Vittorio De Sica è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, musicista, è nato il 7 luglio 1901 a Sora (Italia) ed è morto il 13 novembre 1974 all'età di 73 anni a Neuilly-sur-Seine (Francia).
A trent’anni dalla morte, Vittorio De Sica resta in gran parte un enigma. Non l’uomo, non l’attore, non il regista, ma il posto di De Sica nella cultura italiana e mondiale conserva qualcosa del rebus. Nessuno dei nostri cineasti è stato così importante e insieme così popolare in patria, sia pure per motivi e in periodi diversi. Nessuno, tranne forse Fellini, Rossellini e più tardi Antonioni, ha esercitato un’influenza così profonda su scuole, autori e paesi anche lontanissimi, dall’Urss del disgelo al Giappone di Kurosawa passando per l’India di Satyajit Ray.
Eppure la leggenda De Sica resta sfumata e contraddittoria come la sua vita tutta all’insegna del travestimento, della moltiplicazione di ruoli e di identità, della dispersione e disseminazione di sé praticata nel privato e sul set.
Nel 1992 a Pesaro, presentando la prima grande retrospettiva dedicatagli (quasi vent’anni dopo la sua scomparsa, e già questo la dice lunga), Lino Miccichè si chiedeva come mai, malgrado il peso immenso del De Sica neorealista e la traccia non meno imponente lasciata dal De Sica attore, in Italia e nel mondo il regista di Ladri di biciclette non avesse ispirato una letteratura critica rigogliosa come quella dedicata non solo a Fellini e Rossellini, ma anche, poniamo, a Visconti, Bertolucci e perfino a Moretti.
Troppo “datati” i suoi capolavori? Tutt’altro. Troppo incoerente e dispersivo il percorso di De Sica allora, prima amatissimo attore e cantante, poi regista capace di passare dall’impagabile leggerezza degli esordi ( Maddalena zero in condotta, Teresa Venerdì) alla drammaticità di I bambini ci guardano e di lì alla densità dei capolavori, Sciuscià (primo Oscar italiano della storia), Ladri di biciclette, Umberto D. , senza dimenticare il bellissimo ma all’epoca pesantemente incompreso Miracolo a Milano ? O era l’ipoteca Zavattini, figura di per sé debordante e sceneggiatore di quasi tutti i suoi film maggiori, a pesare?
Probabilmente è proprio la ricchezza inesauribile di De Sica, il vertiginoso susseguirsi di identità tutte provvisorie e parziali, ad aver sempre messo in crisi l’attenzione critica nei confronti di quello che già Pavese definì «il nostro miglior narratore del dopoguerra». Il suo essere sempre e fino in fondo uomo di spettacolo, anche quando negava lo spettacolo (come in Umberto D. , che fu come Sciuscià e Ladri di biciclette , grandi incassi nel mondo, un fiasco cocente in Italia, ma gli diede la soddisfazione di veder piangere a calde lacrime Charlie Chaplin).
E poi, peccato mortale per i nostri chierici, c’era il coesistere di regista e attore, che dopo la serie Pane, amore e fantasia e il famoso Processo di Frine (in Altri tempi di Blasetti) diventò contraddizione e frattura insanabile agli occhi di una cultura troppo smaniosa di ordinare e catalogare per poter capire . Anche se a ben vedere una chiave l’avrebbe offerta proprio De Sica in uno dei rari film della maturità nei quali era iniemne regista e attore, L’oro di Napoli . Ed è naturalmente l’episodio del conte che si gioca l’intero palazzo a carte col figlio del portiere. Finendo - metaforicamente - per rovinarsi, lui, nobile (cioè attore e autore) e per lasciare il campo a quel bambino, simbolo di tutti i bambini, di tutti i non professionisti, di tutti gli attori “presi dalla strada” che i suoi film avevano restituito all’Italia.
Da Il Messaggero, 8 novembre 2004
La stazza era decisamente quella del cineasta di talento. L’eleganza quella tipica dei grandi divi. Il fascino, indiscutibilmente quello del gentiluomo rubacuori, Per questo oggi, a ventiquattr’ore dal trentennale della sua scomparsa — che sarà ricordata un po’ ovunque, dal palcoscenico alla rassegne sparse qua e là, fino agli scaffali delle librerie pronte a rispolverare note biografie e a pubblicare inediti prolificati a suo nome — ci manca irrimediabilmente quella sua maschera tenera e beffarda, irresistibilmente furba Quella sua sapienza popolare dispensata in canzonette d’epoca, pièce datate o titoli d’antologia, ma sempre giocata sul terreno della spettacolarità intelligente. Dell’impegno autoriale. Per tutti questi motivi, allora, e per quell’alone di inspiegabile unicità che spesso circonda le personalità speciali, quando Vittorio De Sica, già nel 1940, dirige «Rose scarlatte», è almeno da quasi un decennio un attore affermato: il pubblico lo riconosce anche sotto le mentite spoglie del giornalaio pronto a dilapidare tutti i risparmi messi via a fatica per seguire una scombinata banda di ricconi da un grande albergo all’altro (Il signor Max). Fa il tifo per lui se nelle logori vesti di un semplice impiegato, con gli sci in collo appena comprati, parte per la montagna e già al bar della stazione incontra una ragazza sprovveduta quanto lui che ha l’inequivocabile charme di Assia Noris. e se rie innamora (Grandi magazzini). Magari gli crede un po’ meno quando indossa le lenti del cinico (La peccatrice), o quando si improvvisa tenerello alle prime armi e l’oggetto del suo amore è magari, come in Manco Lescaut, meno virtuosa dei dovuto. Insomma, non è l’eroe alla Nazzari. Non è un playboy quanto Rossano Brazzi. Ma De Sica seduce. Convince. Appassiona. Con una leggerezza e una intensità che, dal debutto all’addio, avrebbero sempre caratterizzato il suo impegno sul set, sia davanti che dietro la macchina da presa, lasciando che tra le sue dita confluisse sinergicamente, e in perfetta osmosi, tutto il fraseggio tipico della grammatica spettacolare di casa nostra, dal teatro leggero alla canzone, passando per il cinema, l’avanspettacolo, il repertorio drammaturgico colto, il gusto, quasi gigionesco, per la recitazione e, non ultima, l’influenza — in termini dì umori intellettuali e di sapori sociali — della città di Napoli, microcosmo privilegiato di fervore culturale e umana quotidianità, sincretico crocevia di commistione tra riflessioni alte e più prosaiche consapevolezze. Forse anche per questo, nei cinema e altrove; per i personaggi che interpreta per le storie che privilegia, tutti lo considerano un napoletano doc, mentre invece lui è nato a Sora, una paese della Ciociaria, il 7 luglio dei 1901. La famiglia lo aveva destinato, per studi e necessità, alla carriera di ragioniere ma lui per sé meditava ben altro. Tutto quello che, tra compagnie di giro e debutti cinematografici, tra commedie di gusto francese e drammi veristici, tra riduzioni dai classici e ardite reinterpretazioni lo avrebbe, nel tempo, portato ad essere quello che Vittorio De Sica è stato e ancora rappresenta: un uomo di spettacolo profondamente italiano, lontano — per sensibilità artistica e scelte estetiche — dal più facile consumismo commerciale. Un cineasta pronto a rimettere in discussione convinzioni registiche e traguardi istrionici in nome di nuova linfa ispiratrice attraverso cui rigenerare il cinema prima ancora che il suo ruolo o la sua immagine. Ruolo e immagine che, saltando dal set di un film alla scena della sua vita, tendevano — come nel più tradizionale dei copioni ispirati a un personaggio come lui — a fondersi. Tolto il trucco, insomma, sotto c’era il viso di un uomo a tratti debole eppure determinato, capace di prestare eleganti fattezze e credibilità istrionica al bravo ragazzo come al viveur scavezzacollo. Al dongiovanni impenitente e allo scapolo d’oro a un certo punto pronto a dirimersi. Sotto quegli strati di cerone, allora, fu Mario Camerini prima di tutti a intravedere tutto quell’enorme potenziale. A cavare, dall’attore che sorrideva al pubblico nel suo impeccabile abito da mondano, il bravo ragazzo della porta accanto e dai buoni sentimenti: il regista, che stava cercando l’interprete per il suo Gli uomini, che mascalzoni!, andò a teatro e scelse, contro il parere risolute: dell’intero settore produttivo, quel ragazzo alto, dal naso lungo che, da quel debutto in poi — arrivato dopo una gavetta che non aveva risparmiato a De Sica incursioni nell’avanspettacolo e nel teatro di genere — avrebbe raggiunto ben altre mete. Quel titolo, infatti, sarebbe stata la prima tappa di un lungo e brillante cammino artistico che avrebbe portato De Sica a battere i sentieri lunghi ma fortunati delle commedie cinematografiche semplici ma mai dozzinali, di