Se la sua carriera fosse cominciata qualche anno prima o qualche anno dopo (al’inizio e non alla fine degli anni 40o all’inizio dei 70), la fama di Richard Brooks sarebbe probabilmente stata diversa, più di serie B, magari, ma, forse, anche più d’autore. Perché Brooks appartiene alla generazione dei registi arrivati a Hollywood quando la struttura economica degli studi stava barcollando e quella ideologica si stava sigillando nel maccarthismo: un intellettuale, giornalista, scrittore e commentatore radiofonico, romanziere (suoi sono The Brick Foxhole, base per OdIo implacabile di Dmytryk, Boiling Point e The Produca), sceneggiatore e regista attratto da forti temi “civili” (omosessualità, libertà e onestà di stampa, violenza carceraria e scolastica), deciso a rimanere indipendente. Uno alla Aldrich o alla Dmytryk, sempre in bilico tra cinema classico e nuovo realismo americano, un po’ troppo vecchio per essere alla Penn o alla Peckinpah, cioè per godere in pieno della libertà e dell’anticonformismo degli anni 60 e 70. E in bilico è rimasto il suo cinema, segnato alternativamente dalla necessità del divismo e da una certa ridondanza letteraria (tipica dell’epoca) e da una robusta tempra polemica e dalla capacità dia rileggere i generi in chiave problematica. Nato a Philadelphia nel 1912, arrivato a Hollywood nel 1941, sceneggiatore (oltre che di tutti i suoi film) di Forza bruta di Dassin e di L’isola di corallo di Huston, Brooks esordì nella regia nel 1950 con La rivolta e, dopo L’ultima minaccia, fece scalpore nel 1955 con Il seme della violenza, dove il professore idealista Glenn Ford si scontra con la pelle dura dei ragazzi degli slum a tempo di rock’nroll (Rock Around the Clock esplodeva nei titoli di testa). Il film lo impose tra i registi di punta hollywoodiani e Brooks cominciò ad alternare temi di incisiva attualità (il razzismo di Qualcosa che vale, ancora la violenza giovanile, ben più radicale negli anni 60, di A sangue freddo, dal romanzo dì Truman Capote, impastato di una crudezza documentaria che sarebbe riapparsa nel cinema americano decenni dopo) a riduzioni letterarie (contorti e irrisolti ma non banali sia Karamazov che Lord Jim) e teatrali, dove diede Ibrido alla sua autentica vena per il melodramma (La gatta sul tetto che scotta e La dolce ala della giovinezza, da Tennessee Williams, per quanto “addomesticati” in sede di sceneggiatura per ovvi motivi di censura, tra le righe tessono un ritratto spietato delle castrazioni e repressioni americane). In mezzo seminò due western diversissimi e spiazzanti: 1956, L’ultima caccia, che anticipa la crudeltà e la violenza dell’antiwestem, e nel 1966 I professionisti, che affronta esplicitamente ma con leggerezza il fantasma dell’imperialismo statunitense. La nuova Hollywood, che pur ripetutamente sfiorò (in chiave thriller, Il genio della rapina, western, Stringi i denti e vai. mélo, In cerca di Mr Goodbar), non gli rese giustizia; forse non si accorse che nei film di Brooks covavano le sue stesse radici di insofferenza, elaborate in una struttura classica: quelle che trasformano il dramma rurale il figlio di Giuda (il suo film più bello) in un ritratto di straziata isteria, un Capra urlato da Peckinpah, un Sogno imbrattato di stupidità.
Da Film Tv, n. 9, 2004