Romanzo di una strage |
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Un film di Marco Tullio Giordana.
Con Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Michela Cescon, Laura Chiatti, Fabrizio Gifuni.
continua»
Drammatico,
durata 129 min.
- Italia 2012.
- 01 Distribution
uscita venerdì 30 marzo 2012.
MYMONETRO
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Romanzo senza fine
di quieromirarFeedback: 1436 | altri commenti e recensioni di quieromirar |
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domenica 15 aprile 2012 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Vagliare, confrontare, interrogare, inseguire per poi tornare mille volte al punto di partenza. L’ultimo film di Marco Tullio Giordana non è solo il resoconto di un’inchiesta che intravede, senza mai afferrarla, la sua risoluzione, ma racconta la sconfitta della logica e dell’etica a vantaggio di interessi che sembrano soverchiare anche chi li difende. Il Saragat che si augura per un momento di finire come Segni e in cui Omero Antonutti rende speculari la rabbia e la disperazione, il viscido questore connotato nel modo più sgradevole da Sergio Solli, il generale che rivela la presenza delle armi in una grotta a Calabresi, lo stesso Moro, presentato da Fabrizio Gifuni come il mesto sacerdote di un culto che conosce, ma non domina fino in fondo, sono tutte figure vincolate a qualcosa che resta sfuggente, ma inquina le loro vite, le contamina senza lasciarsi decifrare. La ricerca di un senso imprime alla regia un dinamismo che si nutre di elementi precisi: la frequenza dei primi piani e di quelli ravvicinati, l’attenzione agli interni che non è solo ricostruzione storica, ma riflesso della tendenza di ogni fazione ad arroccarsi, le figure quasi sempre contrapposte nell’inquadratura. Tutto concorre a un’immagine che aggredisce, senza riuscire a penetrarlo, il silenzio. Lo spettatore è trascinato dagli avvenimenti in tutte le direzioni e in ogni istante si percepisce la parzialità della visione, la consapevolezza che la spiegazione ultima sia relegata in un beffardo fuori campo: lo stesso in cui avviene la morte di Pinelli. Se però il molteplice non si riduce all’uno, neppure l’uno si riconosce nel molteplice. Da un lato infatti le piste si accavallano senza un criterio che le unifichi, dall’altro si ha il progressivo isolamento di Calabresi – un Valerio Mastandrea che incarna una ferita non rimarginabile-. Ecco allora che due inquadrature in cui culmina il pathos si rivelano necessarie. La prima è quella in cui la madre dell’anarchico viene abbandonata nell’atrio dell’ospedale dai medici, in un violento contrasto tra il nero delle vesti e il bianco dell’ambiente; la seconda mostra il muto controcampo tra Pinelli ormai morto e il commissario. O si cerca di esorcizzare la morte e la sua capacità di racchiudere il vero, o la si interroga invano, restando a combattere coi fantasmi di una verità romanzesca.
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