facile fruizione eppure mai esenti da preziosi riferimenti sociali, Così come più tardi, la scelta di tematiche civili e l’adozione di linguaggi espressivi che hanno siglato a caratteri di fuoco la sua produzione autoriale, lo avrebbe portato a percorrere itinerari creativi più difficili e innovativi che hanno contribuito alla, creazione dei suo mito e alla sua internazionalità. Per il De Sica attore, infatti, prodigarsi come interprete, giovane, talentuoso e affascinante, capace di affrontare qualunque difficoltà ordinaria e di ridimensionare ogni problema quotidiano al più gestibile intoppo nello svolgimento di bonari raggiri amorosi, ha lo stesso significato che ricopre, per il De Sica autore, essere il protagonista che, dietro la macchina da presa, denuncia verità drammatiche, realtà scomode, analizzate, passo dopo passo, entrando fin nell’intimità più nascôsta delle cose. Immergendosi dentro le situazioni e calandosi al fianco !dei personaggi con uno sguardo d’autore che non tradisce mai freddezza! espressiva o distacco emotivo ma che, al contrario, trasuda curiosità e confessa complicità. E per questo, sia che rivesta il molo dei protagonista di Questi ragazzi di Mario Mattoli, sia che muova le fila registiche di un capolavoro come Ladri di biciclette o Umberto D., De Sica mette al servizio della settima arte la sua maestria. In più di centoquaranta interpretazioni sul grande schermo. In trentuno film firmati come regista, e, tanto per tirare le somme, tradotti in cinque Oscar attribuiti alle sue opere e in riconoscimento a una carriera che ha saputo ingentilire il disimpegno, omaggiare la leggerezza, guardare più in profondità. E che, quando gli è possibile, porta De Sica a gettare su elementi altamente spettacolari qualche granello dei sale del vecchio e scaltro neorealista. Come nell’Oro di Napoli, titolo in cui il regista, impegnato tra l’altro nell’indimenticabile oltre che autoironico episodio della partita a carte de I giocatori, lavora con freschezza e verve autoriale sulle festose invenzioni di Giuseppe Marotta; o come ne La ciociara, titolo che imprime idelebilmente su celluloide un irripetibile sodalizio, durato decenni, quello tra il regista e Sophia Loren, e l’inimitabile maestria di un autore eclettico quanto caparbio, capace di gestire e utilizzare artisticamente tutti i linguaggi del cinema. Tutta la gamma dei sentimenti. Capace di maneggiare storie corali e ritratti d’ambiente e di nobilitare soggetti semplici e al limite del bozzettistico, come nel caso de Il giudizio universale. Di aggiungere a una già nutrita galleria di eroiche vittime del quotidiano altri irrinunciabili volti, come quelli dell’indimenticabile Sordi protagonista del Boom; o come quelli di Mastroianni e della Loren al centro del controverso plot dei Girasoli.
Da Il Secolo d’Italia, 12 novembre 2004
Dopo il successo di Miracolo a Milano, Vittorio De Sica ha seguito vie non di rado contraddittorie in cui, pur mantenendosi saldamente legato a quell'ispirazione lirica da cui erano nati i suoi film migliori, ha accolto suggerimenti non sempre riconducibili ad una concezione unitaria del cinema. Con risultati a volte egualmente felici, a volte abbastanza discutibili.
La sua collaborazione con Cesare Zavattini continua, e in maniera costante, consentendogli di approfondire sempre più il mondo delle idee e delle polemiche contemporanee, innestandolo spesso ai filoni più rigogliosi della migliore letteratura e della cultura più moderna e impegnata. Come largamente dimostra anche Umberto D. , un film che, pur qua e là discontinuo, ha permesso a De Sica di risolvere cinematograficamente, con pagine addirittura esemplari, il soggetto propostogli da Zavattini. Un soggetto, a dire il vero, non sempre molto plausibile, tutto impostato com'è sul dramma di un povero pensionato nei confronti del quale gli uomini si comportano regolarmente come animali feroci (a differenza degli animali che invece, gli si rivolgono con sentimenti quasi umani). Perché, però, gli antagonisti di Umberto D. sono creature così belluine e perché mai si è pensato di venircelo a raccontare? Il film non risponde in modo convincente dato che la storia di Zavattini, pur descrivendoci un modesto episodio di « vita vissuta », mirava a raggiungere posizioni letterarie in cui realtà e fantasia agiatamente si fondessero alla luce di climi allucinati e irreali; in questo caso la cattiveria avrebbe avuto una sua spiegazione e, forse, la sua descrizione avrebbe potuto rasentare la poesia.
De Sica, invece, ha fedelmente riprodotto l'episodio - e la sua regia, nei particolari tutti veri, ha raggiunto sovente nitide e delicate atmosfere - ma ne ha a volte frainteso gli interni motivi di irrazionalità, cadendo nell'artificioso e nel gratuito (in questo aiutato dal sovrabbondare, nel testo, di elementi narrativi non sempre molto chiari).
Restano però a suo onore delle pagine di stile degne della più viva considerazione, a cominciare da quel risveglio della servetta al mattino in cui la minuziosa osservazione realistica raggiunge effetti delicatissimi, umani, concreti.
L'anno seguente, 1953, ecco Stazione Termini, un film che, pur avendo alla base gli stessi presupposti realistici degli altri film di De Sica, è indebolito in partenza da un incontro, per i tempi ancora prematuro, con il cinema di Hollywood, presente non soltanto come apporto produttivo, ma anche con due fra i suoi più celebrati interpreti del momento, Jennifer Jones e Montgomery Clift.
Una giovane americana di Filadelfia, Maria, viene a vivere qualche tempo a Roma, presso una sorella. Qui nonostante in America abbia un marito e una figlia, si innamora di un italiano, Giovanni, e per un mese dimentica tutto al suo fianco. Un giorno, di colpo, l'assale, con i rimorsi, il ricordo della famiglia lontana, e decide di partire. Giovanni la raggiunge alla stazione e tenta invano di convincerla a restare. L'andirivieni dei viaggiatori, i treni, i piccoli incidenti quotidiani di una grande stazione fanno da sfondo a questo concitato colloquio fra i due che, pur volendo la stessa cosa - restare uniti - finiranno per separarsi.
In questo colloquio, ora drammatico, ora tenero, ora violento, ora romantico, consiste tutto il film che fa esattamente coincidere la sua durata con la durata dell'azione. Quando ha dovuto opporre l'uomo e la donna nel dolore e nell'impeto della loro passione, De Sica, si è dimostrato sensibile psicologo e osservatore attento e preciso; quando invece ha suscitato attorno al dramma centrale la rumorosa cornice della stazione (il cui clima, o indifferente o svagato, doveva naturalmente contrastare, secondo l'esempio celebre del Diavolo in corpo, con lo stato d'animo dei due protagonisti) si è limitato a dar vita a una modesta galleria di tipi umani, caratterizzati spesso con una certa imprecisione.
Il voluto e troppo realistico rispetto dell'unità di tempo e di luogo, d'altro canto, se per un verso è parso maggiormente concentrare la tensione drammatica, per un altro, esigendo molti dialoghi chiarificatori sugli antefatti, ha favorito nel racconto troppe stasi e in seguito ha necessariamente diluito l'azione in tanti episodi minori che, il più delle volte, sono apparsi abbastanza artificiosi.
Comunque, anche se qua e là si può restare sconcertati dalla singolarità del film e dalle sue pause eccessive, non si può a meno di farsi convincere all'emozione dal doloroso clima che grava attorno al tormentoso addio dei due amanti e dall'acerbo rigore con cui i due interpreti americani, sapientemente indirizzati ad una recitazione realistica, hanno saputo dar volto e drammatica consistenza alla loro disperazione.
Più vicino, invece, alle corde di De Sica - di quel De Sica che nelle sue origini meridionali ha sempre trovato gi spunti più sinceri e più caldi per la sua ispirazione - L'oro di Napoli, realizzato sulla scorta di alcuni racconti di Giuseppe Marotta costruiti su tutta una galleria di personaggi a volte strambi, a volte singolari, ma sempre, nella loro malinconia e nella loro drammaticità, umanissimi e perfetti: come umana e perfetta è quella cornice napoletana che li circonda piena di forza e di vita, anche se priva di gaiezza.
Il film (anche questo sapientemente sceneggiato da Zavattini) si rifà a cinque di questi racconti con un tono e una cadenza quasi crepuscolari che, almeno in parte ne spengono il calore di cui li aveva rivestiti l'autore letterario.
