dario
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lunedì 7 dicembre 2015
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insopportabile
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Come si faccia a concepire una cosa del genere è un mistero. Non c'è storia, il film è estremamente verboso. La noia ssale dopo dieci minuti. La recitazione, pur discreta, è conseguente. Mancano logiche e ragioni. Non sono affatrto sottintese, non esistono nella sceneggiatura. Regia fissa, imbambolata e compiaciuta.,
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filippo catani
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lunedì 20 luglio 2015
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il dramma di una donna
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Israele. Una donna si rivolge al tribunale rabbinico per cercare di ottenere il divorzio; inizierà per lei un estenuante calvario.
Dopo la separazione portata in scena da Farhadi in Iran ecco che arriva quella del regista Elkabez in Israele. Il film si gioca completamente all'interno dell'aula di tribunale dove per anni Viviane lotterà con le unghie e i denti per ottenere la separazione dal marito algido e geloso che vuole rifiutargliela in ogni modo in quanto non disposto ad accettare che lei si trovi un altro uomo. Il film mette perfettamente in luce il potere assoluto e discrezionale che i rabbini detengono nel decidere le sorti di una coppia e se si mostrano tolleranti davanti alle continue assenze del marito altrettanto non saranno con la donna che una volta viene apostrofata dal rabbino capo di imparare a stare al proprio posto di donna.
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Israele. Una donna si rivolge al tribunale rabbinico per cercare di ottenere il divorzio; inizierà per lei un estenuante calvario.
Dopo la separazione portata in scena da Farhadi in Iran ecco che arriva quella del regista Elkabez in Israele. Il film si gioca completamente all'interno dell'aula di tribunale dove per anni Viviane lotterà con le unghie e i denti per ottenere la separazione dal marito algido e geloso che vuole rifiutargliela in ogni modo in quanto non disposto ad accettare che lei si trovi un altro uomo. Il film mette perfettamente in luce il potere assoluto e discrezionale che i rabbini detengono nel decidere le sorti di una coppia e se si mostrano tolleranti davanti alle continue assenze del marito altrettanto non saranno con la donna che una volta viene apostrofata dal rabbino capo di imparare a stare al proprio posto di donna. Un film tagliente che tramite i personaggi che vengono chiamati a testimoniare in tribunale offre uno sguardo pungente su buona parte della società israeliana. Un plauso al cast completo capace di calarsi completamente e drammaticamente nelle rispettive parti e un plauso al regista non solo per il coraggio di mettere in scena un'opera del genere ma anche per aver conferito ritmo a un film praticamente ambientato in una sola stanza. Bellissimo.
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sorrow62
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martedì 5 maggio 2015
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solita furbata per spargere inesattezze su israele
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Il film di suo è lento e costruito con molte omissioni che non possono essere frutto di errori. Qualsiasi israeliano conosce i principi del diritto di famiglia che, effettivamente si basa sul Talmud come tutta la legislazione Israeliana in quanto non esiste una costituzione.
Guardando il film è inevitabile parteggiare per la ex-moglie, ma è bene ricordare che non è vero che solo l'uomo può divorziare, anzi, da oltre 3.500 anni anche la donna può divorziare in molti casi, compreso quello in cui il marito cambi lavoro e ne trovi uno che la moglie non approva.
Il problema sono le regole rabbiniche che vogliono avere quante più informazioni possibili, quindi se uno dei due cogniugi la "tira per le lunghe" c'è poco da fare, questo accadrebbe anche a parti invertite.
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Il film di suo è lento e costruito con molte omissioni che non possono essere frutto di errori. Qualsiasi israeliano conosce i principi del diritto di famiglia che, effettivamente si basa sul Talmud come tutta la legislazione Israeliana in quanto non esiste una costituzione.
Guardando il film è inevitabile parteggiare per la ex-moglie, ma è bene ricordare che non è vero che solo l'uomo può divorziare, anzi, da oltre 3.500 anni anche la donna può divorziare in molti casi, compreso quello in cui il marito cambi lavoro e ne trovi uno che la moglie non approva.
Il problema sono le regole rabbiniche che vogliono avere quante più informazioni possibili, quindi se uno dei due cogniugi la "tira per le lunghe" c'è poco da fare, questo accadrebbe anche a parti invertite.
