Dici Ron Howard e subito la mente corre a titoli ormai cult come Cocoon e Apollo 13, oppure a gemme come A Beautiful Mind: un regista ‘vecchia scuola’, che ha iniziato a fare cinema davanti alla macchina da presa con mostri sacri come Don Siegel ed è poi entrato a far parte a pieno titolo della stessa categoria.
Con Rush in un certo senso Howard torna alle origini: anche il suo debutto alla regia, Attenti a quella pazza Rolls Royce, scritto assieme al padre Rance e prodotto da Roger Corman, parlava di motori rombanti e vite al limite.
Scritto da Peter Morgan – autore del dramma teatrale e della sceneggiatura di Frost/Nixon-il duello – e affidato alle cure di una regia asciutta e filologicamente impeccabile, il racconto della leggendaria sfida fra Niki Lauda e James Hunt va ben oltre la dimensione del biopic sportivo e diventa un’opera evocativa di un’epoca passata, ricostruita senza un briciolo di retorica hollywoodiana. In Rush Lauda e Hunt hanno i volti e i corpi perfettamente calzanti e delineati di Daniel Brühl e Chris Hemsworth, davvero straordinari nel riportare sullo schermo le complesse e diametralmente opposte personalità dei due campioni: genio calcolatore, scorbutico e sincero al limite del brutale l’austriaco, ribelle, scostante e infantile l’inglese.
Nel 1976 la loro rivalità, iniziata anni prima in Formula 3, innesca la miccia che darà vita a un mondiale infuocato, passato alla storia della Formula 1 soprattutto a causa dell’orribile incidente al Nürburgring che ha lasciato Lauda sfigurato, ma ricordato anche per l’unico titolo annoverato nel palmarès di Hunt, ritiratosi poco dopo dalle corse.
Howard segue con occhio partecipe e mai giudice la vita privata e pubblica di entrambi i piloti, alternando il ritmo calmo dei momenti di intimità famigliare alla cronaca dell’emozione e dell’adrenalina vissute sulla pista, con inquadrature di dettagli come caschi, pistoni, pedaliere e sguardi glaciali tra i due protagonisti e riprese da angolazioni inconsuete come specchi retrovisori e alettoni, che restituiscono la prospettiva frenetica delle corse. All’uso di colori caldi e luminosi per il fuori pista, il regista alterna colori freddi e lividi in gara, simbolo di un rischio mortale sempre presente. Genio e follia, uomini e macchine contro la natura, sofferenza ed eroismo.
Solamente nel finale viene lasciato uno spazio per alcuni spezzoni con immagini di repertorio, che testimoniano il rapporto di stima reciproca che intercorreva tra i due oltre la competizione e che aggiungono un tocco di nostalgica malinconia alla ‘perfetta misura’ del racconto.
Ambra Agnoletto
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