ultimoboyscout
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sabato 5 settembre 2015
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doc sportello, il nuovo drugo.
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Storia tratta dall'omonimo romanzo del 2009 di Thomas Pyncheon, ambientata a Gordita Beach, in California nel 1970 sul finire dell'epoca hippie. Larry "Doc" Sportello è un bizzarro detective privato che cerca di salvare la sua ex fidanzata Shasta dai loschi traffici del suo amante, un palazzinaro vicino agli ambienti mafiosi. Come è logico che sia, Doc finisce in un giro ben più grande di lui, in cui gli capiterà davvero di tutto. Va in scena un vero e proprio circo fatto di assurdi personaggi disillusi dalla controcultura, call girls, cliniche totalitarie e la misteriosa organizzazione conosciuta come Golden Fang, che controlla il traffico di stupefacenti.
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Storia tratta dall'omonimo romanzo del 2009 di Thomas Pyncheon, ambientata a Gordita Beach, in California nel 1970 sul finire dell'epoca hippie. Larry "Doc" Sportello è un bizzarro detective privato che cerca di salvare la sua ex fidanzata Shasta dai loschi traffici del suo amante, un palazzinaro vicino agli ambienti mafiosi. Come è logico che sia, Doc finisce in un giro ben più grande di lui, in cui gli capiterà davvero di tutto. Va in scena un vero e proprio circo fatto di assurdi personaggi disillusi dalla controcultura, call girls, cliniche totalitarie e la misteriosa organizzazione conosciuta come Golden Fang, che controlla il traffico di stupefacenti. A pedinarlo il poliziotto con velleità d'attore Bigfoot, interpretato da un bravissimo Josh Brolin, che incarna paranoia e fragilità dell'epoca e che sa tirar fuori qualcosa di triste al limite del tragico nel suo essere divertente. Su tutto questo aleggia l'ombra della grande paranoia a seguito della strage della famiglia Manson. Film piuttosto complesso e labirintico, un noir d'altri tempi in stato d'ipnosi che si fa forza di interpretazioni corali, notevolissime e sulfuree di un cast straordinario e cita senza mezzi termini le più classiche detective story con sguardo psichedelico e allucinato. La pellicola ricostruisce con una certa fedeltà e ricchezza di particolari, ma anche in maniera ironica e grottesca, la sottocultura degli anni '60, è il tassello forse più importante (sicuramente il più estremo e il più femminile) dell'amaro affresco americano dipinto negli ultimi 20 anni dal regista Paul Thomas Anderson. Film che definire particolare è dire poco, va avvicinato con una certa cautela, bello senza dubbio, ma rappresenta un'esperienza fisica da affrontare con occhi aperti e testa attiva ma soprattutto di pancia perchè spesso non segue nemmeno un filo logico, filo sottilissimo che unisce assurdo reale ma che procede spedito e sicuro aiutato da un Joaquin Phoenix enorme e dalla sorpresa Katherine Waterston, assolutamente monumentale. Phoenix da anima e corpo ad un personaggio stonato e sognatore, puro in un mondo di contaminati, un protagonista bellissimo, dolente e stralunato, circondato da un universo fatto di personaggi ben oltre il surreale. Sportello è il simbolo della fine di un'epoca, emana profonda tristezza, è un irregolare che finge di non capire il mondo e non accetta che cambi e appare davvero il fratello separato alla nascita del Drugo di Jeff Bridges. Non è un blockbuster e nemmeno un campione d'incassi, un classico moderno da vedere e rivedere semmai, un trip non da capire ma da assecondare, un flusso di coscienza di due ore e mezza che mescola follemente cultura pop, fumetti, droghe collettive (marijuana) a droghe solitarie (eroina), musica e surf a un'idea acida e pazzoide. Anderson gira il tutto in 35 mm per rendere ancora meglio lo stile seventies e grazie a colori saturi e a un'ottima fotografia confeziona probabilmente il suo miglior film. In tutta questo delirio fatto di assurdo e surreale è assolutamente assurdo e surreale che Joaquin Phoenix non sia stato candidato agli Oscar nel novero degli Attori Protagonisti.
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catcarlo
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martedì 3 marzo 2015
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vizio di forma
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Lasciate ogni logica, voi ch’intrate. Sommando la tendenza a non raccontare proprio tutto tipica del regista con il procedere labirintico dei romanzi di Thomas Pynchon (seppure quello alla base del film sia il più ‘lineare’ tra mille virgolette) c’era da aver paura di perdersi in questa pellicola oltretutto ascrivibile a un genere che adora i doppifondi come il noir. Invece Anderson ha in qualche modo riscritto il libro, ottenendone comunque l’imprimatur dall’autore: ha così fatto davvero sua la storia che, pur restando fondamentalmente pynchoniana, finisce per discostarsi dalla banale illustrazione dell’originale. Per farlo, è stato necessario sfrondare parecchio, anche perché altrimenti ci sarebbero volute dieci ore invece delle comunque corpose due e mezza: a farne le spese soprattutto la scena musicale – lo scoppiatissimo gruppo surf dall’assai instabile formazione e l’esilarante band inglese in visita – la deviazione a Las Vegas e alcuni passaggi più surreali, come la chiacchierata del protagonista con un’effigie di Thomas Jefferson.