Ma se a rimanere in sospeso fosse il marito allora il film di (falsa) denuncia non raggiungerebbe lo scopo che è quello di affermare, falsamente, che Israele è un paese con leggi maschiliste.
Infine tra le varie "inesattezze" che ho letto, c'è quella per cui una donna in attesa di divorzio sarebbe una specie di paria... niente di più falso, ovviamente non può sposarsi (come in qualsiasi altro paese) ma può avere una vita normale.
Consiglio di non giudicare Israele sulla base di questi film a senso unico ma di recarsi di persona nell'unico paese del medio oriente dove donne e gay hanno pari diritti rispetto agli uomini ed agli etero.
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angelo umana
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giovedì 18 dicembre 2014
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legge iniqua
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115 minuti di un film che tiene legati allo schienale della poltrona: ci si vorrebbe liberare della ragnatela kafkiana di leggi, tra ebraiche, di costume e residualmente costituzionali, che tengono legata Viviane Ansallem al marito da cui chiede il divorzio, invece non riusciamo a distoglierci dalle immagini, si spera che alla fine il buon senso vinca e che questa donna riottenga la sua libertà. Lei è la star del cinema israeliano, l’affascinante 50enne Ronit Elkabetz – fattezze materne e nel film un viso sereno che dovrebbe esplodere di fronte all’ottusità del diritto – la quale del film è regista insieme al fratello più giovane Shlomi.
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115 minuti di un film che tiene legati allo schienale della poltrona: ci si vorrebbe liberare della ragnatela kafkiana di leggi, tra ebraiche, di costume e residualmente costituzionali, che tengono legata Viviane Ansallem al marito da cui chiede il divorzio, invece non riusciamo a distoglierci dalle immagini, si spera che alla fine il buon senso vinca e che questa donna riottenga la sua libertà. Lei è la star del cinema israeliano, l’affascinante 50enne Ronit Elkabetz – fattezze materne e nel film un viso sereno che dovrebbe esplodere di fronte all’ottusità del diritto – la quale del film è regista insieme al fratello più giovane Shlomi. L’ambientazione è in una fatiscente e scarna aula di giustizia israeliana, dove la corte è formata da tre rabbini e dal loro cancelliere che trascrive le deposizioni. Quasi inutile dire che si tratta di una pellicola bellissima, lega letteralmente alla poltrona.
Ci si vorrebbe liberare dal racconto di una separazione che secondo le leggi, ma più secondo il costume e la religione ebraica di stretta osservanza, è impossibile. Una cosa che in qualsiasi altro paese occidentale verrebbe sbrigata in breve tempo, solo prendendo atto della volontà di una delle parti (forse solo ancora in Italia le cause di divorzio durano tanto). Per arrivare alla fine delle udienze, rimandate di settimane bimestri e trimestri, occorreranno cinque anni e la “vivisezione” di un matrimonio durato una trentina d’anni, dopo un fidanzamento iniziato quando Viviane era 15enne, l’aver messo al mondo quattro figli e la coabitazione ventennale forzata con una suocera di origini marocchine. Ai vari teste viene chiesto se i due litigavano, se l’uomo avesse difetti fisici, se lei ha un pretendente: viene così fornita la concezione del matrimonio da parte dei testimoni e degli avvocati, uno spaccato del costume ebraico. Per un’amica della donna i due sono semplicemente incompatibili, non vanno d’accordo, si può costringerla a non separarsi e sottostare a quella tortura? Per una vicina di casa ubbidiente e vittima del suo consorte in fondo i mariti vogliono solo rispetto, la pace della casa e salve le apparenze, il buon nome, l’onore, la perseveranza, una donna saggia sa quando parlare e quando tacere. In fondo la donna in questione – o sotto processo, il titolo originale è infatti Le Procès de Viviane Ansallem - ha la sicurezza, i beni materiali di cui abbisogna, lavora, ha un negozio, potrebbe perfino viaggiare e uscire con gli amici. Del resto poi quello della divorziata è un ruolo “sconveniente” nella società, forse un pericolo pubblico (come la Glenn Close di Attrazione Fatale). Il marito è solo pignolo, ma in fondo èesemplare e tratta la moglie in modo esemplare: non hanno ricongiungimenti carnali da anni ormai, non le ha mai messo le mani addosso e fa quello che deve fare. Decenza e morigeratezza: questo deve avere agli occhi degli altri una moglie osservante delle regole. E poi lui la ama, lei è il suo destino, dice. Ma non ha difetti, è un uomo perfetto, va alla sinagoga e non rinuncia ai precetti, vorrebbe la casa gestita secondo regole ebraiche e lei non lo fa (musica e motivo di colpevolezza per le orecchie dei rabbini …).
