Penso sempre che l’analisi di un tema così complesso debba assumere per forza la forma del “dibattito interiore” e che il diretto o la diretta interessati debbano trasformarsi necessariamente nella rappresentazione quasi di una “Persona” alla maniera di un film di Bergman per intenderci.
Ed allora: Di chi è la vita? Mia? Della natura? Di Dio? Della società? Il diritto a darsi la morte va negato? Vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente?
E l’azione effettivamente eseguita di “procurarsi una dolce morte” è in realtà determinata in base al principio della “libera scelta” o è dettata dall’impulsività o imposta dalla situazione in cui ci muoviamo? Esiste una reale “libertà di scelta?” O sostanzialmente vige solo un principio di causa-effetto? E qual è il giusto criterio per valutare la qualità di una vita e il dovere che si ha verso di essa?
E invece tutte codeste “seghe mentali” ci vengono risparmiate dal regista per fortuna o purtroppo.
Secondo me, l’idea di fondo veicolata con “leggerezza” dal film è che nella “scelta” di “darsi la dolce morte” non dovrebbero essere tanto in gioco le condizioni “oggettive”, ma dovrebbero pesare soprattutto le condizioni psicologiche individuali e quelle sociali che definiscono l’azione dello “scegliere”.
Qui assistiamo ad una “cosa umana” tutto sommato molto “normale”: la vicenda “comune” di un uomo che con molta “naturalezza”, senza particolari crucci e senza nemmeno credere necessariamente in un “Altrove” mitico post mortem, eventualmente, ha deciso testardamente di “farla finita”. E tutto sommato noi “lo assistiamo nel suicidio…non siamo noi ad ucciderlo. Giusto?”. Tutto è così chiaro, dunque? E qui si potrebbe aprire già il dibattito!
Anche l’allegria di certe scene in stile “slapstick” serve per alleggerire la gravosità della situazione. In fondo non bisogna credere che una persona chiamata a sostenere certe scelte “al limite” sia sempre necessariamente angosciata. Più spesso, forse, sdegnata e indignata.
Io avrei titolato il film anche “Percezione di una forma del morire e dell’atteggiamento con cui la transizione è vissuta (dall’interessato diretto e dalla sua famiglia e dagli amici e parenti e amanti assortiti eventualmente)
In un film del genere è importante quantomeno evitare di fare della “morte assistita” un caso emblematico di “mala educazione” o di “mala sanità” o di perversione sociale e culturale. Credo che almeno il regista abbia il pregio di aver fuggito l’effetto meramente “pedagogico” in questo caso. Sebbene la descrizione di un accenno di “mala sanità” non manchi nel film quando ad un certo punto l’ospedale presso cui è ricoverato lascia Andrè a macerare nei suoi stessi escrementi per mancanza di personale addetto alla pulizia dei pazienti. Sono di quelle cose che effettivamente possono non favorire una convinta scelta di vivere. Ma si ferma qui questo abbozzo di riflessione sul peso effettivo che le carenze assistenziali della sanità possono avere nel determinare le decisioni di una persona sofferente.
Per di più, quando si trattano temi così dibattuti sotto l’aspetto politico, religioso, morale, etico, antropologico un altro pericolo è che a scopo difensivo o per non rischiare di scontentare nessuno ci si possa ritagliare semplicemente il ruolo del sofista disposto a patrocinare la “dialettica” di qualsiasi tesi col rischio che l’anelito all’obiettività sfumi nel qualunquismo. Invece, il regista rimane fedele all’idea che sia impossibile assumere un atteggiamento davvero imparziale, di fronte a discorsi che attengono ai sentimenti umani più profondi e intimi. Più che all’imparzialità l’autore si rivolge alla meno pretenziosa (alla più “leggera?”) “sospensione del giudizio”, eventualmente, che almeno ha il vantaggio di esprimere tutta la straordinaria complessità delle ragioni alla base di “scelte” così “clamorose”.