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Lasciate ogni logica, voi ch’intrate. Sommando la tendenza a non raccontare proprio tutto tipica del regista con il procedere labirintico dei romanzi di Thomas Pynchon (seppure quello alla base del film sia il più ‘lineare’ tra mille virgolette) c’era da aver paura di perdersi in questa pellicola oltretutto ascrivibile a un genere che adora i doppifondi come il noir. Invece Anderson ha in qualche modo riscritto il libro, ottenendone comunque l’imprimatur dall’autore: ha così fatto davvero sua la storia che, pur restando fondamentalmente pynchoniana, finisce per discostarsi dalla banale illustrazione dell’originale. Per farlo, è stato necessario sfrondare parecchio, anche perché altrimenti ci sarebbero volute dieci ore invece delle comunque corpose due e mezza: a farne le spese soprattutto la scena musicale – lo scoppiatissimo gruppo surf dall’assai instabile formazione e l’esilarante band inglese in visita – la deviazione a Las Vegas e alcuni passaggi più surreali, come la chiacchierata del protagonista con un’effigie di Thomas Jefferson. Inoltre, l’atmosfera d’insieme risulta meno paranoica di quella creata da Pynchon, che ha nella paranoia una sorta di un marchio di fabbrica, ma sull’altro piatto della bilancia il regista getta la scelta di inserire le parole dello scrittore attraverso la maggiore importanza attribuita al ruolo di Sortilége (Joanna Newsom) che diventa qui quasi una cantastorie delle vicende di Doc Sportello. Interpretato da uno strepitoso Joaquin Phoenix in una nuova prova camaleontica, il detective privato si muove su input di una sua ex fiamma che teme per il destino del proprio attuale, ricco amante. Come un sasso in uno stagno, l’indagine che parte da una poco eccitante questione di corna inizia ad allargarsi tra speculazione edilizia, traffico di droga e una holding criminale che, ricordando vagamente la Spectre, sembra allungare i suoi tentacoli ovunque: tra colpi di fortuna e abilità investigativa, Doc trova in qualche modo il bandolo, dimostrando come, malgrado il suo essere sballato per gran parte del tempo, la sua etica sia presa di preso da quella di Marlowe e a spingerlo sia l’amore mai sopito per Shasta Fay (un incantevole Katherine Waterston). Per arrivare alla conclusione, Sportello deve affrontare una serie di situazioni e personaggi ai limiti della follia o anche un bel po’ oltre grazie alle quantità industriali di droga che vengono assunte ed è del tutto impossibile cercare di farne un elenco completo: Doc ha come amante una vice-procuratore (Reese Witherspoon) ed è perseguitato da un cazzuto poliziotto wasp che però è anche una sorta di suo alter-ego (Josh Brolin), ma gli capita pure di andare a sbattere in un dentista cocainomane e pedofilo come il sovraeccitato dottor Blatnoyd di Martin Short. Del resto, la Spectre di cui sopra si chiama Zanna d’Oro (Golden Fang), che è anche il nome di una nave che trasporta droga su cui forse ha viaggiato Shasta probabilmente come conseguenza del suo rapporto con il palazzinaro Wolfman (Eric Roberts) che però finisce in una clinica per disintossicarsi gestita dalla Zanna stessa: solo un piccolo esempio degli incastri della vicenda, ma anche il modo per accennare finalmente a una parte visiva, fotografata da Robert Elswit, che è del tutto all’altezza. Sulla facciata della clinica, infatti,il motto ‘Straight is hip’ richiama nella forma il cancello di Auschwitz: una delle tante invenzioni disseminate qua e là, come la visita nell’allucinato deserto in cui dovrebbero sorgere i Channel View estates di Wolfman o le scene nebbiose quando i personaggi sono annebbiati dentro oppure ancora la surreale consegna di una partita di droga in un parcheggio deserto. L’estetica da inizio anni Settanta è particolarmente efficace, tra macchinoni, colori netti e (ovviamente) tubi al neon che contrastano con gli ambienti più indefiniti e orientaleggianti della comunità hippie, di cui Sportello resta uno degli ultimi, orgogliosi rappresentanti: il film è difatti (anche) questo, come del resto il romanzo, e cioè l’elegia di un’epoca al tramonto, minacciata dal diffondersi dell’eroina e dalla normalizzazione reaganiana. In fondo, in una Los Angeles strozzata da smog e cemento, i vecchi poteri dimostrano ancora di essere i più forti dietro gli occhi di ghiaccio dell’avvocato Fenway (Martin Donovan) e la vittoria di Doc è chandlerianamente amara e momentanea come breve è stato il movimento hippie, la cui dimensione sognante riappare all’improvviso nella scena di Sportello e Shasta sotto la pioggia accompagnata da ‘Harvest’ di Neil Young. La colonna sonora è, del resto, altrettanto importante, con una serie di pezzi scelti con cura (mentre la partitura originale è di Jonny Greenwood) anche se in gran parte eseguiti da artisti poco conosciuti: da citare almeno è però l’utilizzo di ‘Vitamin C’ (sui titoli di testa) e ‘Soup’ dei Can. Sommando tutti questi ingredienti, Anderson vince la sfida di filmare uno scrittore di norma ritenuto infilmabile con un’opera che non è un capolavoro assoluto – e forse nemmeno personale essendo, ad esempio, ‘The master’ più emozionante – ma ha comunque grandissime qualità, compresa, a dispetto di molti fattori, quella di intrattenere.