A Viviane quella vita ha provocato sofferenzae amarezza ed ora solo il marito Elisha ha il potere di concederle il divorzio, lei lo può solo implorare. E’ la libertà della donna in mani del marito. Dopo tante udienze si arriva alla conclusione, Elisha ha accettato di darle il divorzio, fisicamente un pezzo di carta scritto dal rabbino: il marito lo dà alla moglie che attende a palme aperte – come le ostie del rito cattolico – ma … c’è ancora un “ma”: la formula di rito prevede che lui le dica sei permessa a qualunque uomo e questo Elisha non riesce proprio a dirlo. Viviane dovrà fargli una promessa per ottenere quella “concessione”, un voto di castità praticamente, che speriamo sciolga presto.
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angelo umana
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venerdì 12 dicembre 2014
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legge cieca e non uguale per tutti
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115 minuti di un film che tiene legati allo schienale della poltrona: ci si vorrebbe liberare della ragnatela kafkiana di leggi, tra ebraiche, di costume e residualmente costituzionali, che tengono legata Viviane Ansallem al marito da cui chiede il divorzio, invece non riusciamo a distoglierci dalle immagini, si spera che alla fine il buon senso vinca e che questa donna riottenga la sua libertà. Lei è la star del cinema israeliano, l’affascinante 50enne Ronit Elkabetz – fattezze materne e nel film un viso sereno che dovrebbe esplodere di fronte all’ottusità del diritto – la quale del film è regista insieme al fratello più giovane Shlomi.
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115 minuti di un film che tiene legati allo schienale della poltrona: ci si vorrebbe liberare della ragnatela kafkiana di leggi, tra ebraiche, di costume e residualmente costituzionali, che tengono legata Viviane Ansallem al marito da cui chiede il divorzio, invece non riusciamo a distoglierci dalle immagini, si spera che alla fine il buon senso vinca e che questa donna riottenga la sua libertà. Lei è la star del cinema israeliano, l’affascinante 50enne Ronit Elkabetz – fattezze materne e nel film un viso sereno che dovrebbe esplodere di fronte all’ottusità del diritto – la quale del film è regista insieme al fratello più giovane Shlomi. L’ambientazione è in una fatiscente e scarna aula di giustizia israeliana, dove la corte è formata da tre rabbini e dal loro cancelliere che trascrive le deposizioni. Quasi inutile dire che si tratta di una pellicola bellissima, lega letteralmente alla poltrona.
Ci si vorrebbe liberare dal racconto di una separazione che secondo le leggi, ma più secondo il costume e la religione ebraica di stretta osservanza, è impossibile. Una cosa che in qualsiasi altro paese occidentale verrebbe sbrigata in breve tempo, solo prendendo atto della volontà di una delle parti (forse solo ancora in Italia le cause di divorzio durano tanto). Per arrivare alla fine delle udienze, rimandate di settimane bimestri e trimestri, occorreranno cinque anni e la “vivisezione” di un matrimonio durato una trentina d’anni, dopo un fidanzamento iniziato quando Viviane era 15enne, l’aver messo al mondo quattro figli e la coabitazione ventennale forzata con una suocera di origini marocchine. Ai vari teste viene chiesto se i due litigavano, se l’uomo avesse difetti fisici, se lei ha un pretendente: viene così fornita la concezione del matrimonio da parte dei testimoni e degli avvocati, uno spaccato del costume ebraico. Per un’amica della donna i due sono semplicemente incompatibili, non vanno d’accordo, si può costringerla a non separarsi e sottostare a quella tortura? Per una vicina di casa ubbidiente e vittima del suo consorte in fondo i mariti vogliono solo rispetto, la pace della casa e salve le apparenze, il buon nome, l’onore, la perseveranza, una donna saggia sa quando parlare e quando tacere. In fondo la donna in questione – o sotto processo, il titolo originale è infatti Le Procès de Viviane Ansallem - ha la sicurezza, i beni materiali di cui abbisogna, lavora, ha un negozio, potrebbe perfino viaggiare e uscire con gli amici. Del resto poi quello della divorziata è un ruolo “sconveniente” nella società, forse un pericolo pubblico (come la Glenn Close di Attrazione Fatale). Il marito è solo pignolo, ma in fondo èesemplare e tratta la moglie in modo esemplare: non hanno ricongiungimenti carnali da anni ormai, non le ha mai messo le mani addosso e fa quello che deve fare. Decenza e morigeratezza: questo deve avere agli occhi degli altri una moglie osservante delle regole. E poi lui la ama, lei è il suo destino, dice. Ma non ha difetti, è un uomo perfetto, va alla sinagoga e non rinuncia ai precetti, vorrebbe la casa gestita secondo regole ebraiche e lei non lo fa (musica e motivo di colpevolezza per le orecchie dei rabbini …).