Tuttavia, certi interrogativi anche a dispetto delle intenzioni dell’autore e della “leggerezza” del film, non si possono completamente eludere.
Anzi paradossalmente, forse, è proprio questa condizione “limite” ad agitarci moderatamente. Quella in cui versa Andrè è una sorta di terra di confine, quella cioè in cui un individuo da un lato non ha ancora completamente consumato dentro di sé tutto ciò che è tipico dell’ essere vivente, cioè in definitiva: – le memorie, i discorsi seri e le ciance, la musica, le sensazioni, le emozioni dell’arte, le passioni, i piaceri e le amarezze, in cui insomma un anelito di vita sembra ancora risuonare dentro di lui, ma in cui dall’altro al contempo sperimenta anche quella specie di territorio narcotizzato dell’esistenza in cui si prospetta il dolore indefettibile della “coazione a ripetere”. In questa “zona limite” in cui ancora vita e morte sembrano scivolare alternativamente l’una nell’altra e viceversa in un circolo che rischia di diventare senza fine, ecco proprio qui ci possiamo consentire anche solo per un istante di far prevalere la ragione sull’emotività dando sfogo a tutti i nostri personali turbamenti. - Ma tranquillo! “Andrà tutto bene” Andrè! Con questo non miriamo a farti cambiare idea; non proviamo a convincerti. Sappiamo quanto sei testardo -. Le nostre apprensioni riguardano soltanto noi “spettatori” che dall’esterno proviamo a farci una ragione delle tue ragioni che non vengono scalfite minimamente dalle nostre farraginose meditazioni. Perché Andrè ha già fatto la sua “scelta” e senza ombra di dubbio alcuno.
Le elucubrazioni sorgono spontanee per il fatto, tra gli altri, che non è completamente possibile immedesimarsi o meglio empatizzare totalmente con il protagonista e la sua “volontà di farla finita” perché il personaggio oltre ad esserci presentato come uno “stronzo cordiale” e padre e marito discutibili sotto molti aspetti, “non sembra avere un aspetto così brutto”, insomma “non sembra essere conciato così male dopotutto”. Cioè gli spettatori (alcuni, almeno) siamo confusi dal pensiero che ci martella le meningi che la nozione di “scelta” individuale sembrerebbe ammettere in questo caso una maggiore possibilità di azioni alternative; cioè nell’immaginario dello spettatore, quantomeno, la decisione di morire potrebbe sembrare meno “obbligata” rispetto alla “scelta” operata in una situazione in cui qualcuno è “bloccato” al suo letto in una totale atrofia dell’azione. La mobilità motoria di Andrè è in parte conservata: può parlare, mangiare, muovere un arto superiore. Frequenta il suo ristorante preferito, lo vediamo assaporare la sua mousse al cioccolato, degusta la sua bottiglia di bordeaux servito da Tierry il suo “gentil cameriere”. Rimanda persino la fine pur di poter assistere al concerto del suo adorato nipotino anche se poi finisce per abbioccarsi durante la sua esecuzione. Tutte “piccole cose” che sembrano volerci comunicare che la sua “esistenza” ha pur sempre conservato una minima capacità di “autodeterminazione”. Oltretutto è benestante e può permettersi di pagarsi la necessaria assistenza e anche di più che ai poveri, se si trovassero nelle sue stesse condizioni, sarebbe preclusa verosimilmente. E poi ci sono le sue “adorate” figlie, mai abbastanza amate, che gli sono accanto. Insomma non è nemmeno così isolato come sembra invece il suo vicino di letto della stanza dell’ospedale che nessuno va mai a trovare sembrerebbe. E ci immaginiamo subito che se gli fosse toccata la sorte di Andrè il suo calvario sarebbe stato ben peggiore. In linea quindi con la personalità scorbutica e bisbetica che ci viene presentata, anche il suo desiderio di morire potrebbe apparire a primo acchito come la strategia di uno in preda ad un qualche delirio narcisistico di onnipotenza. Il capriccio di un fine “esteta” , un dandy invecchiato che si è goduto la vita tra le bellezze dell’arte e la buona cucina e la musica aulica, di Bramhs soprattutto, e le gioie di una sessualità vissuta sempre liberamente e senza schemi preordinati o limiti di genere. Uno che ha avuto “il grande privilegio di vivere una vita piena…una bella vita, insomma”, ma che non crede di poter far meglio a questo punto. Quindi, la sua sembrerebbe una condizione in cui non è totalmente assente un qualunque atto della volontà personale. Alla sua percezione però il suo stato attuale appare come una totale debacle che non può proprio accettare seppure sia ancora capace di qualche sorriso. Andrè i sintomi di cui soffre proprio non riesce a digerirli. Ed è costretto a subirne tutto il tormento. I sintomi diventano unici testimoni di un’esistenza che semplicemente rischia di ripetersi ininterrottamente e che giudica ormai priva di un qualunque obiettivo.