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storie di cinema
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giovedì 5 marzo 2015
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vizio più di sostanza che di forma
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Paul Thomas Anderson è una mente precoce che ha plasmato il suo carattere di regista guardandosi bene dalle cose semplici. E lo ha fatto perlopiù affrontando con occhio clinico la profondità umana di personaggi complessi e gli intrecci, rocamboleschi e fatali, degli stessi. Boogie night, Magnolia e il Petroliere - il suo capolavoro - sono ti[+]
Paul Thomas Anderson è una mente precoce che ha plasmato il suo carattere di regista guardandosi bene dalle cose semplici. E lo ha fatto perlopiù affrontando con occhio clinico la profondità umana di personaggi complessi e gli intrecci, rocamboleschi e fatali, degli stessi. Boogie night, Magnolia e il Petroliere - il suo capolavoro - sono titoli importanti che hanno lasciato un segno nel cinema di almeno un decennio. Ed proprio sulla scia di questo corposo bagaglio che il regista americano ha intrapreso la via del noir, portando al cinema col medesimo titolo il romanzo di Thomas Pynchon Vizio di forma – titolo originale Inherent vice. Ecco quindi un eccentrico investigatore privato hippie (Joaquin Phoenix) alle prese con loschi affari e intrecci riguardanti sette ariane, un poliziotto ossessivo che lo perseguita, amanti, rapimenti, ricchi immobiliaristi, una famiglia di tossici, l'ex fidanzata, traffici di droga, federali e via dicendo. È senz’altro un noir atipico, ibrido, che, tuttavia, raccoglie molti caratteri del genere e che Anderson, da ottimo compositore, ha saputo magistralmente assemblare rendendolo accattivante nel suo insieme e superbo nelle atmosfere. Vizio di forma ha la stoffa giusta per suscitare reminiscenze e fascinazioni importanti, tipiche di quel manierismo cinematografico che spesso ci ha regalato belle opere ripercorrendo e rivisitando le gloriose vicende di certi filoni intramontabili del cinema. La Los Angeles calda e ambigua di Chinatown, personaggi degni del miglior grottesco targato Coen, qualche affinità con la perfezione de Il grande sonno – anche se un complesso filmico che parte da Chandler, scritto da Faulkner, girato da Hawks e interpretato da Bogart mette una certa soggezione solo a nominarlo – e le suggestioni de Il lungo addio. Esplicitamente altmaniana è anche la regia, fatta di lunghe sequenze, fitti dialoghi e una cinepresa che senza stacchi si avvicina lentamente ai protagonisti quasi volesse soffocarli nello specchio del suo campo. Ma all'interno di questa virtuosa cornice d'autore si racchiude un qualcosa di magmatico, di confuso, a tratti insensato. Una specie di carattere fugace, ingordo di situazioni, cose, persone, in grado di toccare numerosi punti tematici senza assorbirne l'essenza, spinto da quel formalismo invadente capace di prendere il sopravvento sulla scrittura e sulla effettiva forza trascinatrice della storia. Siamo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quindi i movimenti hippie, Nixon, Charles Manson, la libertà sessuale, l'umorismo grossolano e l'abuso di droghe rappresentano chiari elementi generazionali di elevato potere simbolico che Anderson, proprio nel momento in cui la relazione tra persone ed eventi richiederebbe un filo conduttore quantomeno deducibile, disperde con eccesso di fretta tra le pretese fin troppo compiaciute della sua inebriante arte di cineasta. Il risultato è una trama complicatissima che, dopo un eccellente inizio, non tarda a rivelare una scorrimento faticoso, labirintico, che per oltre due ore continua ad accumulare situazioni appesantendo oltremodo la parte narrativa principale. Ne fanno le spese sia l'aspetto meramente espositivo legato agli eventi, sia quel parlare oltre il film che vorrebbe raccontarci il crepuscolo di un’epoca incerta, paranoica e allucinata. Lascia più di un dubbio Vizio di forma. Anderson ha fatto un grande lavoro dietro la macchina da presa; i suoi personaggi sono belli, si muovono bene, dialogano magnificamente sotto il riflesso accecante del sole californiano o sotto la vivida luce blu di qualche neon. Ma spingersi oltre la meraviglia delle singole parti risulta un’operazione ardua e, al netto di una volontà forse incompresa, abbastanza inutile. Se con Vizio di forma Paul Thomas Anderson voleva dimostrare di saper costruire in grande stile un noir moderno, si può tranquillamente accreditargli tutto il merito di questo buon risultato. Ma se nel suo intento c’e stata la volontà di reinventare le basi e il concetto di un genere alla maniera di Roman Polanski – obiettivo tutt'altro che sproporzionato per un talento come quello di Anderson -, beh, allora i conti non tornano fino in fondo.