Il primo episodio ci narra dell'atto di forza con cui Don Saverio, un pazzariello, riesce finalmente a liberarsi da un guappo che, per anni, si è installato in casa sua, brutalizzando lui, la moglie e i suoi figli; il coraggio, Don Saverio lo trova solo quando crede il guappo ma, lato, ma anche dopo, quando l'altro ritorna e dichiara di essere in buona salute, la famiglia, superato ormai il terrore che egli le incuteva, tutta unita gli tiene testa bravamente.
La vicenda, forse, è la più completa di tutte; nar. rativamente è dosata con molta fermezza, e la sua cornice di poveri vicoli, povere case, povere piazzette, è quanto mai concreta, accesa, efficace; le dà anche più colore la presenza di Totò nelle vesti del pazzariello un'interpretazione attenta ad esprimerci, nella misura e nell'equilibrio, il tormento del debole, prima, e, dopo, la sua ancora timida e spaurita rivolta.
Altrettanta vivacità, ma sapori forse un po' troppo caricaturali, rivela il secondo episodio, tragicomica vicenda di un anello prezioso che una bella donna dimentica in casa del suo amante e che il marito, pizzaiolo, crede di avere cucinato assieme con le pizze: da cui la ricerca affannosa di tutti quanti hanno acquistato pizze quel giorno.
C'è molto colore, molto ritmo, molta disinvoltura, ma tutto è tenuto su una nota alta e dal piano della commedia rischia sovente di scadere in qúello, sia pure divertente, della farsa.
Semplice intermezzo, invece - ma preziosissimo - il terzo episodio, quello di un vecchio patrizio maniaco che gioca a scopone col figlio del portiere e si infuria quando perde: ha il merito lucidissimo di una partita a carte tutta imbastita, fra silenzi, pause e smorfie, sulla recitazione maliziosa di De Sica e sù quella, gustosissima, di un imbronciato bambinetto.
Notturno, decadente, quasi gozzaniano, l'episodio di Teresa, la prostituta che un riccone sposa solo per punirsi di essere stato causa involontaria del suicidio di una ragazza: è tramato di acute notazioni psicologiche e anche di ironia, ma stenta ad avere una vera consistenza drammatica. L'ultimo episodio è solo un epilogo e ci caratterizza la figura di un « venditore di saggezza », un suonatore di chitarra visitato in casa da tutta una clientela di persone desiderose di avere consigli da lui.
C'è, però, in tutti questi episodi messi insieme, un elemento comune, una nota precisa, un valore che poeticamente li trascenda? Forse c'è Napoli, la sua gente, il suo dolore, la sua scarsa anche se tanto decantata allegria, ma nonostante la sapienza stilistica di De Sica, nonostante lo splendore di un linguaggio che sa dare vita e calore anche alle pietre di una strada, si stenta a prestarvi fede del tutto, quasi ogni cosa rimanga sul piano perfetto, ma esteriore, dell'esercitazione.
Due anni dopo (1956), ecco De Sica tornare, forse per l'ultima volta (con Il Tetto), a un realismo minuto e gentile, soffuso da un sentimentalismo quasi deamicisiano (nonostante l'asprezza di una certa polemica), raccontandoci le vicissitudini familiari di Luisa e Natale alla disperata ricerca di una casa dove riparare dopo le nozze.
Nello svolgerle, egli si è preoccupato soprattutto dei due personaggi centrali, disegnando con affettuosa intuizione l'animo ardito, un po' prepotente e testardo di Luisa, e quello invece incerto, spesso intimidito, ma comunque buono e sincero di Natale; ha dosato con cura le loro reazioni, studiandone attentamente ogni passaggio psicologico, accordando con serenità e misura le loro indoli e le situazioni che li hanno al centro, cercando di ottenere per loro comprensione e simpatia: come all'inizio, quando si sposano nella più squallida miseria e in tutta fretta vanno a trovare il padre di lei che non voleva quelle nozze e dopo, quando cominciano i primi disagi nella casa di lui; o quando costruiscono in fretta, nel cuore della notte, la casa abusiva in cui andranno ad abitare.
Certo la fragilità della vicenda è un difetto quando non la si sostituisce con l'intensità drammatica: e questa sostituzione, nel corso del racconto, non accade troppo spesso; le figure di contorno, infatti, sono in genere appena abbozzate, alcune addirittura non si giustificano, o appaiono soltanto come « presenze »: il gruppo dei muratori, ad esempio, che in gara solidale aiuta la coppia a costruire la casa o lo stesso gruppo dei parenti; se i loro tenui valori psicologici fossero stati riscattati da un clima costantemente vibrante e poetico, li avremmo accettati meglio e ci avrebbero indotto a seguire con più commozione le vicissitudini di Natale e Luisa.
Anche così, però, nonostante questa fragilità narrativa e nonostante una scarsa vivacità di trovate e di episodi, il film rivela buoni pregi formali e merita di essere ricordato anche oggi per la sapienza del suo stile e la solidità della sua tecnica.
Dopo quattro anni di silenzio come regista, De Sica nel 1960, trova il modo più felice per adattare all'ispirazione letteraria il suo credo realistico curando, con Zavattini, la riduzione cinematografica di uno dei più celebri romanzi di Alberto Moravia, La ciociara.
Il romanzo ci dava il quadro terribile degli ultimi mesi di guerra nel Lazio, visto attraverso gli occhi di una ex-contadina che, sfollata da Roma sulle montagne di Fondi con la figlia dodicenne, dopo aver duramente lottato contro la carestia e la fame, doveva assistere, a liberazione avvenuta, al dramma della figlia che, violentata dai marocchini, diventava una poco di buono; lei stessa, preda del bisogno, arrivava fino a rubare, ma poi il dolore per la morte di una persona cara e, soprattutto, la contemplazione di tutto il dolore rimasto a retaggio della guerra, la aiutavano, purificandola, a ritrovare le vie dell'onestà.
La forza del romanzo era nella descrizione spietata delle privazioni che la guerra imponeva anche ai civili ed era soprattutto in quel personaggio di ciociara che a queste privazioni cercava di far fronte a volte con avidità, a volte invece con una generosità rude e sincera che le consentiva, alla fine, di superare le prove più difficili.
Il film evita di mettere direttamente l'accento sul carattere della protagonista e, soprattutto, sul mutamento di quello della ragazza dopo l'oltraggio dei marocchini, e rinuncia, di conseguenza, ad accogliere quella morale del dolore che purifica con cui Moravia conduceva il suo racconto. Il suo tema, invece, sveltamente ripreso per sommi capi dalle principali linee narrative del romanzo, è la guerra, con l'ansia dello sfollamento, la paura dei tedeschi, la precaria sicurezza dei primi giorni di liberazione; la donna è al centro dell'azione non tanto per giudicare questa guerra, ma per patirla tutta, nelle carni proprie e in quelle della figlia, sorretta soltanto da un disperato istinto di conservazione.
In questi patimenti il film scrive le sue pagine più nude, più desolate, più scarne, a cominciare da quella terribile, ma venata di asciutto riserbo, della violenza dei marocchini. Forse, dati gli argomenti, ci si sarebbe attesi un più alto senso di tragedia, una violenza espressiva che rievocasse ad ogni immagine l'angoscia, l'orrore ed il terrore di quei giorni (soprattutto in quanto « sentiti » da due fragili donne). De Sica, invece, ha preferito un clima descrittivo più raccolto, più quieto, tenuto quasi su una corda sola e, salvo per la scena iniziale del bombardamento di Roma e per quella dell'oltraggio, si è imposto uno stile limpido e tranquillo, attento solo a mettere realisticamente in evidenza quelle desolate cornici di montagne e di campagne e quel coro affannato di contadini e di sfollati tra i quali spicca, con colorito risalto, l'impetuosa semplicità della protagonista.
Meno convincente come film, ma altrettanto degno di nota dal punto di vista della regia, Il giudizio universale, sempre su soggetto di Cesare Zavattini.
Quale giudizio universale? Quello vero, misterioso e tremendo, descritto da San Giovanni? No, uno « tutto da ridere », sempre a cavallo tra la satira, il balletto e il grottesco.