Andrè non è come quel panino al salmone e formaggio che ha addentato e che Emmanuèle pensa sia più giusto riporre in frigo “per prolungarne la commestibilità”.
Anche se gli manca un pezzo quel panino può rimanere buono lo stesso se lo conservi al freddo ancora per qualche tempo anche se non è bello a vedersi e soprattutto se non fai troppo lo schifiltoso. Ma Andrè non può certo essere ridotto a un bene di consumo qualsiasi nemmeno se gli volessero allungare surrettiziamente la data di scadenza con l’ausilio di “trattamenti analgesici” o di protesi meccaniche e bio-mediche. Andrè è troppo esigente, ha gusti troppo raffinati per potersi permettere di continuare a “sopravvivere”. Il suo corpo “addentato” (“fatto a pezzi”) dall’ictus non è la sola vittima qui, ma ben più menomata ne è uscita soprattutto forse la sua concezione estetica della vita.
A questo punto visto che c’è ancora poco da approfondire delle intenzioni di Andrè non resta che spostare il focus sulla sofferenza della famiglia piuttosto. Qui questo shift verso il tormento dei familiari effettivamente sembra voler richiamare l’idea che comunque la pensiamo la decisione di porre fine ad una vita umana non avviene in maniera asettica. Che tutto ciò che vive, non vive o non dovrebbe vivere solo per se stesso e la “scelta” di morire si ripercuote inevitabilmente su altre persone come le figlie di Andrè in questo caso. La vita è sorretta da rapporti strutturali persino quando per l’individuo singolo ha perso ogni altro significato e ogni altro scopo? Andrè invece negando ogni patetismo e qualsiasi prudenza considera la sua decisione di farla finita una sorta di – dovere – che ha verso se stesso prima di tutto: Lo – deve – fare! Perché è soltanto a se stesso che deve (che vuole?) rendere conto, alla fine.
Però è pur vero che tutti si devono misurare con la morte. È questo che fa paura forse. Ed ecco allora che un corpo pur nello stato cadente in cui si trova non deve essere distrutto, perché deve continuare a soddisfare il bisogno di proteggersi dal pensiero agghiacciante dell’inevitabilità della morte stessa. A tal proposito è interessante la scena in cui Andrè dice alle due figlie: -Visto che ci siete tutt’e due potremmo scegliere la data della Svizzera -. Ed è in questo momento che il figlio piccolo di Pascale è invitato cortesemente a lasciare la stanza perché non sta bene che i piccoli sentano certi discorsi di morte. Ma abituarsi all’idea della morte e delle diverse “forme del morire” dovrebbe essere una “pratica” cui fin da piccoli dovremmo essere chiamati a riflettere proprio in un ottica di “comprensione” sia della vita che della morte propria e di quella altrui. Forse.