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killbillvol2
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martedì 3 marzo 2015
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il vizio intrinseco di vizio di forma
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"Will your restless heart come back to mine On a journey through the past." canta Neil Young per ben due volte nella pellicola di Anderson. E anche: "Will I still be in your eyes and on your mind?" Domande che rispondono alle molteplici che compaiono nella mente dello spettatore frastornato dopo le due ore e mezza piene di indagini, colpi di scena improbabili, latte materno drogato, detective fascisti, Fratellanza Ariana, spinelli, eroina, dentisti spacciatori e evasori fiscali, culti capitanati da brutti ceffi con svastica in fronte (ma è un antico simbolo indu che significa "va tutto bene"), mazze da baseball, mariti resuscitati, ricordi scordati di un passato ancora più remoto di quello raccontato, ultime cene Da Vinciane con pizze al posto dei canonici vino e pane, ma, soprattutto, la fine di un'epoca mai del tutto iniziata.
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"Will your restless heart come back to mine On a journey through the past." canta Neil Young per ben due volte nella pellicola di Anderson. E anche: "Will I still be in your eyes and on your mind?" Domande che rispondono alle molteplici che compaiono nella mente dello spettatore frastornato dopo le due ore e mezza piene di indagini, colpi di scena improbabili, latte materno drogato, detective fascisti, Fratellanza Ariana, spinelli, eroina, dentisti spacciatori e evasori fiscali, culti capitanati da brutti ceffi con svastica in fronte (ma è un antico simbolo indu che significa "va tutto bene"), mazze da baseball, mariti resuscitati, ricordi scordati di un passato ancora più remoto di quello raccontato, ultime cene Da Vinciane con pizze al posto dei canonici vino e pane, ma, soprattutto, la fine di un'epoca mai del tutto iniziata. E' di questo che parla Vizio di Forma: non si è più liberi di farsi uno spinello in casa, magari sotto suggerimento di una tavola Ouija, di avere il proprio orticello, perché la cocaina, l'eroina, le droghe dei ricchi stanno prendendo il sopravvento, come una Zanna d'Oro che si erge imponente in mezzo alla città. Come una nave che scruta la riva, ma che mai attracca, il nostro eroe Doc Sportello si muove a tentoni in mezzo a nomi, fatti, eventi sconnessi e scollegati tra loro e neanche lui sa come il mistero si sia risolto e, soprattutto, se quel mistero sia mai accaduto. In preda ad un continuo trip, la realtà si mescola con la finzione tanto da eliminare svolte decisive per le indagini, come noi spettatori.
Anderson filma con nostalgia un periodo storico già nostalgico e già fuori posto e fuori tempo massimo, rappresentato dal paranoico fattone e più in forma che mai Joaquin Phoenix, ultimo dei romantici, drogato dall'illusione dei tempi, innamorato del passato che si manifesta sotto le mentite spoglie di Shasta, sua ex fidanzata. Un angelo. Come Sortilège, figura di per sé insignificante, innalzata a narratrice onnisciente, sarcastica, malinconica e ironica. Come il film, derivato ma mai derivativo, figlio dei noir anni 40 (Il Grande Sonno sopra tutti, dal quale, come Il Grande Lebowski prima di lui, prende la trama incomprensibile) e di Altman (Il Lungo Addio e la già citata Ultima Cena), come i precedenti film di un regista che, su materia già vista come questa, riesce a diffondere e infondere una linfa vitale, ma, soprattutto, personale. E' così che ci troviamo davanti a lunghi piani sequenza mai invadenti (impara, Cuaròn) e quasi invisibili (il dialogo tra l'ottima Waterston e Phoenix è pazzesco ed esemplare), personaggi ripresi solamente dalla vita in giù, campi lunghissimi, e la pellicola volutamente "scaduta" e perciò rarefatta circonda ogni personaggio o situazione di un alone tragico, ma grottesco, divertente, ma disilluso. Certo, da metà in poi smette di essere confuso e diventa confusionario, perde leggermente in ritmo e in verve, si sfilaccia narrativamente. Diventa ridondante, ripetitivo, meno appassionante e coinvolgente, vittima del suo "vizio intrinseco". Ma è un noir, e più dell'intreccio contano i personaggi, e più dei personaggi conta l'atmosfera. E quella c'è tutta e ci riesce a far respirare il fumo di Sportello, a farcelo inalare e a farci "sballare", accavallando eventi, situazioni, strani e loschi figuri, riuscendo a farci ridere di una bambina distrutta dal latte infettato di eroina. Pochi registi sono ancora in grado di farci davvero vivere le loro pellicole.
