Cipri’ torna alla regia con il suo secondo film, dal titolo enigmatico e misterioso. Lo spettatore non si inganni: “E’ stato il figlio”, liberamente ispirato al romanzo dello scrittore palermitano Roberto Alajmo non appartiene al genere spy story ma può essere considerato una commedia umana intinta di surreale vena grottesca.
Il filo conduttore e narratore degli eventi è un giovane apparentemente disadattato che trascorre le sue giornate in un ufficio postale della periferia di Palermo raccontando storie a chi aspetta il proprio turno. Tra queste ve ne è una particolare: quella della famiglia “allargata” Ciraulo dalle reminiscenze quasi verghiane e delle sue traversie all’interno del microcosmo popolare del quartiere Zen di Palermo degli anni 80. Nicola (interpretato da un ottimo Toni Servillo) è il capofamiglia e unica fonte di reddito che si arrangia a recuperare rottami dalle navi in disuso abbandonate nella zona portuale. Dal temperamento iroso e avido, condivide il piccolo appartamento con la moglie Loredana, scialba e passiva, il dinoccolato e disoccupato figlio Tancredi (tutt’altro che nobile come l’omonimo di Lampedusa), la dolce Serenella e i due anziani genitori Rosa e Fonzio, rappresentanti della piccola umanità incupita e calcolatrice (i discorsi della “Nonna Rosa” sembrano tratti dal Mastro don Gesualdo).
L’armonia familiare si spezza improvvisamente a causa della morte di Serenella uccisa accidentalmente da un proiettile vagante esploso durante un regolamento di conti. Dinanzi alla famiglia dopo l’iniziale attimo di dolore e rassegnazione (che appunto dura molto poco), si paventa un insperato quanto illusorio benessere economico determinato dal risarcimento economico statale a nome delle vittime della mafia. Sarà solo l’inizio della fine: presi dalla cupidigia e dall’avidità, la famiglia Ciraulo si rovinerà con le sue stesse man, prima indebitandosi con un usuraio strozzino (le scene del prestito e delle condizioni di restituzione sullo sfondo dello sferragliare delle rotaie fanno sorridere amaramente) e successivamente acquistando quella “macchina del diavolo”, la Mercedes dei loro sogni con la quale potrà ostentare quella ricchezza così a lungo ricercata.
Sfruttando il convenzionale mezzo dell’ analessi che occupa buona parte della pellicola, Ciprì descrive con un taglio grottesco la miseria umana e materiale di una realtà degradata, moralmente indegna e pronta a rinunciare anche a quel minimo di celato orgoglio al fine di mostrare con disprezzo la propria superiorità dinanzi a quel popolino invidioso.
Come nei romanzi realisti anche nel film di Cipri’ non c’e’ spazio per i sentimenti: spazzati via come una tempesta di sabbia, i protagonisti abbandonano una parvenza umana preservata da quella pietas tragica ma tutto sommato onesta, divenendo bestie assetate di denaro, pronte a monetizzare una disgrazia per i propri scopi e poco importa se sangue innocente è stato versato. Il pessimismo di cui è permeata la pellicola è stemperato da momenti di surreale comicità che sfociano nel grottesco grazie alla verve di un cast di attori ben caratterizzati cui spicca la “stravagante” disumanità di Nicola (e di Nonna Rosa alla fine) esponente e quasi macchietta caricaturale di una famiglia che ha fatto della maschera il proprio paravento esistenziale. Il regista palermitano convince e risulta molto abile nell’ enfatizzare il desiderio di emancipazione facendo uso di una tecnica registica che alterna il freddo disarmo dei palazzi popolari del quartiere Zen alle espressioni facciali disumane e espressioniste dei protagonisti ripresi spesso con gli occhi spalancati e quasi allucinati a mo’ di maschere che talvolta per l’eccessivo spirito farsesco risultano quasi innaturali e barocche.
Cipri’ è riuscito dignitosamente a dipingere con efficacia i complicati rapporti familiari che albergano in tutte le famiglie anche quelle apparentemente oneste e rispettabili. I “panni sporchi” sono metaforicamente le loro anime, abbruttite dal lato più venale dell’esistenza e cioè quella “roba”, quell’attaccamento ai ben materiali verganiamente parlando, che li condurrà come Mazzaro’ alla rovina. Disperati e travolti da un amaro destino che stravolgerà la loro esistenza, la famiglia Ciraulo è il prototipo della deformata società contemporanea nella quale, molto spesso, l’unione è frantumata e spezzata dalle traversie della vita e lo scotto fisico, altissimo, è pagato solo dal più debole, dal più disgraziato, quello che soccombe alla dura legge del più forte senza più speranza alcuna. A tratti visionario e caricaturale, assurdo e terribile, misero e amaro ma sopratutto, realista.
Cosa che al cinema si sta perdendo.
[+] lascia un commento a eugenio »
[ - ] lascia un commento a eugenio »
|