È ambientato a Napoli, la città dove tutto è possibile, dove si può ridere con la morte e piangere con la vita. Si prepara per la sera del giorno in cui l'angelo comunica un gran ballo e tutti (o quasì) ne sembrano affascinati: i giovani perché vi troveranno occasioni per incontri d'amore, gli anziani perché potranno continuarvi con profitto i loro affari. All'improvviso, però, un vocione dall'alto ammonisce: «Alle ore 18 comincia il Giudizio Universale! ». Sulle prime nessuno vi dà ascolto, ma dopo, dato che la voce continua, anche quelli che avevano pensato a qualche trovata pubblicitaria si ricredono e si lasciano invadere dal terrore, rivelando una disparità di reazioni e di caratteri su cui, via via, viene a costruirsi una serie coloratissima di episodi. Proponendoceli, De Sica ha fatto in modo che l'intero racconto, pur evocato nel realistico sfondo di una Napoli tetra di paura e d'inverno, svelasse sempre un clima di « favola metafisica », vicino a volte all'incubo e al sogno, aperto altre volte alla commedia, alla farsa, al balletto. Un balletto che ci offre i suoi momenti più lievi (quasi alla Clair) nell'episodio di un diplomatico alle prese con un domestico che bistratta; un balletto che, divenuto danza e « cantata », si scioglie in larghe cadenze corali nell'episodio di un americano razzista che, dopo una « ninna-nanna » di pentimento per un piccolo negro, riveste di canto e di musica gli episodi che seguono. Fianco a fianco al balletto c'è la caricatura e c'è la commedia sentimentale, e quella malinconica, e quella moralistica; risolte ogni tanto con una approssimazione narrativa che, specie nella seconda parte - troppo debole dopo la vigorosa preparazione iniziale - attenua un po' l'ampio respiro del racconto. Questo difetto, però, è spesso ampiamente riscattato dalla cura con cui De Sica - con una regia tra le sue più sostenute e più fertili - ha costruito attorno alla vicenda quella prestigiosa cornice napoletana fatta di vicoli, «bassi», crocicchi neri di pioggia, e la vivacità con cui, anche alle macchiette, ha saputo conferire un piglio umano carico di significati.
Il film, così, nonostante le sue esitazioni narrative, si impone non foss'altro perché costituisce il primo esperimento di introdurre nel cinema, con risultati compiuti, il « grottesco » teatrale.
Dopo la farsa allegra e un po' sboccata dell'episodio La riffa (1961) inserito nel film a episodi Boccaccio '70, nel 1962 De Sica affronta un autore abbastanza estraneo ai suoi modi e alla sua mentalità, Jean-Paul Sartre. Discussa e discutibile, la sua riduzione dei Sequestrati di Altona resta comunque una testimonianza -del suo valore come regista.
I sequestrati di Altona non era certo il dramma più solido di Sartre, ma era fra quelli in cui, con più fermo rigore e con logica più serrata, si affrontavano i temi tanto dibattuti della responsabilità collettiva e della giustificazione dei propri atti di fronte a se stessi ed ai posteri. Suo protagonista era il figlio di un potente industriale tedesco che, durante la guerra, non aveva esitato a diventare un torturatore; tornato a casa, l'incubo della punizione e il contrasto fra il suo fanatismo distruttore e la rapida rinascita del suo paese lo avevano indotto a rinchiudersi in volontaria prigionia nella villa dei suoi, avvicinato solo da una sorella cui lo legavano torbidi rapporti. Il padre, in procinto di morire per un male incurabile, volendo strapparlo a quella segregazione prossima ormai alla follia, chiedeva alla moglie del figlio minore di metterlo di fronte alle sue responsabilità chiarendogli, fra l'altro, la verità sulla ricostruzione tedesca che egli, per giustificare le sue rinunce alla vita, non voleva conoscere né ammettere. Il giovane, però, quando prendeva atto della realtà e la vedeva in così violenta contraddizione con i suoi crimini passati, preferiva darsi la morte, con il padre, in automobile.
Questi personaggi servivano a Sartre per alimentare la sua polemica contro le dittature, le sopraffazioni, gli egoismi e per approdare, attraverso un dovizioso sfoggio di simboli, alle sue consuete affermazioni esistenzialistiche, con uno stile che, pur concettoso e verboso, pure incline ai lunghi monologhi ed alle perorazioni prolisse, riusciva, spesso, ad imporsi allo spettatore anche per le cadenze singolarmente cinematografiche con cui erano risolte sulla scena le molte rievocazioni del passato del protagonista.
Potevano, queste cadenze, offrire qualche appiglio a chi, senza preoccuparsi di certe astrusità del testo, si accingeva a tradurlo su uno schermo? A prima vista si sarebbe detto di sì, ma a giudicare dalla riduzione che hanno invece proposto a De Sica gli sceneggiatori Abby Mann e Cesare Zavattini, si è portati a dire di no. Perché? Intanto perché i due sceneggiatori hanno risolto solo con i dialoghi, e cioè teatralmente, proprio quelle rievocazioni che Sartre, invece, aveva visualizzato, e poi perché, volendo stringere, essenzialmente, chiarire, hanno ridotto il dramma così all'osso che i personaggi per un verso hanno perso le loro vere dimensioni tragiche, e per un altro verso si sono trasformati in facili emblemi adoperati solo in funzione di esteriori e immediati contrasti.
Ne è scaturito un racconto quasi più teatrale del testo scenico, in alcuni momenti più statico e in altri, nonostante le delucidazioni e le varianti narrative spesso esagerate o gratuite (come nel finale e nelle intellettualistiche divagazioni sul palcoscenico del Berliner Ensemble), più oscuro dell'opera originale. Con un pregio, però, e non dei minori, la regia, anzi, la « messa in scena » di Vittorio De Sica: viva, moderna, sorretta costantemente da un'intima necessità di rinnovamento linguistico; come testimoniano sia la pagina iniziale, che in un'atmosfera di crepuscolo nibelungico ci introduce nel chiuso tormento del vecchio despota impotente di fronte alla morte di cui ha avuto l'annuncio, sia alcune di quelle in cui lo schema fisso del teatro, scarsamente rinverdito dalla sceneggiatura, appare vinto e riscattato dal puro gioco ritmico delle immagini.
Oggi De Sica, dopo aver realizzato (ancora un volta su soggetto di Zavattini) Il boom, protagonista Alberto Sordi - un ritorno ai temi concreti della cronaca contemporanea, quella da cui ha- sempre tratto le sue migliori ispirazioni poetiche - ci ha dato, sul piano della commedia, un gaio film a episodi, Ieri, oggi, domani, in cui, pur rivelando solo un gusto facile per la farsa, si è imposto, con amenità, nel campo, solo in apparenza aperto a tutti, dello spettacolo leggero; e sul piano di quella commedia di costume napoletana che spesso gli è stata congeniale, Matrimonio all'italiana, tratta dal notissimo Filumena Marturano, di Eduardo De Filippo: un film di stile abbastanza tradizionale, indulgente con gli effetti più facili dello spettacolo popolare, ma intimamente sostenuto da una passionalità e da un ardore meritevoli, almeno, del consenso delle platee; se non proprio di quello, senza riserve, della critica.
Nonostante le contraddizioni di un cammino spesso ostacolato da ritorni all'indietro, da remore letterarie, da contaminazioni tra la propria calda ispirazione e l'arida polemica altrui, De Sica resta così uno dei registi più significativi del nostro cinema: soprattutto per la sapienza di una tecnica che, quando non è ostacolata da suggerimenti a lui troppo estranei, diventa stile; uno stile solido, rigoroso, esemplare.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
«Evitava l’ideologia stretta, andando alla ricerca di un’umanità pura». Sono bastate poche parole a Gianni Arnelio per tracciare un profilo capace di esprimere quell’impegno etico di Vittorio De Sica che André Bazin l’indimenticabile critico di Esprit, padre putativo di Truffaut e di buona parte della nidiata della Nouvelle Vague) attribuiva ai film del Neorealismo, ma soprattutto alle opere di De Sica e Rossellini, che avevano incarnato al meglio l’essenza del cristianesimo.
La tensione morale di De Sica (il 13 novembre ricorrono i trent’anni dalla morte) era alimentata da un sentimento che affondava le sue radici nel dovere: il sentimento di sentirsi vicino alla gente e il dovere di esternarlo. Come? In una vocazione che si manifestava attraverso l’istinto dello spettacolo e che cominciò a farsi sentire quando De Sica era ancora bambino. Racconta egli stesso nella bella biografia che gli ha dedicato Franco Pecori nella collana Il Castoro Cinema: «Nel 1911 ci fu un’epidemia di colera. Le autorità avevano proibito di mangiare fichi. Mia madre se ne rideva e continuava a scendere nei bassi per procurare fichi a tutti noi. Restavo di vedetta nel vicolo, per poter dare l’allarme. Una volta arrivarono due carabinieri e io iniziai a cantare Torna a Surriento, mentre alle mie spalle le ceste venivano fatte sparire. I carabinieri mi dissero: “Bravo, guaglio’, continua!”, mentre il tramestio nel basso non accennava a finire. Per prendere tempo cantai tutto il repertorio napoletano».