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dhany coraucci
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domenica 8 marzo 2015
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lampi poetici folgoranti come un fuoco d'artificio
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Gli hippy non mi piacciono, i fattoni nemmeno, odio i film lisergici, non sono mai riuscita a leggere più di qualche riga dei libri di Pynchon e il regista, Anderson, a mio parere ha fatto film bellissimi ma anche bruttissimi, per cui tutto remava a mio sfavore. Cosa mi ha indotto ad accomodarmi in sala armata di una santa pazienza proprio non lo so, immagino la considerassi una sfida, all'ultimo sangue. Ma ho dovuto gettare la spugna e in qualche modo arrendermi, perché questo film mi è piaciuto: sì, mi è piaciuto, perché fin dalla prima inquadratura, lo scorcio di mare tra i caseggiati e la splendida voce fuori campo della narratrice Sortilège; la luce azzurra che brilla tra i muri e quella voce illuminante, il mare che ritorna più volte, a cui è dedicato ad un certo punto una bellissima e poetica dissertazione sul tempo, mi ha fatto capire ciò che non devo dimenticare mai: i pareri vanno ascoltati, ma i film vanno visti con i propri occhi e giudicati in prima persona, naturalmente se si pensa che ne valga la pena.
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Gli hippy non mi piacciono, i fattoni nemmeno, odio i film lisergici, non sono mai riuscita a leggere più di qualche riga dei libri di Pynchon e il regista, Anderson, a mio parere ha fatto film bellissimi ma anche bruttissimi, per cui tutto remava a mio sfavore. Cosa mi ha indotto ad accomodarmi in sala armata di una santa pazienza proprio non lo so, immagino la considerassi una sfida, all'ultimo sangue. Ma ho dovuto gettare la spugna e in qualche modo arrendermi, perché questo film mi è piaciuto: sì, mi è piaciuto, perché fin dalla prima inquadratura, lo scorcio di mare tra i caseggiati e la splendida voce fuori campo della narratrice Sortilège; la luce azzurra che brilla tra i muri e quella voce illuminante, il mare che ritorna più volte, a cui è dedicato ad un certo punto una bellissima e poetica dissertazione sul tempo, mi ha fatto capire ciò che non devo dimenticare mai: i pareri vanno ascoltati, ma i film vanno visti con i propri occhi e giudicati in prima persona, naturalmente se si pensa che ne valga la pena. Anderson è un artista e ne vale la pena, pur se non sempre in forma eccelsa. Dunque ero preparata a un film strafatto, senza un vero filo logico, nebuloso e psichedelico e non ho cambiato parere al riguardo, le orripilanti basette anni '70 non fanno per me. Non ero preparata invece a un film poetico, intriso di letteratura e di splendide, travolgenti illuminazioni, brevi e folgoranti come i fuochi d'artificio. Anche la figura di Shasta Fey, l'ex fidanzata del detective Doc Sportello ( i nomi dei personaggi sono già uno sballo) che arriva come le dark lady di Chandler ad avvelenare di tormento e di passione lo sfortunato e spiantato investigatore, ha una sua poesia bellissima e le descrizioni che la narratrice le dedica, pur se rapide, sono di una tale potenza letteraria che incanta. Non c'è qui, a dire il vero, la disperazione tipica del noir e dell'hard boiled, perché poi l'indagine si ingarbuglia e si perde e nemmeno ho percepito l'amarezza che molti hanno ravvisato sulla fine del sogno americano hippie, però una sottile malinconia sì, c'è; Joaquin Phoenix non so se recita o meno, ma a me sembra sempre un uomo un po' malinconico e qui, inseguendo la sfuggente Shasta, ha una sua struggente vena romantica, sottolineata infatti dalle note toccanti, d'amore, della dolcissima Harvest di Neil Young. Gli altri attori, Josh Brolin e Owen Wilson, ma ancora di più nelle loro brevissime apparizioni Eric Roberts e Martin Donovan, che non vedevo da un secolo, sono bravi, bravi! E bravo infine Anderson, come regista ma soprattutto come sceneggiatore di un testo inavvicinabile che è riuscito a dare poesia anche a quel “vizio di forma” il quale, sebbene non sia propriamente spiegato, rimane impresso, come negli occhi i lampi di uno spettacolo pirotecnico.
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flyanto
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venerdì 6 marzo 2015
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un mirabile affresco degli anni '70
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Film in cui si racconta di un piuttosto scalcinato detective, dedito a bere ed a fumare droghe di ogni tipo, al quale viene affidato il compito da una sua ex fidanzata, ora amante di un anziano e ricco magnate dell'edilizia, di scoprire un piano ordito ai danni di quest'ultimo. Vi riuscirà dopo innumerevoli avventure e dopo essere entrato nel frattempo in contatto con svariati e strani personaggi..... [+]
Film in cui si racconta di un piuttosto scalcinato detective, dedito a bere ed a fumare droghe di ogni tipo, al quale viene affidato il compito da una sua ex fidanzata, ora amante di un anziano e ricco magnate dell'edilizia, di scoprire un piano ordito ai danni di quest'ultimo. Vi riuscirà dopo innumerevoli avventure e dopo essere entrato nel frattempo in contatto con svariati e strani personaggi.....
