Il regista belga Van Dijl entra in modo delicato e diretto nell'intimità femminile. Dal 24 aprile al cinema.
di Paola Casella
Gran parte delle prevaricazioni sulle donne hanno come punto di partenza, e obiettivo finale, il corpo femminile. Immaginiamo dunque quale potenziale di abuso possa dunque verificarsi fra un’atleta e il suo allenatore, dato il contatto costante e necessario che c’è fra lui e quel corpo femminile che da lui può essere plasmato. Non è un destino necessario, per fortuna, ma un rischio con cui Julie, giovane promessa del tennis, deve misurarsi con istintivo pudore – lo stesso che caratterizza la protagonista dell’opera prima Julie ha un segreto del regista belga 34enne Leonardo Van Dijl.
La ragazza fatica a portare a livello di coscienza la tossicità del rapporto impostato con lei dal suo allenatore: un rapporto di intimità che va ben oltre il consentito, anche nel contesto della prossimità necessaria fra una giocatrice a livello agonistico e il suo preparatore atletico. Ed è una stortura che non riguarda solo lei, ma che ha portato una compagna di squadra al suicidio, e adesso le autorità indagano su questo insegnante così palesemente scorretto.
Al centro della storia di Julie ha un segreto c’è la fiducia, componente essenziale per la buona riuscita di un rapporto atleta-allenatore, e allo stesso tempo determinante nel fare di Julie la custode di un segreto che fatica a rivelare anche a sé stessa. Perché la fiducia accordata e ricevuta comporta una lealtà che è difficilissimo interrompere senza sentirsi una traditrice e un’ingrata.
L’allenatore chiede a Julie esplicitamente (ma anche larvatamente, il che ci fa intuire il modo in cui è riuscito ad insinuarsi nella vita della giovane protagonista) di esserle complice, quando tutto quello che la ragazza vorrebbe fare è tornare a praticare lo sport cui ha dedicato la vita. Leonardo Van Dijl dosa sapientemente l’altalenare ambiguo della sua protagonista tenendo a mente l’insicurezza tipica della sua età, il suo bisogno di punti fermi, il desiderio di attenzione e di conferme sulle proprie capacità.
Van Dijl è allo stesso tempo delicato e diretto non solo nell’affrontare un tema complesso, ma anche nell’entrare in un’intimità femminile che passa attraverso il corpo di Julie, le sue ritrosie e i suoi silenzi ostinati, il suo carattere schivo ma non arrendevole, come si conviene ad un’atleta competitiva. Julie ha un senso profondo di ciò che è giusto e sbagliato, ma il suo allenatore è riuscito a confondere le acque (e la testa della ragazza), spostando gradualmente il limite di ciò che è eticamente accettabile. E il peso della colpa per quello squilibrio intenzionale viene preso in carico dalla ragazza, invece che dall’”adulto responsabile”.
Non ci sono risposte, o soluzioni, facili in questa storia, non c’è la volontà di presentare un percorso netto e “facile” di riscatto, ma c’è l’onestà di muoversi lungo un crinale incerto per rappresentare realisticamente la coscienza complessa e misteriosa di una giovane donna in divenire. E ci fa domandare se Julie permetterà alla sua voce di emergere dal silenzio imposto da un abile manipolatore.