Tanta predisposizione al teatro lo porta, ancora adolescente, a recitare nella compagnia di Angelo Musco e nel 1918, appena diciassettenne, a interpretare un ruolo nel film Il processo Clemenceau di Eduardo Bencivenga. La vita che allora conduce la sua famiglia, se non proprio misera, è perlomeno stentata. Il giovane Vittorio si divide fra la scuola, studi di ragioneria, e il teatro. Il suo primo fan è il padre. Vittorio ha 23 anni e potrebbe essere assunto alla Banca d’Italia, ma papà Umberto vede di buon occhio il suo ingresso nella compagnia di Tatiana Pavlova, sicuro che il figlio diventerà un bravo attore. Sul palcoscenico, il suo primo cavallo di battaglia è quello dei “bell’amoroso”, L’attor giovine dotato di fascino e simpatia; un molo che gli consente di conseguire un buon successo e che gli apre le porte dei cinema come interprete di alcune garbate commedie d’ambiente piccolo-borghese, firmate da Mario Camerini (Gli uomini che mascalzoni, Grandi magazzini).
E proprio alla lezione di Camerini si ispira per le sue prime esperienze cli regia. Quando si accinge a passare dietro la macchina da presa, con una trentina di film alle spalle, ha già un bagaglio di esperienza dei set non indifferente. Per lui la regia non è comunque un fatto tecnico — movimenti di macchina, obiettivi e luci — ma umano.
«Per mostrare i sentimenti che provavo, la faccia non mi bastava», disse una volta, «dovevo trasmettere le scosse del cuore».
Queste scosse del cuore aumentano il voltaggio quando trovano una potente presa di corrente in Cesare Zavattini. Un incontro che si dimostra subito vincente, a cominciare da I bambini ci guardano, e che si manifesta appieno nei capolavori dei Neorealismo (Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D.), in cui l’esigenza di sincerità e di solidarietà per un’umanità dolente, straziata dalle ferite ancora aperte che ha lasciato la guerra, si traduce in una testimonianza poetica di straordinaria intensità, sobrietà e compostezza. Da quel momento si sviluppa e si intensifica un’ininterrotta carriera intrecciata di regie (che culminerà in quattro Oscar: Sciurcià, Ladri di biciclette, Ieri oggi e domani, Il giardino dei Finzi Contini) e di interpretazioni, ben 147, che hanno lasciato ricordi indelebili.
Basterebbe ricordare il maresciallo della serie Pane, amore e fantasia, il truffatore del Generale Della Rovere che si riscatta con una superba priva di dignità, il nobile spiantato che si gioca fortune inesistenti con un ragazzino svogliato nell’Oro di Napoli ma anche le decine e decine di caratterizzazioni che trascendono la macchietta per farsi sapidi e gustosi ritratti di personaggi punteggiati di grottesca e fantasiosa ironia. Come lo scroccone del Segno di Venere o il nobile decaduto, pigmalione dell’edicolante Alberto Sordi nel Conte Max. Personaggi in cui Vittorio De Sica si divertiva a prendere in giro sé stesso e a farsi beffe di propri difetti come la gigioneria e il vizio del gioco.
«Ruoli che mi impongo per senso di colpa e dovere di espiazione», disse con un non indifferente senso di autocritica. «La sua dote più grande era un’umanità sorretta dallo spirito di carità», disse di lui padre Angelo Arpa, un gesuita molto amico di Fellini e parecchio addentro al mondo del cinema. Un’umanità che per non suonare falsa si specchiava nei suoi attori presi dalla strada e della quale hanno dato prova numerosi episodi e testimonianze. A cominciare dalle riprese della Porta del cielo, via via fino ai suoi sferzanti giudizi sull’esperienza hollywoodiana («Mi sento in una prigione dorata..., solo come un cane, con una grande malinconia addosso. Mi dicono: “Guardi la televisione”. Ma io voglio incontrare gente viva, non gente della Tv»). Senza trascurare i giudizi su sé stesso e sul proprio lavoro: «Non posso essere soddisfano di quello che ho fatto come attore e regista. Mi sono dovuto piegare a un tipo di cinema prettamente commerciale. I produttori non riescono a vedere alcuna poesia nei sentimenti degli uomini. Oggi vorrei riconquistare la mia indipendenza, il distacco dai mercanti di pellicole».
Da Famiglia Cristiana, 14 novembre 2004
La lettura del film di De Sica, Stazione Termini, richiede allo spettatore una certa consapevolezza. Stazione. Termini, probabilmente, non è una svolta rivoluzionaria, un ritorno alla norma, una conversione agli attori professionisti da parte del regista di Frosinone: è una vacanza, e, se si vuole, un ripensamento, forse una sosta, sull’intrapresa via di Damasco. Secondo Berenson, è stata una incongruenza, da parte del Caravaggio, l’aver concessa una maggiore importanza figurativa, nel dipinto famoso,. al cavallo che all’impetuoso cavaliere, ancora Saulo per brevi istanti, caduto per terra; opinione. discutibile, come ognuno sa. Ma ora non vorremmo cadere, per parte nostra, in un’incongruenza più evidente concedendo alla nuova scelta di De Sica (scelta di ambiente, di personaggi, di dialogo, di contenuti «non sociali») un’importanza maggiore di quella che essa abbia in effetti.
Da qualche anno si osserva nel nostro cinema più rappresentativo una inclinazione verso i valori borghesi. Cominciò il bravo Antonioni (cui l’infortunio de La signora senza camelie non dovrebbe levar credito) con Cronaca d’un amore, seguito dal nervoso, ambizioso, insufficiente, ma interessante Europa 5di Rossellini, cui s’è aggiunta un’opera equilibrata e riuscita come La provinciale di Soldati. A questo gruppo si può attribuire, con qualche latitudine, l’intelligente ma difettoso Bellissima di Visconti. Non è chi non veda, da questo elenco, come il nostro cinema, mostrando tanti segni di vitalità, possa incoraggiare le migliori speranze.. L’ultimo a convertirsi è stato De Sica; anche se i suoi zelatori più interessati son lì a suggerirci che si tratta di una conversione forzata, come quella, strappata ai marrani, o poco meno, dai monaci dell’Inquisizione. Eppure qualche elemento c’è, poco chiaro. Il soggetto è stato concepito da Zavattini, in chiave «italiana»; secondo l’idea originale, la protagonista è un’adultera che, pentita e soprattutto vogliosa della sua bambina (press’a poco la situazione di «Anna Karenina», con lo smarrimento di Wronski in meno), lascia l’amante, innamoratissimo, che invano cerca di contrastarle la partenza con gli argomenti soliti in questi casi. A rigore, Zavattini avrebbé ammesso anche la presenza di una straniera, ma che avesse caratteristiche, tali da far comprendere in pieno la smania dell’amante frustrato: Linda Darnell, per esempio. La scelta di Jennifer Jones che, malgrado il giuoco stravagante di Duello al sole, non è un’attrice «sexy» ma un’intellettuale con un sospetto di isterismo, ha legittimato in un certo senso il diverso andamento del racconto.
L’aneddoto è semplice. Una signora di Filadelfia, Mary, sposa tranquilla e madre felice, visita una sorella a Roma: Così incontra un giovane professore italiano, Giovanni. È il «coup de foudre»; sta per cedergli, poi fugge. Il film si svolge nella stazione Termini; ed è la narrazione dei tentativi di Giovanni per impedire a Mary di partire. Nello sfondo la vita di una grande stazione, piena di frastuono, di inquietudine, di gesti evasivi. Giovanni sta per vincere, ha guidato la signora in un vagone deserto; ma la polizia ferroviaria interviene, burocratico volto del Fato. Mary ritorna a Filadelfia, tra le solide mura del conformismo yankee, a tener compagnia a un marito indaffarato, ad allevare una figlia, futura cliente di medici psicanalisti; Giovanni rimane solo. È un bel giovane, simpatico ed intellettuale; con quel velo di malinconia, retaggio. della passione defraudata del suo oggetto, non gli manchèranno consolatrici.
L’obbiezione che si tratta di un Breve incontro (il famoso film di David Lean) con protagonisti non crepuscolari ma vittoriosi (essi perdono una battaglia, non la guerra della vita...) non solleva forti opposizioni, a patto che il secondo film non dipenda dal primo. È vero infatti che tutti gli argomenti si equivalgono: «Io prendo il mio bene dove lo trovo,» ha detto, mi pare, una volta per tutte, Molière. Noi troviamo che il difetto di questo film, per certi lati incantevole, consista in altro: nell’eccessiva importanza data allo sfondo, alle figure secondarie, a quel brulichio di formiche che, certe volte, vince il canto spiegato delle due folli cicale.