Quest'ultima opera di Paul Thomas Anderson risulta in pratica un quanto mai preciso affresco dei passati anni '70: infatti la vicenda si svolge a Los Angeles nel corso del suddetto decennio ed il regista presenta in una maniera quanto mai dettagliata, efficace e mirabile quest' epoca e la comunità di più o meno giovani hippies che la vivevano, riproponendola in tutte le sue manifestazioni e, cioè, dallo stile di vita alternativo delle persone, ai loro abiti molto colorati e ricamati adorni di perline e grandi cappelli in testa ed occhiali da sole, agli ambienti interni ed esterni arredati secondo il gusto e la moda dell' epoca sino ad una nutrita e nostalgica compilation di brani di quel periodo, divenuti ormai intramontabili. La pellicola in realtà, per ciò che riguarda la trama, è molto confusa e pasticciata: lo spettatore stenta a seguirla perchè poco lineare ed intrisa di troppi avvenimenti, difficili, appunto, da seguire uno ad uno per una vicenda, od il suo pretesto, di base, molto semplice. Ma quello che, penso, Anderson si sia prefissato non sia stato tanto il costruire una storia di facile approccio e con un susseguirsi di fatti che in maniera consequenziale e diretta pian piano conducano alla risoluzione del caso di partenza, bensì un pretesto per presentare al pubblico un mondo che ormai non esiste più, quale appunto quello degli anni '70, caratterizzato principalmente da valori e credenze ormai superate e nella maggioranza dei casi persino sbagliate o, per lo meno, altamente utopistiche, insomma uno specchio di tutta una generazione di individui poi profondamente sconfitti nei loro sogni e desideri irrealizzabili, ma proprio per questa atmosfera nostalgica il film risulta valido e dotato di un certo valore.
Il nutrito cast degli attori, poi, che è impiegato nel film risulta un ulteriore elemento a favore della pellicola consegnando al pubblico una molteplicità di ritratti di persone quanto mai singolari ed originali: su tutti, ovviamente, spicca il personaggio principale del detective impersonato da Joaquin Phoenix, molto bravo e soprattutto convincente, seguito dal poliziotto e suo amico-nemico James Brolin, sino ad un indefinibile Benicio del Toro e ad uno quanto mai stralunato nonchè tossico Owen Wilson, per citare solo alcuni tra i principali.
Insomma, un film interessante nel suo complesso, parecchio nostalgico e da seguire senza alcuna pretesa di capirne il caos della trama.
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alexander 1986
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giovedì 2 luglio 2015
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troppo fumo e poco film
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LA, anni '70. 'Doc' Sportello (Joaquin Phoenix) è un detective privato naif e costantemente strippato, ma non gli manca il lavoro. L'ultimo glielo assegna l'ex-fidanzata Shasta: dovrà capire chi vuol fare la pelle al nuovo amante di questa, l'impreditore edile Wolfmann. Fra agenti corrotti, ebrei con simpatie naziste, furfanti generosi e tanta ma tanta sporcizia nascosta sotto i tappeti più rispettabili, Doc compirà un vero e proprio viaggio lungo il tramonto dell'ultima America.
Da una pellicola di Anderson è sempre lecito aspettarsi qualcosa di speciale. In questo caso abbiamo a che fare con l'adattamento del romanzo di uno degli autori par excellence ritenuti meno adatti allo scopo: Thomas Pynchon, profeta del postmodernismo.
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LA, anni '70. 'Doc' Sportello (Joaquin Phoenix) è un detective privato naif e costantemente strippato, ma non gli manca il lavoro. L'ultimo glielo assegna l'ex-fidanzata Shasta: dovrà capire chi vuol fare la pelle al nuovo amante di questa, l'impreditore edile Wolfmann. Fra agenti corrotti, ebrei con simpatie naziste, furfanti generosi e tanta ma tanta sporcizia nascosta sotto i tappeti più rispettabili, Doc compirà un vero e proprio viaggio lungo il tramonto dell'ultima America.
Da una pellicola di Anderson è sempre lecito aspettarsi qualcosa di speciale. In questo caso abbiamo a che fare con l'adattamento del romanzo di uno degli autori par excellence ritenuti meno adatti allo scopo: Thomas Pynchon, profeta del postmodernismo. Un'impresa difficilissima, anche con il meno difficile fra i libri dello scrittore statunitense.
L'impianto noir in stile hard boiled è in tutta evidenza una copertura per raccontare lo spaccato antropologico che interessa al regista. Al contrario di quel che di norma accade nei gialli, qui la trama non si semplifica e anzi a lungo andare non fa che complicarsi. Il procedimento è quello dell'accumulazione di dati, personaggi, eventi. Nessuno si aspetta che capiate chi ha ucciso chi o dove va a parare il protagonista. Tutto si svolge agli occhi dello spettatore come un non-sense fine a se stesso, nella cui natura consiste paradossalmente tutto il contenuto del discorso di Pynchon-Anderson. L'idea è che nella nuova America della fallita rivoluzione sessuale e dei costumi non sia più possibile trovare una verità ma solo schegge di piacere in una vita di noia. È la filosofia dei tossici applicata a paradigma esistenziale. Ed è anche l'ultimo colpo sferrato da Anderson alle mistificazioni del sogno americano, ridotto a una fabbrica di malati utili solo a ingrassare i potenti di turno. Qualcuno potrebbe giustamente definirlo come una nuova versione de 'Il grande Lebowski'; io non glielo impedirò.