A Viviane quella vita ha provocato sofferenzae amarezza ed ora solo il marito Elisha ha il potere di concederle il divorzio, lei lo può solo implorare. E’ la libertà della donna in mani del marito. Dopo tante udienze si arriva alla conclusione, Elisha ha accettato di darle il divorzio, fisicamente un pezzo di carta scritto dal rabbino: il marito lo dà alla moglie che attende a palme aperte – come le ostie del rito cattolico – ma … c’è ancora un “ma”: la formula di rito prevede che lui le dica sei permessa a qualunque uomo e questo Elisha non riesce proprio a dirlo. Viviane dovrà fargli una promessa per ottenere quella “concessione”, un voto di castità praticamente, che speriamo sciolga presto.
N.B. Il cinema è una storia che ci viene raccontata da altri e fatalmente con quella storia ci confrontiamo: qui si tratta dell’ottusità o cecità di certe norme, di costume o legali. Come non pensare che in Italia le norme le contravviene chi ha potere e mezzi per farla franca e poi si dà una multa a un pedone 85enne che a Pinerolo attraversava la strada troppo lentamente?
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veritasxxx
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giovedì 11 dicembre 2014
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diritto civile in medio oriente: sogno o realtà?
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E più dico di non voler più vedere film ambientati in un unico scenario, più ne incontro sulla mia strada. Viviane è decisamente meglio di altri dello stesso genere però, e si dipana con un ritmo serrato, nonostante la narrazione sia ambientata unicamente in un'aula di tribunale, di un processo nello stato di Israele. Con scene intramezzate da pause di mesi ed anni (almeno quelle ci vengono risparmiate per fortuna), vengono mostrate le beghe giudiziarie di una donna che chiede l'approvazione del divorzio dal marito e le difficoltà nell'ottenimento dell'accordo, che si trasforma in una vera e propria gara di resistenza civile (qualunque donna di buon senso sarebbe scappata di casa facendo perdere le sue tracce invece di passare anni lottando per ottenere la separazione che nello stato ebraico deve venire concessa - come un dono - dal marito).
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E più dico di non voler più vedere film ambientati in un unico scenario, più ne incontro sulla mia strada. Viviane è decisamente meglio di altri dello stesso genere però, e si dipana con un ritmo serrato, nonostante la narrazione sia ambientata unicamente in un'aula di tribunale, di un processo nello stato di Israele. Con scene intramezzate da pause di mesi ed anni (almeno quelle ci vengono risparmiate per fortuna), vengono mostrate le beghe giudiziarie di una donna che chiede l'approvazione del divorzio dal marito e le difficoltà nell'ottenimento dell'accordo, che si trasforma in una vera e propria gara di resistenza civile (qualunque donna di buon senso sarebbe scappata di casa facendo perdere le sue tracce invece di passare anni lottando per ottenere la separazione che nello stato ebraico deve venire concessa - come un dono - dal marito). Il quale sembra essere nel giusto, dal suo punto di vista: apparentemente impeccabile e moralmente retto ma molto abile a rovinare la vita degli altri con la sua testardaggine e le sue nevrosi (che poi sono un po', a livello più ampio, quelle dell'intero stato di Israele).