Ma forse conviene andare un tantino indietro. Con l’eccezione di Miracolo a Milano, dove la favola inciampa a ogni passo nei dati obiettivi della realtà milanese, De Sica, nei film del dopoguerra, non ha mai fatto una stecca. In Sciuscià e in Ladri di biciclette, mestiere, tempo narrativo, poesia han marciato di conserva; c’è, è vero, in Umberto D., una certa sopraffazione; ma della materia polemica, non del linguaggio narrativo. Per nostro conto siamo persuasi che De Sica ha capito che i poeticismi e le «outrances» del Miracolo a Milano non erano materia specifica sua. Ha vinto dal punto di vista dello spettacolo, perché è un virtuoso ed ha infinita pazienza, ma non dal punto di vista dello stile. Mobbi e compagni non son materia congeniale: c’è troppo Di Giacomo in lui, e poco Daumier; né i risentimenti «sociali» hanno il potere di tramutarsi in animosità, in «vis comica», in ironia vitalistica come può avvenire nel suo geniale «coéquipier» Zavattini, provvisto, come si sa, del generoso e polemico sangue padano.
Perché De Sica ha diretto Stazione Termini? Difficile dirlo. Ricordando di avere, dopo l’epifania cinematografica de Gli uomini, che mascalzoni!, fermato la circolazione dei piccoli centri a causa dell’entusiasmo femminile, egli ha voluto probabilmente ripensare nostalgicamente il passato. Per un intellettuale che ha avuto con le donne una fortuna normale, il ricordo di qualche disfatta è, passati gli anni, una reviviscenza gioiosa: si risolve nella sottile, svagata, ineffabile poesia della gioventù. Non ci sono che i cerebrali che han consumato la vita fra i libri (fra i venti e i trent’anni ho vissuto come in un tubo, diceva il povero Pasquali) ad esclamare come Renan: «Come vorrei essere un bell’ufficiale degli ussari.» Un bell’ufficiale degli ussari potrebbe esserlo facilmente Montgomery Clift, un ufficiale però che passasse le notti di guardia a leggere De Vigny; mentre la Jones (come in Carne di Wyler, del resto) è stata disservita dalla parte. Mediocrità dei particolari, s’è detto, e vittoria della parte amorosa: il che equivale a dire che De Sica è riuscito nel «breve incontro» e non nella folla dei generici. Alla breve, limpidissima, intuizione dei mutolini, alla saporita apparizione dei preti americani, son succeduti episodi frusti, caratteri evanescenti, figurine di maniera. Per questo, crediamo, il film piace alle donne, che stanno al sodo, e irrita i maschi; ma con un’eccezione, vogliamo sperarlo, a favore della caduta di Clift nella conclusione del racconto, illuminazione stupenda. Ancora, di positivo, la portentosa fotografia di Aldo, e i dialoghi di Truman Capote. Vibra nelle parole dello scrittore di «Arpa d’erba» il ricordo degli incantevoli versi di Racine: «Dans un mois, dans un an, comment souffrirons nous, Seigneur, que tant de mers me séparent de Vous?» Si tratta di un film difettoso ma mai irritante; chi ama la poesia del Tasso e di Racine, non potrà essere severo con gli autori di Stazione Termini.
È curioso, son tutti così immersi nelle polemiche di ogni giorno, che sia sfuggito ai commentatori questo lato tradizionale del film di De Sica: quella sua struggente rinunzia,. quella costante eterna negli umani sentimenti che essa conferma. Il motivo insomma che Racine aveva preso a prestito dalla famosa frase di Svetonio: «Invitus invitam dimisit», ampliandolo nel dramma famoso. Con perfetta intuizione del vero, Racine aveva affermato che con la sua «Bérénice» «aveva fatto qualcosa di nulla». Anche De Sica ha fatto qualcosa di nulla. Che è un gran merito, a parer nostro (chi vuole, può fare il confronto con un altro film letterario: Le nevi del Chilimangiaro, di Henry King, dove, con enorme spesa e dispersione di forze, viene vanificato uno dei testi più cospicui della narrativa contemporanea). È, si badi bene, il trionfo dell’amore, perché gli amanti giungono al distacco disperati ed estenuati: e nessuno sforzo di volontà potrà cancellare nella loro memoria il ricordo di un episodio di gioventù pieno di struggente abbandono.
Al solito, vince colui che perde. Ad eterna vergogna del sistema industriale di Hollywood basti il fatto della scelta di Peck, come Hemingway ne Le nevi del Chilimangiaro; quando quella brava gente aveva a disposizione Clark Gable, già designato, sia pure sarcasticamente, dal sagace Edmund Wilson.
E come ultima osservazione, non è a dire quanto abbia conferito di verità e di poesia al dramma dei due poveri amanti (così solitari nel loro esclusivo sentimento, vero rapporto di «solus ad solam») il fatto che il regista ha tenuto fede ai canoni del realismo; vogliamo dire che la stazione è una vera stazione, i binari e i treni sono autentici, ecc. È infatti questa la conquista vera del cinema, in questi ultimi anni, l’apporto decisivo dei nostri registi. Quanto ai «contenuti» lasciamo pure liberi gli artisti di esprimersi come meglio sentono. Nella vita c’è tutto, dalla «socialità» all’amore, alla cupidigia, all’»evasione». Teniarnoci fermi all’esperienza del passato. Come diceva Gibbon alla Regina di Francia: «Utopia, Maestà, è tutto ciò che non si trova nella storia romana.» Come sanno anche i ragazzini, nella storia romana ci. sono molte cose: ci sono i Gracchi, Spartaco, le rivolte sociali, ma c’è anche Lucrezia e, appunto, Berenice e Tito.
Lui aveva trent'anni, io ventisei. Di passo concorde, sicuro, gioioso, scendevamo via Broletto, via Ponte Vetero, via Mercato, sul marciapiede destro. Era una mattina di aprile, a Fiera aperta. L'aria fresca, frizzante: ma sole vivo, chiaro, che già bruciava. L'indomani s'incominciava a girare Gli uomini che mascalzoni! soggetto di Aldo De Benedetti, che avevo sceneggiato con Camerini, per Camerini: ed ero preoccupatissimo di come sarebbe stato vestito il protagonista, Bruno, giovane meccanico disoccupato... Oggi, questi non sono più problemi. Oggi, il regista dispone normalmente di collaboratori specializzati, costumisti coi fiocchi anche quando il film non è in costume. E, per la verità, non sarebbe più stato un problema solo pochi anni dopo. Ma allora, ma nel 1932, un attore che doveva fare la parte di operaio, vestirlo credibilmente, senza sbagli, come nel 1932 poteva vestirsi un vero operaio, ebbene, pareva un'impresa difficile, rischiosa, coraggiosa: soprattutto un'impresa mai tentata prima, mai neppure pensata.
La notte precedente, De Sica e io avevamo accompagnato Camerini all'albergo. Sul portone (era l'Europe, al Corso), Camerini aveva detto a De Sica: «Domattina, vai con Soldati a scegliere il vestito».
E io, rimasto solo con Vittorio, avevo cominciato, esitando, con mille cautele, a spiegargli questa piccola rivoluzione iniziale che pareva così necessaria, a Camerini e a me, se volevamo girare un film con qualche possibilità di verosimiglianza.
Esitazioni? Cautele? E perché? Ma perché conoscevo abbastanza bene la mentalità degli attori del nostro teatro di prosa, per aspettarmi una ferma presa di posizione al riguardo. E De Sica recitava fino dall'età di sedici anni. De Sica, entrato in compagnia col ruolo di «secondo brillante» nel 1923, passato «primo attore giovane» nel 1927 con Gigetto Almirante, la Rissone, Tofano, era, ormai, «primo attore assoluto» dal 1930, nella Compagnia diretta da Guido Salvini! Per questo, temevo la sua reazione. Temevo, per dirla tutta, che De Sica mi rispondesse, come qualunque altro attore di prosa: «Non ti preoccupare, ho un paio di completi vecchi, grigi, un po' lisi, caso mai ci facciamo un piccolo strappo, qualche macchiolina... non ti preoccupare».
Temevo, ma come mi ingannavo! De Sica rimase ad ascoltarmi, attento, serio, totalmente compreso dell'importanza della cosa.
«Proprio perché tu», gli dicevo, «proprio perché tu sei un attore affermato, già famoso, di successo, devi vestirti da operaio con tutta la cura, con tutta la precisione».
Mi ascoltava, fissandomi coi suoi grandi occhi neri, dolci, seri, spalancati: l'immagine stessa dell'attenzione. L'attenzione, e cioè l'umiltà, la disponibilità, l'amore devoto al proprio lavoro, e in più quell'affetto, quel rispetto, quell'incondizionata ammirazione per le persone di cultura, che non lo abbandonò mai per tutta la vita; e che si collega certamente al suo straordinario destino; e che, anzi, lo spiega: un attore tradizionale del teatro di prosa e in seguito del cinema, che diventa regista di cinema, artista creatore di film, grande poeta del cinema!