Al di là di tutto, fra i film del grande regista - fra i pochi veri "autori" di Hollywood - è quello che mi è piaciuto meno. La maestria dello stile c'è sempre, gli interpreti sono perfetti, sceneggiatura e colonna sonora restano sopra le righe. Non gli si può dare meno di tanto.
Al tempo stesso non credo che gli si possa dare di più. Non mi assocerò a quei cinefili mandati in visibilio dal citazionismo estenuato da Anderson qui più che altrove, né ritengo che il valore di un film equivalga alla somma delle sue parti o alla difficoltà della realizzazione. Stavolta non ho visto quell'ispirazione che altrove avrebbe consentito al regista americano di superare i limiti della semplice calligrafia. Troppo pulito, per essere un film di fattoni.
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iuriv
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domenica 4 ottobre 2015
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indagini lisergiche.
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Vizio Di Forma si presenta come un noir dalle dinamiche classiche (quasi Chandleriane direi), spruzzato da una dose di commedia fornita dall'improbabile detective Doc Sportello e dalla bizzarra fauna che gli gira intorno.
La trama narra delle disavventure di Sportello, investigatore privato amante delle droghe leggere, dopo che la sua ex fiamma Shasta Fay lo ingaggia per impedire un rapimento. Da qui la storia si Doc si dipana attraverso un dedalo di indagini differenti che sembrano portarlo tutte allo stesso punto.
Il film trova il suo nutrimento negli incontri che il protagonista fa nel corso delle sue investigazioni. Personaggi come Bigfoot Bjornsen, poliziotto duro solo all'apparenza, oppure il sassofonista Coy, con la sua vita spazzata via dagli eventi, portano tutta quanta l'opera sul piano dell'assurdo.
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Vizio Di Forma si presenta come un noir dalle dinamiche classiche (quasi Chandleriane direi), spruzzato da una dose di commedia fornita dall'improbabile detective Doc Sportello e dalla bizzarra fauna che gli gira intorno.
La trama narra delle disavventure di Sportello, investigatore privato amante delle droghe leggere, dopo che la sua ex fiamma Shasta Fay lo ingaggia per impedire un rapimento. Da qui la storia si Doc si dipana attraverso un dedalo di indagini differenti che sembrano portarlo tutte allo stesso punto.
Il film trova il suo nutrimento negli incontri che il protagonista fa nel corso delle sue investigazioni. Personaggi come Bigfoot Bjornsen, poliziotto duro solo all'apparenza, oppure il sassofonista Coy, con la sua vita spazzata via dagli eventi, portano tutta quanta l'opera sul piano dell'assurdo.
Così la vicenda vive di momenti, più che del suo complesso. La trama infatti pare sfuggire dalle mani ogni momento, con l'inserimento di caratteri nuovi che continuano a comparire sullo schermo. Tutte le indagini finiscono per intersecarsi tra loro, complicando le cose e spostando continuamente il mirino dell'attenzione.
Alcuni momenti di smarrimento si risolvono con una seconda visione, che aiuta a mettere in chiaro le relazioni tra i personaggi, però, nel complesso, nemmeno la seconda volta si riesce a levarsi di dosso la strana sensazione di impalpabilità che avvolge tutto il lavoro di Anderson. Così come non è utile, a tal fine, l'intervento della narrazione di Sortilege, posizionata più per confondere che per rischiarare, con i suoi riferimenti all'oroscopo e alle discipline spirituali.
Dovendo trarre una conclusione, un'analisi rigorosa dimostra come tutti i punti del giallo vengano risolti. Eppure, alla fine del film, resta la sensazione che manchi qualcosa. L'impressione è che Anderson abbia voluto tirar fuori un che di diverso, rispetto alla semplice commedia noir. A questo punto però bisogna fare i conti con la sensibilità di chi decide di affrontare la visione.
A me, per esempio, questa storia non è arrivata in nessun modo. Un film fiacco, costruito su una serie di stereotipi anni 70 che appaiono già visti e già sentiti e che finiscono per togliere l'attenzione da un intreccio già complicato di per se.
Sostanzialmente tutta la pellicola sembra voler essere un viaggio lisergico, ma il mondo del cinema ha saputo trasmettere certe sensazioni molto meglio di così. Viste le qualità del regista e il cast di attori di primissimo piano (tutti impeccabili tra l'altro), mi aspettavo qualcosa di più.
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francirano
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lunedì 8 febbraio 2016
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troppo tardo adolescenziale, questo nuovo drugo.
