
Un film classico che si affida totalmente agli attori per creare un racconto di psicosi, quarantena e assedio. In anteprima al Magna Graecia Film Festival.
di Luigi Coluccio
Lee, Imogen e Maeve vivono sotto lo stesso tetto, votano per decidere chi deve fare cosa e badano l’una all’altra. Qualcosa si è abbattuto su di loro, qualcosa avvenuto dieci anni fa: un virus che ha colpito il mondo intero portando morte e desolazione. Lee si è presa cura delle nipoti, facendole crescere al sicuro nella baita fuori città. Un giorno, però, un giovane di nome Owen viene trovato ferito vicino al loro rifugio, che le tre chiamano Lazareth.
Il regista ha bene in mente da dove parte e dove vuole arrivare, mescolando insieme alone di genere e parvenza di autorialità, facendo risaltare il quadro e non la cornice. Ci si muove tra La notte brava del soldato Jonathan di Siegel e – certo, ma non per forza – L’inganno di Sofia Coppola, l’iconografia pandemica e la psicosi infettiva, la quarantena e l’assedio. Il suo è un cinema da classicista, non toccato dalle derive post- e de-, fatto di montaggio appena accennato e minime tracce simboliche. E, naturalmente, da un totale fiducia nella presenza attoriale.