Si badi bene che io ero, allora, ignoto: avevo pubblicato soltanto un libriccino di novelle e qualche saggio di critica d'arte. L'unico mio titolo era l'amicizia, già salda, che mi dimostrava Camerini. Ma De Sica sentiva, amava, ammirava, invidiava in me, sconfinando largamente oltre i limiti della mia persona, ciò che non era stato possibile a lui, i dieci o dodici anni che avevo dedicato completamente allo studio delle lettere e delle arti.
Incalzavo: «Vedi, tu puoi benissimo essere il personaggio del mio film: un operaio meridionale emigrato a Milano da qualche anno che in questo momento se la passa ma ha difficoltà a trovare lavoro. Come si veste questo operaio? Non credo che porti abiti che si è fatto fare da un sarto: a meno che non possieda ancora un abito che gli ha cucito un sarto al paese, in provincia di Frosinone o di Caserta... ma, con tutta probabilità, è venuto a Milano con la famiglia quando era ancora ragazzo e adesso quell'abito non gli entra più. Perciò... ».
«Perciò?», disse Vittorio: aveva certamente pronta la risposta anche lui; ma taceva, non voleva influenzarmi.
Non voleva influenzarmi per rispetto, come ho detto: e anche un po' per astuzia: perché pensava che, lasciandomi libero e autonomo fino all'ultimo, «avrei dato di più». Ecco, proprio questa è stata la grande astuzia, astuzia altamente artìstica, di Vittorio De Sica con i suoi collaboratori, autori, sceneggiatori, architetti, musicisti, costumisti, operatori, attori e attrici sia professionisti sia presi dalla strada: prima di tutto rispettarli, lasciarli fare, osservarli, studiarli, ascoltarli, ascoltarli pazientemente, e poi correggerli a poco a poco, in una successione, in una progressione di strenue prove, non rinunciando mai al massimo possibile risultato finale, e contentandosi solo di questo.
«Perciò», continuavo, «penso che bisognerebbe cercare, trovare, magari per la strada, un operaio più o meno della tua complessione, spiegargli la cosa, chiedergli che ci venda il suo vestito...».
E De Sica non si sottraeva. Ma il progetto, in apparenza così semplice, era di esecuzione difficilissimo: chi ci garantiva che, una volta trovato il tipo e fattolo spogliare, poi l'abito andasse bene a Vittorio? Probabilmente, sarebbe stato necessario comprare tre, quattro, cinque abiti: e non avevamo il tempo, dovevamo incominciare a girare dopodomani. Proposi allora, e De Sica accettò senz'altro, di andare a comprare l'abito dove l'avrebbe comprato un operaio. Non esistevano ancora i grandi magazzini di confezioni: o, piuttosto, quelli che esistevano, in piazza del Duomo e nelle vicinanze, erano per piccola e media borghesia, o per operai già specializzati. Ma avevo visto, passando in taxi
in via Pontaccio, o dopo via Pontaccio, delle vetrine con abiti che avevano tutta l'aria di essere a buon prezzo, dei grossi bottegoni quasi da mercato paesano che forse facevano al caso nostro.
Ecco perché scendevamo di passo concorde, sicuro, gioioso, via Broletto, via Ponte Vetero, via Mercato, quella meravigliosa mattina d'aprile del 1932, a Fiera aperta. Eravamo felici, felici del film che cominciava, e felici che cominciasse con una sceneggiatura che ci pareva buona e con un regista che ammiravamo e amavamo.
In via Mercato, poco prima di via Pontaccio, comprammo la giacca che Vittorio vestì nelle prime sequenze del film, la camicia e la cravatta. I pantaloni, li prendemmo da un elettricista della troupe. E il berretto... il berretto, ce lo siamo fatto dare da un passante.
Sulla giacca, è vero, abbiamo avuto un piccolo contrasto, Vittorio e io: una piccola discussione sulla misura: io la volevo normale, giusta per lui: lui, invece, due numeri più piccola. Era, certo, il suo istinto comico, corroborato dalla formidabile tradizione del teatro napoletano; era il suo training già lungo; era la sua seconda natura, che influiva così su di lui e che gli suggeriva di non cedere alla mia insistenza rigorosamente realistica.
«Due numeri di più, Vittorio! Questa!».
«No».
«Uno di più?».
«No».
Era, in fondo, il modello del guappo, e si ricollegava in qualche modo al fracchette di Charlot: e Vittorio lo aveva scelto irremovibilmente, contro il mio parere. Pareva infatti a Vittorio che il personaggio dovesse, sì, essere vero, ma vero anche con una sfumatura di ridicolo, di comico; la giacca troppo stretta, dalle maniche troppo corte e i polsini della camicia tutti fuori, era indice di povertà e, frattanto, faceva ridere. D'altra parte, De Sica era così giovane e così simpatico che continuava a dare un'impressione decisiva di avvenenza anche nelle situazioni e nelle condizioni più buffe. Aveva certamente ragione lui: il film era azzeccato, pieno di grazia, ma di un realismo bonario, sorridente, sfumato di ottimismo e di ironia.
Quella, era la giacca giusta per Bruno. La giacca che avrei voluto io, Vittorio la serbò nella sua fantasia, e la fece indossare nel 1948 a Lamberto Maggiorani, in Ladri di biciclette: film di verità vera, di amaro, struggente realismo, come, e forse più, di Umberto D.
Ladri di biciclette, il suo capolavoro. Ogni volta che ci penso, penso a Gide: quando, a Parigi, dopo una proiezione privata del film, Andre Gide, con il suo plaid di cachemire intorno alle spalle come un liturgico rocchetto, si alzò e andò ad abbracciare Vittorio, dandogli così la sua letteraria, quasi ecclesiastica benedizione. Ah, come avrei voluto essere io al posto di Vittorio! Come gli ho restituito, per quel momento supremo, l'invidia affettuosa con cui, sedici anni prima, lui soleva fissare me, un giovane letterato espulso dagli USA e disperato transfuga nel mondo del cinema.
23 novembre 1974
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
Beh, De Sica notoriamente era capace di far recitare anche un lavabo di marmo, e dalla Loren ha cavato prove d'attrice anche di molto superiori, come nella Ciociara o nell'Oro di Napoli.
Quanto ai “Girasoli”, l'ho visto quand'é uscito, ed era il '69, un bel quarto di secolo fa. Considero De Sica in assoluto il Migliore del nostro cinema, ma ricordo di aver trovato quel particolare film piuttosto imbalsamato e di maniera, molto “confezionato” per il mercato americano dove all'epoca sia Loren che Mastroianni erano “hot stuff”. Ricordo anche che qui il film andò malaccio come critica e botteghino, e solo un po’ meno peggio negli Stati Uniti. Eravamo tutti un po’ troppo insessantottati? Può essere.
Però tieni conto anche che in quegli anni il buon film medio italiano si chiamava Il sorpasso, o Un cittadino al disopra di ogni sospetto, e perfino C'era una volta il West. Lo dicevo proprio l'altro giorno: ne avevamo almeno una dozzina per stagione, e inevitabilmente il palato si faceva un po’ più fino. Capisco senza alcuna ironia che in tempi grami da Mediterraneo anche I Girasoli (ben fatto, ben recitato) possa apparire (e magari sia, al confronto) un film eccezionale. Ma come tutti gli ultimi di De Sica appartiene a un periodo “in calando”. Del resto è successo a tutti gli altri grandi, da Fellini a Visconti.
E, ancora più clamorosamente, a Rossellini, del quale Ennio Flaiano usava dire: “E mica possiamo far scoppiare un'altra guerra mondiale solo per fargli fare un altro bel film”.
Regista, ma prima attore, e prima ancora «napoletano» a tutti gli effetti, il giovane De Sica dalla Ciociaria raggiunge la capitale del sud e vi trova l'ambiente suo, che terrà dentro di sé sino alla fine. Attore, è in teatro l'amoroso in compagnie importanti. Nel cinema è il bel giovane seducente e fatuo che gli inventa Mario Camerini. Fatuo ma di buon cuore, e ottima pasta «matrimoniale»: Gli uomini che mascalzoni... (1932), Grandi magazzini (1939), i due film ai lati estremi della parabola.