Mi chiedo perché la gente si sposi ancora quando è risaputo che dopo qualche anno non ci si sopporta più e poi sono solo tragedie. E in quella parte del mondo tanto più, considerato lo stato delle leggi in questo ambito, bisogna proprio essere masochisti per scambiarsi l'anello. Comunque, pur constatando un inevitabile senso di soffocamento dopo la prima ora di proiezione, restano degne di nota le ottime recitazioni degli attori, tutti molto validi, soprattutto la coppia che interpreta marito e moglie. Nonostante la staticità delle immagini, le atmosfere "magistralmente" cupe e il senso di angoscia che sarà naturale provare per la povera donna, Viviane rimane una bella lezione di diritto internazionale, soprattutto per chi non è mai riuscito a completare gli studi per quella laurea in giurisprudenza che aveva intrapreso con tanto entusiasmo. Ma se nutrite sentimenti vagamente antisemiti, temo che questo film non aiuterà molto a curare i vostri istinti xenofobi.
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dario bottos
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domenica 7 dicembre 2014
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i vincoli e la libertà
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E' un film rigoroso che sembra riproporre gli stilemi della tragedia greca, anche se incruenta: il fato con cui gli umani si scontrano è anche qui la volontà (interpretata dalla legge rabbinica) di un dio, che concede solo al maschio il diritto porre fine ad un matrimonio; c'è l'accettazione totale delle regole ("stare al proprio posto"), che pone lo spettatore di una società più laica in una condizione di angoscia; c'è il coro che contrappunta il dramma dei due protagonisti; c'è l'unità di luogo (le aule di uno spoglio tribunale) e, apparentemente, di tempo, se non fosse per le didascalie che scandiscono l'inesorabile trascorrere di cinque anni. Attori bravi, essenziali, capaci di scomporre tutto lo spettro emozionale di una storia solo superficialmente lineare, ma che rappresenta (classicamente) l'eterna lotta tra gli impulsi interni dell'animo e i vincoli esterni (degli altri, della società, del mondo).
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E' un film rigoroso che sembra riproporre gli stilemi della tragedia greca, anche se incruenta: il fato con cui gli umani si scontrano è anche qui la volontà (interpretata dalla legge rabbinica) di un dio, che concede solo al maschio il diritto porre fine ad un matrimonio; c'è l'accettazione totale delle regole ("stare al proprio posto"), che pone lo spettatore di una società più laica in una condizione di angoscia; c'è il coro che contrappunta il dramma dei due protagonisti; c'è l'unità di luogo (le aule di uno spoglio tribunale) e, apparentemente, di tempo, se non fosse per le didascalie che scandiscono l'inesorabile trascorrere di cinque anni. Attori bravi, essenziali, capaci di scomporre tutto lo spettro emozionale di una storia solo superficialmente lineare, ma che rappresenta (classicamente) l'eterna lotta tra gli impulsi interni dell'animo e i vincoli esterni (degli altri, della società, del mondo). Il film potrebbe anche richiamare una situazioni kafkiana di fronte alla legge, quella legge che - non a caso - è stata interpretata come la Legge per eccellenza, nella sua estremizzazione più intransigente e lontana dall'umana comprensibilità. Ammirevole poi che questa analisi arrivi dalla stessa società israeliana, dove agiscono pulsioni molto forti e contrapposte.
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flyanto
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venerdì 5 dicembre 2014
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quanto è estenuante e inutile un lungo processo di
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Film in cui si racconta dell'intero, lungo ed estenuante processo che si svolge nel tribunale dei rabbini per la richiesta di divorzio dal marito da parte di una donna di nome Viviane. Secondo le leggi ebraiche il divorzio deve essere concesso solo dal marito e poichè questi si rifiuta, la protagonista dovrà subire una sorta di calvario penoso ed assurdo al fine di fare valere la propria volontà ed ottenere finalmente lo scioglimento dal legame matrimoniale.
Quest'opera,diretta (nonchè interpretata e sceneggiata) dall'attrice/regista israeliana Ronit Elkabetz e da suo fratello Shlomi, consiste in un esplicito documento, nonchè un atto di accusa, a certe leggi assurde che regolano ilk popolo israeliano in materia specificatamente di diritto di famiglia.
