e fatuo che gli inventa Mario Camerini. Fatuo ma di buon cuore, e ottima pasta «matrimoniale»: Gli uomini che mascalzoni... (1932), Grandi magazzini (1939), i due film ai lati estremi della parabola.

GIAN PIERO BRUNETTA

Proprio nel momento in cui il suo cinema raggiunge il grande pubblico, riscuotendone il consenso, Vittorio De Sica perde, in misura eguale e contraria, il contatto con la critica. Le monografie complessivamente dedicate alla sua opera, sul piano internazionale, si contano sulle dita di una mano e nessuna avanza alcuna pretesa di sistematicità e rigore.
Dopo la rivisitazione del neorealismo con Il tetto, De Sica sente giunto il momento di imboccare strade produttivamente meno impervie e accetta di tentare un esperimento di trapianto e adattamento del modello produttivo hollywoodiano sul corpo del cinema nazionale. Mentre la logica di una produzione francescana veniva punita dal pubblico, i maggiori investimenti e rischi produttivi sono subito ripagati in misura superiore alle attese. Il bilancio economico è così sintetizzabile: «Sei film e mezzo in quattro anni di attività; nessun incasso inferiore ai 500 milioni; uno superiore al miliardo, due al miliardo e mezzo e una punta massima di oltre 2 miliardi e 300 milioni; un primo posto nella classifica economica stagionale e due secondi, entrambi con larghissimo distacco dai concorrenti».
I film, nell'ordine, sono La ciociara del 1960, girato dopo un periodo d'inattività di quasi cinque anni, II giudizio universale del 1961, in cui si ricompone il sodalizio con Zavattini, I sequestrati di Altana, dal dramma omonimo di Jean-Paul Sartre, La riffa (episodio di Boccaccio '70), Ieri, oggi, domani del 1963 e Matrimonio all'italiana, dove il dramma di Eduardo De Filippo Filumena Marturano viene trascritto sullo schermo in una versione fortemente femminista.

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