Sempre nella prospettiva dello spostamento verso argomenti apparentemente “altri”, il regista mette al centro della sua narrazione temi tra i più controversi per ciascuno dei quali ci sarebbe voluto un film a parte per sviscerarli degnamente: le dinamiche familiari, i rapporti tra genitori e figli e tra coniugi, la frivolezza di certa borghesia, l’omosessualità. Dei tormenti della moglie Claude non sappiamo granché salvo che soffre di depressione e di Parkinson e che nonostante le inenarrabili (letteralmente “inenarrabili” perché non ci vengono raccontate) sofferenze che Andrè le avrebbe inflitto, lei è rimasta comunque con lui “perché lo amavo, (pausa) stupida!”, risponde alla figlia Emmanuèle che la interrogava in tal senso. Ma “stupida” sembra proprio un appellativo rivolto più a se stessa in un estremo atto di autocommiserazione.
Il regista lavora sempre per sottrazione, in dissolvenza, quasi. Anche la trattazione solo abbozzata, tutto sommato “leggera” dell’omosessualità “non-convenzionale” di Andrè, (si può ancora definire “omosessuale” tout court uno come Andrè?), potrebbe essere qui coerente e funzionale, direi, con il presupposto di voler dare anche a certa “fluidità” sessuale e di genere, un carattere anche questo scontato, “naturale”, alla fin fine, di cui non varrebbe la pena neanche discutere. Anche qui si potrebbe aprire un bel dibattito, ovviamente, perché le cose non sono sempre così “pacificate” come avviene in apparenza nella famiglia del sig Bernheim. E basterebbe guardare tra gli altri, un film recente come “Due” (Deux) di Meneghetti per renderci conto, semmai ce ne fosse bisogno, di quanto la realtà sia molto più complessa e sconvolgente sotto molti aspetti.
In effetti, a ben guardarlo, il film è disseminato di una serie di “tracce” alla resa dei conti con le quali il regista tenta di tenere insieme concetti ed espressioni che sembrano nel caso specifico completamente privi di collegamenti, apparentemente slegati con l’argomento centrale del suicidio assistito. Le tracce del film sono come tante fotografie che si susseguono ordinatamente seppure senza un ordine strutturato. La traccia del linguaggio cinematografico qui non vuole rappresentare qualcosa per qualcuno, non funge da avvertimento o da suggerimento. Certamente il regista prende una posizione alla fine a favore della pratica dell’eutanasia e del suicidio assistito indubbiamente, ma al contempo le sue “tracce” (i diversi temi che si intrecciano nel film) sono anche una sorta di “inganno simbolico” nel senso che le cose dette o viste nel film sono anche una sorta di fluttuazioni del discorso, deviazioni improvvise cui lo spettatore è chiamato a partecipare. Lo spettatore è trascinato a volte ironicamente in questo universo confuso e vagamente deprimente e nello stesso tempo però anche ironico, coinvolto com’è in una storia “mancante”, secondo me, di un vero senso definito e inequivocabile.
Non possiamo pretendere che Emmanuèle “comprenda” la decisione del padre perché forse è davvero impossibile simbolizzare l’azione di “togliersi dolcemente la vita” in quanto più semplicemente non troviamo metafore, né parole che siano abbastanza efficaci per descrivere la condizione in cui si trova il protagonista. Inutile pensare di mettersi nei suoi panni, dunque. Ciò che noi vediamo non è sufficiente a descrivere ciò che Andrè sente e vive. Ed è per questo forse che facciamo fatica insieme ad Emmanuèle a capire la sua volontà. Inutile chiedersi perché o cosa gli manchi. C’è sicuramente una trasformazione in atto, e i modi di cogliere e vivere i cambiamenti della sua vita, al netto delle trasformazioni fisiche in atto, sono particolari e soggettivi. E lui soltanto è titolare della comprensione di se stesso e delle sue esperienze.