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Film in cui si racconta dell'intero, lungo ed estenuante processo che si svolge nel tribunale dei rabbini per la richiesta di divorzio dal marito da parte di una donna di nome Viviane. Secondo le leggi ebraiche il divorzio deve essere concesso solo dal marito e poichè questi si rifiuta, la protagonista dovrà subire una sorta di calvario penoso ed assurdo al fine di fare valere la propria volontà ed ottenere finalmente lo scioglimento dal legame matrimoniale.
Quest'opera,diretta (nonchè interpretata e sceneggiata) dall'attrice/regista israeliana Ronit Elkabetz e da suo fratello Shlomi, consiste in un esplicito documento, nonchè un atto di accusa, a certe leggi assurde che regolano ilk popolo israeliano in materia specificatamente di diritto di famiglia. Chiaramente si intuisce che la tradizione è quella ancor' oggi a prevalere sebbene, appunto, le condizioni sociali e degli individui stessi siano ormai cambiate ed in continua evoluzione. Ma i due registi, che espongo peraltro i fatti senza intervenire direttamente ma raccontandoli in maniera quanto mai obiettiva, portano avanti e conducono direttamente lo spettatore all'evidente critica negativa di un sistema di vita e giudiziario ormai ampiamente superato e dunque quanto mai anacronistico nella società contemporanea dove le donne ormai hanno una propria occupazione ed acquisiscono una propria indipendenza economica e come persona in sè.
La vicenda viene presentata con un andamento teatrale in quanto si svolge in un unico ambiente, l'aula appunto del tribunale presieduto dai rabbini, dove via via si susseguono, in supporto o meno dei due coniugi, che costituiscono invece la presenza fissa del film, vari personaggi che interpretano i rispettivi avvocati o i parenti o dei vicini di casa amici. Il tutto viene dai due fratelli registi scandito con un ritmo lento ed inesorabile atto proprio a rendere l'idea della lungaggine, nonchè e soprattutto inutilità, dell'intera transazione ed efficace alla resa di tutto l'intero film è ovviamente l' ottima recitazione degli attori (la regista/attrice Ronit particolare), appartenenti, e più o meno già visti tutti, al cinema israeliano, che interpretano i ruoli del marito e della moglie, rendendoli quanto mai veri e reali.
Un vero gioiello di film dove anche la lunghezza di quasi due ore non pesa assolutamente in chi lo guarda e soprattutto è capace ad apprezzarlo pienamente.
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mafalda59
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mercoledì 3 dicembre 2014
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che rabbia!
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io non sopporto i fondamentalisti...e questi lo sono..come succede in tante altre religioni! Film bellissimo e avvincente ma che rabbia quella limitazione di libertà!
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pepito1948
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martedì 2 dicembre 2014
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un paese in bilico tra modernità e tradizione
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Appare subito difficile l’impresa di Viviane in un Paese come Israele in cui il contrasto tra religione di Stato e laicismo e parallelamente tra maschilismo e libertà di audeterminazione della donna è totalmente squilibrato. L’assenza del matrimonio civile, e di conseguenza la competenza esclusiva dei tribunali rabbinici in tema di divorzio della donna la dicono lunga sulla precaria condizione femminile in quel Paese, generalmente additato come esempio di modernità e di funzionalità democratica.
Procedendo oltre, la causa di divorzio intentata dalla donna dipende imprescindibilmente dal consenso del marito, non essendo la sentenza dei giudici- rabbini esecutiva senza quell’adesione, a meno che il marito venga meno ad alcuni obblighi previsti dalla legge (che in materia di diritto familiare recepisce in toto la legge ebraica), e questo non è il caso in esame.
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Appare subito difficile l’impresa di Viviane in un Paese come Israele in cui il contrasto tra religione di Stato e laicismo e parallelamente tra maschilismo e libertà di audeterminazione della donna è totalmente squilibrato. L’assenza del matrimonio civile, e di conseguenza la competenza esclusiva dei tribunali rabbinici in tema di divorzio della donna la dicono lunga sulla precaria condizione femminile in quel Paese, generalmente additato come esempio di modernità e di funzionalità democratica.
Procedendo oltre, la causa di divorzio intentata dalla donna dipende imprescindibilmente dal consenso del marito, non essendo la sentenza dei giudici- rabbini esecutiva senza quell’adesione, a meno che il marito venga meno ad alcuni obblighi previsti dalla legge (che in materia di diritto familiare recepisce in toto la legge ebraica), e questo non è il caso in esame.
