Una vita tranquilla |
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Un film di Claudio Cupellini.
Con Toni Servillo, Maurizio Donadoni, Juliane Köhler, Marco D'Amore, Francesco Di Leva.
continua»
Noir,
durata 105 min.
- Italia, Germania, Francia 2010.
- 01 Distribution
uscita venerdì 5 novembre 2010.
MYMONETRO
Una vita tranquilla
valutazione media:
3,23
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Straniero in ogni patriadi quieromirarFeedback: 1436 | altri commenti e recensioni di quieromirar |
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sabato 25 dicembre 2010 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
La prima inquadratura di “Una vita tranquilla” è un tronco d’albero in un paesaggio notturno che comunica immobilità, sospensione nel tempo, ma subito dopo il protagonista uccide un cinghiale. Fin dalle battute iniziali prendono corpo le dinamiche lungo le quali si snoderà il racconto: la stasi (che è presunta, illusoria) e la caccia, l’inseguimento di qualcosa in cui bisogna scommettere tutto. Tutti nel film inseguono qualcosa: Rosario (un Toni Servillo che si consacra al ruolo lavorando, come di consueto, sui dettagli, sugli sguardi, sulle sensazioni) difende lo status quo faticosamente raggiunto, la moglie (una Juliane Kohler che buca lo schermo per la sua capacità di dissimulare a fatica la pena di vivere sotto un’apparente sicurezza) cerca un legame stabile con il marito, Diego ed Edoardo (Marco d’Amore e Francesco Di Leva) mirano a compiere la loro missione criminale, ma incappano l’uno nel passato, l’altro nei propri istinti. Il personaggio principale assolutizza la sua condizione di straniero: non è solo un italiano trapiantato in Germania, è un uomo che sfugge sistematicamente a ogni categoria: il marito fedele, il padre presente, l’uomo legato a un’etica riconoscibile sono altrettante maschere che s’incrinano inesorabilmente. “Una vita tranquilla” è una storia di cose che si sfaldano, crollano su se stesse, suscitando uno spaesamento senza riscatto. Nel senso di fragilità che attanaglia tutto, i cortocircuiti emotivi risultano una conseguenza di partite irrisolte giocate con gli anni perduti: Diego non riesce a uccidere la vittima designata quando è scoperto dal padre, perché si riscopre per un attimo il bambino su cui incombe il super-io, quella presenza genitoriale che avrebbe potuto scrivere una storia diversa per entrambi. Quando Diego porta il figlio di Rosario in piscina e lo usa poi come strumento di ricatto, vuole ricordargli che gli ha rubato un’infanzia normale e vuole fargli provare, in una sorta di contrappasso, la perdita di sé che avviene quando si crede di poter fare a meno dell’altro. L’uccisione di Edoardo vorrebbe esorcizzare la scoperta della sua identità, ma è anche un tentativo fallito di uccidere la consapevolezza del figlio dimenticato. L’assedio nei confronti del padre è innanzitutto psicologico: l’esasperazione degli stereotipi sul delinquente meridionale in Francesco Di Leva gli ricorda a ogni passo ciò che ha cercato in ogni modo di sconfessare, così come la disturbante somiglianza di Marco d’Amore con Saviano enfatizza per il pubblico il suo ruolo di testimone scomodo. E quando, in una sorta di eterno ritorno, tutto ricomincia all’insegna della morte e dell’abbandono e Rosario fugge per costruire un altro castello di menzogne altrettanto debole, sembra di sentire per un attimo il lamento di Antigone per la quale “non c’è posto, né tra i vivi né tra i morti”.
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