Il protagonista non è la compassione che pretende. Non ci chiede nemmeno di comprendere e non ha voglia nemmeno di dare spiegazioni. Allora, l’unica cosa che Andrè ci chiede è di avere totale fiducia nella sua azione, fiducia in ciò che di più umano è rimasto in lui: la volontà di agire. Ma se “comprendere” le ragioni di Andrè è impossibile, non resterebbe allora che un ennesimo atto di perdono. In fondo le figlie hanno già perdonato il padre tante volte nel corso degli anni. E nonostante si stia dimostrando “un bastardo fino alla fine” sono ormai in pace con se stesse e con lui. Sebbene Emmanuèle si veda a volte in sogno ancora bambina mentre uccide con la pistola questo padre prepotente e senza umanità (segno forse che non ha poi elaborato così perfettamente questo rapporto genitoriale conflittuale) tuttavia: - sai è un cattivo padre (Emmanuèle sorride teneramente insieme all’amica) ma io lo amo, lo amo, lo amo molto” (sorridono affettuosamente di nuovo entrambe). A sottolineare il fatto forse che questo padre non era poi tutto ‘sto satanasso? Questo padre alla fine sembra assurgere a personaggio quasi da commedia all’italiana: un essere “odioso e spregiudicato” (così viene tratteggiato) che malgrado tutto ne esce alla fin fine dipinto semplicemente come una “simpatica carogna”. Quanti tra quelli che hanno avuto un padre “cattivo” avrebbero oggi la forza e l’animo di dire dolcemente che “lo avrebbero voluto più come amico?” . Mah! Dipende sempre ovviamente dalle esperienze personali e familiari, s’intende.
Un rapporto sempre ambiguo quello con il padre, un rapporto che ci immaginiamo si sia alimentato contemporaneamente di cattiveria e tenerezza, di prevaricazione e delicatezza, di rozzezza e cortesia. Quella classica violenza differita nel tempo infarcita di messaggi paradossali che tante volte si fa fatica ad ammettere in quanto si nasconde dietro la stessa ambiguità subdola di cui si nutre. Qui il perdono sembra ancora l’unica vera via d’uscita soprattutto per Emmanuèle che sembra accettare con maggiore sofferenza la decisione del padre proprio perché non la condivide completamente. Il padre con la sua consueta doppiezza che lo contraddistingue da sempre, da un lato continua a coltivare sapientemente (coscientemente?) il conflitto tra le due sorelle (la richiesta di farla finita è rivolta solo a Emmanuèle) e dall’altro però offre a Emmanuèle l’ennesima occasione per perdonarlo. In tal modo le consentirà di accettare formalmente la soluzione finale di colui che ha “scelto di smettere di esistere” e contemporaneamente di non condividere affatto la sua azione permettendole di sentirsi se non propriamente “buona”, almeno “perbene” come quella ricca classe borghese da cui proviene. Davvero “diabolica” quest’adorabile canaglia di uomo. Dunque, ecco l’ennesimo «perdono», estremo rimedio di colei che ha deciso di rimettersi in pari con l’esistenza perché nonostante le sofferenze patite ha avuto la fortuna o la bravura di non uscire troppo malconcia da certe dinamiche familiari disfunzionali.
Per amore si può aiutare qualcuno a morire e per amore si può impedirglielo come prova a fare “il suo Gerard” che continua ad amare Andrè, o almeno così sembra volerci dire, di un amore disperato, ma che nella disperazione tra molte insistenze e qualche minaccia trova anche tempo e modo di farsi dare in regalo l’orologio costosissimo che Andrè un tempo gli aveva promesso.
Andrè non può scegliersi la vita che vuole, non più. La decisione di morire fa parte di lui ormai. Non vorrebbe più pensarci. Vorrebbe che fosse già cosa fatta e per tutti. Invece qualcuno con le sue insaziabili aspettative di vita lo costringe a pensarci ogni maledetto giorno. Non è uno stoicamente votato alla morte e dunque tutti questi divieti di legge e le fumose pastoie burocratiche e le ansie di parenti e amanti, giudici e poliziotti vari certo non lo aiutano a ritrovare quella serenità, quel senso di pace così tanto necessari nel “disbrigo di faccende” di tale portata.