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D'accordo. Facciamo pure il verso ai noir, alle intricatissime trame del falcone maltese, del grande sonno, di tutto quello che vogliamo. E va bene, benissimo, che a un certo punto i nomi di tutti i personaggi, i soprannomi, i cognomi, si perdano in un guazzabuglio di cui lo spettatore, proprio come il protagonista, non riesce a venire a capo.
E va pure benissimo che Joaquin Phoenix diventi un nuovo Lebowski, incarnando un altro divertentissimo e spettacolare personaggio. Sulla sua bravura e sul divertimento puro che crea non si puo' appuntare alcunchè.
Ma non si puo' proprio sorvolare su quella voce fuori campo, non solo inutile, ma addirittura dannosa, fastidiosa, che tenta di darsi un tono e ricreare un qualche virtuosismo letterario completamente all'ovest di ogni decenza diventando quanto di più odioso si possa immaginare.
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D'accordo. Facciamo pure il verso ai noir, alle intricatissime trame del falcone maltese, del grande sonno, di tutto quello che vogliamo. E va bene, benissimo, che a un certo punto i nomi di tutti i personaggi, i soprannomi, i cognomi, si perdano in un guazzabuglio di cui lo spettatore, proprio come il protagonista, non riesce a venire a capo.
E va pure benissimo che Joaquin Phoenix diventi un nuovo Lebowski, incarnando un altro divertentissimo e spettacolare personaggio. Sulla sua bravura e sul divertimento puro che crea non si puo' appuntare alcunchè.
Ma non si puo' proprio sorvolare su quella voce fuori campo, non solo inutile, ma addirittura dannosa, fastidiosa, che tenta di darsi un tono e ricreare un qualche virtuosismo letterario completamente all'ovest di ogni decenza diventando quanto di più odioso si possa immaginare.
Un abuso, non tanto di droghe, quanto di stilemi tardo adolescenziali, fatto di copulatine con le segretarie avanzando a passettini coi calzoni abbassati, pippate di cocaina, fumiganti sigarettoni accesi in continuazione. Il che andrebbe bene se tutto questo non sforasse nel ripetitivo utilizzo di termini quali "fattone", "leccata di fica", "cacata", che dovrebbero forse indurre ad un riso complice, ma che possono sortire questo effetto solo presso una manica di ventenni dalla canna facile. E ancora nutriamo sufficiente speranza nel genere umano da credere che il manipolo di ventenni in questione non si sganasci poi troppo.
E' un peccato. Un vero peccato, perchè la fotografia è buona, buona la colonna sonora, bravissimi gli attori. Si ride di gusto in almeno un paio di scene. Ma le cadute di stile fanno la differenza tra un film dei fratelli Coen ed una qualunque commedietta giovanilistica che le onde dell'oceano di Gordita Beach porteranno via.
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cinemaniac98official
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venerdì 20 marzo 2015
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paul thomas anderson per il grande lebowsky
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Ebbene si ... Dopo il filmone The master , Paul Thomas Anderson dirige un capolavoro , tratto da un romanzo di Pynchon .... Viene fuori un grande film , molto complicato ma davvero molto bello , Josh Brolin in una delle sue migliori interpretazioni , Phoenix da sempre bravissimo qui lo dimostra ulteriormente e Benicio del Toro bè lui è benicio del toro , il grande lupo mannaro figlio di Hopkins ed uno della banda di criminali del geniale e mitico : i soliti sospetti diretto dal grande Bryan Singer .
tornando a Vizio di forma , Anderson non contento della versione dei Coen , torna con uno dei suoi film più strani e più complicati , una vera e propria versione del grande lebowsky ma in chiaepiu profonda e piu drammatica.
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Ebbene si ... Dopo il filmone The master , Paul Thomas Anderson dirige un capolavoro , tratto da un romanzo di Pynchon .... Viene fuori un grande film , molto complicato ma davvero molto bello , Josh Brolin in una delle sue migliori interpretazioni , Phoenix da sempre bravissimo qui lo dimostra ulteriormente e Benicio del Toro bè lui è benicio del toro , il grande lupo mannaro figlio di Hopkins ed uno della banda di criminali del geniale e mitico : i soliti sospetti diretto dal grande Bryan Singer .
tornando a Vizio di forma , Anderson non contento della versione dei Coen , torna con uno dei suoi film più strani e più complicati , una vera e propria versione del grande lebowsky ma in chiaepiu profonda e piu drammatica..... Mentre nel grande lebowsky si scherzava sul fatto del Vietnam e della banda di strani criminali ... Beh qui invece si affronta tutti con molta serietà ... Anche se molto spesso c'è ironia e si da spazio a qualche bella battuta che da un po' di leggerezza al film ....che nonostante sia molto bello rimane un filmone bello pesante .
È un film che merita , per la fotografia , per la colonna sonora , per gli attori e soprattutto per l'adattamento di quel folle testo di Pynchon ... Uno dei film più belli degli ultimi anni sicuramente ... Ma prima di vederlo è necessario vedere il grande lebowsky seguito da Trainspotting .
vizio di forma , grande film ... Non lo so .... Sicuramente interessante
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