La verità è che Viviane non ama più il marito, da tempo è fuori casa, conduce una vita esemplare, si occupa dei figli, non frequenta altri uomini. Ha lottato invano per decenni per ricevere un’attenzione concreta, un amore “fattivo” e non una presenza neutra e sbiadita dal compagno di vita, che, non trovandosi in alcuna condizione impeditiva, è inattaccabile e, forte di questo, rifiuta il consenso. L’asserita incompatibilità di Viviane di convivere con quell’uomo non lascia altra possibilità che adire il tribunale rabbinico, pregiudizialmente contrario –sulla base della legge della Torah- al divorzio e comunque obbligato a tentare il tutto per tutto per una riconciliazione.
Tutto si svolge in un’aula giudiziaria e, per l’atteggiamento dilatorio dei giudici, la causa procede a rilento e durerà ben 5 anni. Una kermesse che diventa sempre più una battaglia senza esclusione di colpi, sortite a sorpresa, pressioni psicologiche, basse insinuazioni, toni mutevoli fino all’ira, alla disperazione, alla commozione, in un contesto da thriller ad altissimo voltaggio emotivo, dove solo l’intervento ameno di qualche testimone allevia la palpabile tensione.
Al centro di tutto sta il coraggio di una donna laica, bella, onesta (secondo i dettami della morale e della legge ebraica) protesa a far valere le proprie ragioni in termini di libertà di scelta in una fossa dominata da leoni- uomini schierati dalla stessa parte, tutti tranne uno a cui sono interamente affidate le scarse speranze di vittoria della querelante. L’incomprensibile perseveranza negativa del marito e lo scontro che ne deriva surriscalda gli animi fino all’esasperazione alimentata anche dalla durata infinita della vertenza, che infine si chiuderà con un compromesso. Per alcuni amaro, per altri soddisfacente.
Una stanza bianca ma opaca ospita un processo che fin da subito appare segnato da un esito pressoché scontato. Un micro mondo dove le azioni e reazioni si inseguono senza tregua e a tutti è data la possibilità di esprimere la propria posizione. Nello scontro generale si stagliano le figure trainanti dei due difensori, l’uno nuovo al quel ruolo e pronto ad ogni sottile perfidia pur di salvare l’onore del fratello imputato, l’altro, avvocato, sostenuto da una crescente passione forse non soltanto professionale, ligio ai doveri di etica deontologica e recalcitrante ad una visione legata da vincoli e lacciuoli posti dal rigore e dalla cieca ritualità della legge religiosa. I punti di vista dei personaggi circolano senza sosta e sono sostenuti dalla macchina da presa sempre in asse tra chi guarda e chi è guardato, il che porta ad inquadrature irrituali, dal basso verso l’alto e viceversa, di fianco, che assecondano l’alternarsi degli sguardi. Un dinamismo attenuato solo dai frequenti primi piani, soprattutto della querelante, oggetto di sguardi ambigui e capace di trasmettere ad una corte bigotta ed intransigente una involontaria sensualità anche con il solo sciogliersi i capelli. Un’eroina forte e fragile, in balia di forze sovrastanti ma mai rassegnata a perdere la propria identità di donna pugnace fino allo stremo.
I due registi israeliani (fratello e sorella) disegnano un quadro feroce delle dinamiche dei rapporti di genere nel loro Paese, consentendo il massimo di confronto tra tesi diverse , creando magistralmente un clima di tensione che risucchia anche nei momenti di pausa tra un’udienza e l’altra lo spettatore, quasi che volesse farsi carico della frustrazione e dell’iniquità di quell’esperienza, della crudeltà del tempo che (non) passa, e nel contempo del fardello di protervia di un mondo maschilista che non rinuncia neanche davanti a tanta sofferenza a mantenere l’ultima parola, quella decisiva, perché così è scritto.
La coppia di registi, di cui lei è anche meravigliosa protagonista, sfiorano il capolavoro avvalendosi di un cast a livelli di rara eccellenza, di uno stile innovativo nell’uso della macchina da presa, di una perfetta fluidità del racconto, di una capacità notevole di gestire i movimenti dei personaggi ed i registri tonali, di dialoghi mai vacui, questa volta efficaci anche grazie ad un doppiaggio all’altezza. Splendido.
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