Questo è il suo maggior tormento. Che vuole “essere”, non sembrare di “essere”. Che Vuole vivere non “far-finta-di”. La “mera esistenza”, la “sopravvivenza” sono per Andrè nient’altro che una morte differita. E invece “essere in ogni istante vigile”, non abbandonarsi alla pigrizia, questo solo conta. Una vita pigra ti si preme addosso sulla pelle fino al punto che non la senti più la vita, fino al punto che smetti di essere cosciente di te stesso. Neanche l’idea di significare ancora qualcosa per le figlie lo smuove di un millimetro dal suo proposito. È quando si rende conto dell'abisso che separa ciò che è per gli altri da ciò che sente di essere per se stesso che gli viene la paura, il terrore di essere confinato “a vita” nei propri limiti. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita con dignità o è meglio rifugiarsi nell'immobilità del rituale di un’esistenza che semplicemente accade nel suo ripetersi ininterrotto, sempre uguale a se stesso e senza scopo? Andrè crede nella vita tanto da sacrificare la propria. E finalmente ha di nuovo uno scopo da compiere. Ha qualcosa cui aggrapparsi, una possibilità da sperimentare, un’opportunità da cogliere. Ed è così che prova a rivolgersi alla figlia Emmanuèle (ad una figlia soltanto però): - Non deludermi…non puoi lasciarmi così…questo, tutto questo non sono più io -, dice Andrè piangendo. Un appello accorato quello di Andrè alla ricerca di un minimo di cooperazione da parte di questa figlia che proprio non vuol comprendere. A lei rivolge il suo sguardo, ma Emmanuèle distoglie il proprio e si ritrae bruscamente dalla presa implorante del padre che le stringe con forza il braccio nel momento in cui le comunica che “vuole farla finita”. Gli occhi di Emmanuèle non riescono ad andare oltre, ma vedono soltanto un corpo sgretolato, indebolito, un organismo dai pezzi mancanti o mal funzionanti, un corpo oggettivato chiuso nelle sue imperfezioni e mancanze, ma ancora vitale dopotutto. All’inizio nello sguardo di Emmanuèle Andrè vede rispecchiata soltanto l’immagine di un “oggetto” inerme, indifeso, incapace non più responsabile delle proprie azioni, in balia degli altri e impedito nei movimenti più semplici (seppure parzialmente). È in questa immagine spezzata che è costretto a riconoscersi e ad identificarsi e questo lo indigna e lo atterrisce insieme.
Emmanuèle comprenderà alla fine che per Andrè persino la morte può trasformarsi in una “possibilità”. La possibilità che qualcosa possa ancora succedere. Con la propria morte Andrè riafferma la necessità di una – capacità come possibilità decisionale – che mai dovrebbe venir meno qualunque sia la condizione in cui versa il soggetto. Qui non è il “fine vita” che è andato bene. Ciò che è andato a buon fine invece è la libertà di Andrè di poter scegliere. La libertà qui si qualifica come “ciò che imprime possibilità”. La libertà pone come proprio centro il potenziale della scelta. Messa in questi termini la “libertà di scelta” sembra proprio avere il sopravvento su Andrè al punto da farne l’unica ragione per vivere o per morire. Ma non è soltanto una questione di principio che si vuol affermare con tutta evidenza. Non dimentichiamo che dietro l’affermazione di quel valore sacrosanto della libertà c’è comunque una persona in carne e sangue che soffre a vari livelli ed è a questa sofferenza che dobbiamo rivolgere primariamente la nostra attenzione, il nostro sguardo, ritengo.
Se volessimo fare della musica tanto cara ad Andrè una metafora della sua “bella vita” potremmo azzardare che sì - Andrè ha avuto una vita che è stata tutta una stupenda melodia fino ad una certa parte del suo cammino esistenziale. Ed è in nome dell’attaccamento che sentiva per lo “strumento della sua vita” che ad un certo punto - smise di suonarlo quando si accorse che tanto male risuonava tra le sue dita ormai così fragili -.
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