Più scanzonato è il regista che, pescando i temi nel lago dei «telefoni bianchi», gira la commediola Rose scarlatte (1940), giocherella con Maddalena zero in condotta (1941), con una Teresa Venerdì (1941) che in una particina esibisce una spiritosa Anna Magnani, con lo storicheggiante Un garibaldino al convento (1942). Rivela garbo ma anche sentimento, il neoregista, che alla fine della guerra ha la fortuna d'incontrare Cesare Zavattini. Con lui, sarà appassionato, tenero e neorealista, e del neorealismo diverrà uno dei corifei. Prima con I bambini ci guardano (1943). Poi, trionfalmente, con Sciuscià (1946), i due infelici ragazzini romani che, soli, debbono affrontare il dopoguerra e con Ladri di biciclette (1948), il disoccupato, il bambino, la bicicletta rubata, la Roma popolare, la «Santona», la disperazione e la pietà. Dopo la fiaba amara e graffiante di Miracolo a Milano (1951), il capolavoro conclusivo dei neorealismo, la fine in solitudine dei pensionato di Umberto D. 1952). Qui chiude il De Sica autore.
Prosegue, onorevolmente, il De Sica regista e, sapidamente, il De Sica attore. Dirige molti film, sbagliando quando tenta di prolungare artificialmente la formidabile «gracilità» di un neorealismo ormai esaurito ( II tetto, 1956; Un mondo nuovo, 1965; Lo chiameremo Andrea, 1972), fallendo senza scampo quando insegue una drammaturgia di ambizioni intellettuali ( I sequestrati di Altona, 1962, da J. P. Sartre), muovendosi con difficoltà ma non senza smalto fra le stravaganze zavattiniane fini a se stesse ( Il giudizio universale, 1961), traducendo in maniera degna ed efficace un romanzo di Moravia (La ciociara, 1960, con una commossa Sophia Loren) e in modo fiacco uno di Bassani (Il giardino dei Finzi Contini, 1970). Delle sue innumerevoli interpretazioni molte sono degne d'essere segnalate con elogi, dall'episodio della «maggiorata» in Altri tempi (1952) di Blasetti al patetico ritratto di giocatore in L'oro di Napoli (1954), regia sua, dal maresciallo di Pane, amore e fantasia (1953) di Comencini all'eroico imbroglione di Generale Della Rovere (1959) di Rossellini. Ma il vero De Sica rimane quello - sobrio e intenso, carezzevole e lucido - del neorealismo dinanzi al quale tutto il cinema s'era inchinato (Sciuscià e Ladri di biciclette vinsero l'Oscar per il miglior film straniero).
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Proprio nel momento in cui il suo cinema raggiunge il grande pubblico, riscuotendone il consenso, Vittorio De Sica perde, in misura eguale e contraria, il contatto con la critica. Le monografie complessivamente dedicate alla sua opera, sul piano internazionale, si contano sulle dita di una mano e nessuna avanza alcuna pretesa di sistematicità e rigore.
Dopo la rivisitazione del neorealismo con Il tetto, De Sica sente giunto il momento di imboccare strade produttivamente meno impervie e accetta di tentare un esperimento di trapianto e adattamento del modello produttivo hollywoodiano sul corpo del cinema nazionale. Mentre la logica di una produzione francescana veniva punita dal pubblico, i maggiori investimenti e rischi produttivi sono subito ripagati in misura superiore alle attese. Il bilancio economico è così sintetizzabile: «Sei film e mezzo in quattro anni di attività; nessun incasso inferiore ai 500 milioni; uno superiore al miliardo, due al miliardo e mezzo e una punta massima di oltre 2 miliardi e 300 milioni; un primo posto nella classifica economica stagionale e due secondi, entrambi con larghissimo distacco dai concorrenti».
I film, nell'ordine, sono La ciociara del 1960, girato dopo un periodo d'inattività di quasi cinque anni, II giudizio universale del 1961, in cui si ricompone il sodalizio con Zavattini, I sequestrati di Altana, dal dramma omonimo di Jean-Paul Sartre, La riffa (episodio di Boccaccio '70), Ieri, oggi, domani del 1963 e Matrimonio all'italiana, dove il dramma di Eduardo De Filippo Filumena Marturano viene trascritto sullo schermo in una versione fortemente femminista.
Dalla Ciociara in poi De Sica decide di operare in sintonia con la politica di Carlo Ponti, volta anche a conquistare il mercato internazionale, con opere realizzate nel pieno rispetto delle regole americane e, al tempo stesso, immerse in modo tipico nella storia, nella cultura e nella letteratura italiana.
I moduli della poetica neorealista sono quindi rovesciati: alla non professionalità degli attori presi dalla strada si contrappone la centralità dell'operazione divistica. Le opere realizzate in questi anni sono costruite su misura per Sophia Loren, unica diva italiana capace di competere, senza complessi di inferiorità, con il divismo hollywoodiano. La naturale capacità di osservazione del comportamento popolare viene caricata e messa al servizio della recitazione della Loren, che occupa il centro della scena e accelera, con la sua prepotente fisicità e l'ormai raggiunto dominio delle capacità recitative, il flusso di emozioni e sentimenti. Pathos e ironia, sensualità e repressione, emancipazione femminile, violenza, sottosviluppo, leggi arcaiche, folklore, idillio e tragedia sono sapientemente mescolati da De Sica in una serie di operazioni in cui il mestiere prevarica sulla diretta capacità di rappresentazione.
In pratica egli ripercorre luoghi e situazioni noti abbellendoli attraverso il colore e valorizzandone gli aspetti più esterni e di immediata resa spettacolare. La perdita più sensibile è quella della mobilità del suo sguardo e della sua capacità di penetrazione in profondità. Nella fase terminale della sua carriera il regista ha uno sguardo come ipnotizzato dal potere della sua interprete e - con tutta probabilità - non si sente affatto sminuito e non realizzato in questa sua nuova situazione.
Questo vale per La ciociara come per La riffa o per la figura di Filumena Marturano. A fianco di questa linea portante, De Sica non rinnega l'esperienza passata: si può vedere Il giudizio universale come una festosa rimpatriata con Zavattini, a dieci anni di distanza da Miracolo a Milano, di cui riutilizza alcuni moduli, applicandoli a una società diversa. L'umorismo surreale di uno Zavattini in piena forma ancora una volta produce, nell'incontro col regista, quella miscela irripetibile di cinismo e affettività, di partecipazione umana e distacco, di ironia e ferocia. Il coefficiente utopico che ancora sosteneva la morale della favola milanese è qui assai ridotto e quasi non si avverte. Non è sufficiente l'amore dei due giovani, Luca e Giovanna, così come non è stata la paura del giudizio universale a modificare una realtà in cui il sociale è degradato alla legge della giungla.
La dimensione della favola continua a restare al di fuori degli interessi della critica, che giudica con molta circospezione questo film, in cui non tutto riluce dello stesso splendore, per quanto si possano trovare momenti e personaggi memorabili, sia in primo piano che nel coro sullo sfondo, degni di figurare nel Pantheon delle migliori creazioni della coppia.
Meno felice l'incontro con il teatro di Sartre: i motivi della decisione di affidargli 7 sequestrati di Altona rimangono misteriosi. De Sica culturalmente e ideologicamente - parafrasando la legge di Peter sull'incompetenza progressiva - è messo in questo film al massimo livello della sua incompetenza. E in egual misura del tutto spiazzata rispetto al ruolo è Sophia Loren.
È un errore che non si ripeterà: il regista torna alla sua vena popolaresca, riporta l'attrice nel suo habitat naturale, e sforna con Ieri, oggi, domani e Matrimonio all'italiana due dei piatti meglio riusciti della sua cucina. Come contorno non va trascurato neppure Il boom (1963 ), una delle commedie più amare e penetranti degli anni del miracolo economico. Nel corso del decennio successivo, alla media di un titolo all'anno, con assoluta regolarità, De Sica realizza ancora una decina di titoli, tutti di buon mestiere, alcuni - come la trascrizione del romanzo di Bassani Il giardino dei Pinzi Contini - di grande dignità. L'impressione crescente è che si tratti di opere a cui il regista, pur riconoscendone la paternità, è sempre più indifferente ed estraneo. In questo periodo De Sica sente, nonostante il successo, di essere giunto a una fase di stallo creativo. «Ho sempre un vivo desiderio di aggiungere un altro Umberto D. al mio attivo, - confida a un giornalista dell'«Europeo» nel maggio 1965 -. Non si può solo far film per tutti. Il linguaggio va portato avanti: le tematiche rinnovate». La regressione ideologica e conoscitiva è comunque in lui assai più sensibile di quella stilistica. Alla propria crescente incapacità di capire, interpretare la realtà di cui pure vuole parlare, De Sica porta come correttivi uno sguardo ancora bonario, e assai più sfocato, e una serie di espedienti di maniera. Di fatto lo sguardo sembra quello di un miope, il discorso è sempre più sclerotico, la reattività emotiva ridotta quasi a zero. Alcuni film danno addirittura l'impressione di essere realizzati per delega: non a caso, forse, ogni critica o semplice riferimento alla sua attività hanno generalmente il tono più del necrologio che della semplice recensione.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007