
Un crescendo sempre più spettacolare, fino ad una conclusione che lascia il pubblico senza catarsi, ma pieno di interrogativi. Su Netflix.
di Gabriele Prosperi
Con la terza stagione, Squid Game giunge alla sua conclusione, chiudendo un cerchio cominciato nel 2021 con una riflessione feroce sul capitalismo, la disuguaglianza e la disumanizzazione dell'intrattenimento. Ma questa chiusura non è un epilogo rassicurante: è un saluto amaro, contraddittorio, che incarna tutta la tensione tra la potenza simbolica della serie e il rischio di auto-reiterazione che ha caratterizzato i suoi sviluppi più recenti.
Se la prima stagione aveva un'efficacia spietata, le successive hanno portato la narrazione a un crescendo più spettacolare che incisivo, fino a un finale che lascia il pubblico senza catarsi, ma pieno di interrogativi.
La terza stagione riparte dal caos: la rivolta dei giocatori è stata soffocata, i superstiti devono tornare a combattere. Gi-hun è svuotato, silenzioso, consumato dal fallimento. Ma proprio questa debolezza lo rende più umano. Il confronto con Dae-ho, ex alleato divenuto rivale, segna l'inizio di una spirale sempre più cupa in cui l'etica cede il passo all'istinto di sopravvivenza.