
Il famoso regista greco presenta il suo La polvere del tempo.
di Ilaria Ravarino
Le colazioni con Tarkovskij. Le discussioni con Godard. I ricordi con Marcello Mastroianni e le serate in sala con i grandi del cinema italiano, «fari della conoscenza» dice lui, che gente come Antonioni (il suo preferito) o Fellini l’ha conosciuta e amata per davvero. Qualsiasi cosa si pensi del suo cinema, Theodoros Angelopoulos è un pezzo di storia della cultura europea. A quasi 80 anni il maestro del cinema greco è un artista ancora in grado di guardare lucidamente al presente, attaccato all’idea del «cinema come rivoluzione», incapace di arrendersi di fronte a un mondo sempre più lontano da quello in cui è cresciuto e ha lottato. Ogni tanto, si capisce, anche uno come Angelopoulos si sente «tagliato fuori». Tutto cambia intorno a lui, fin troppo velocemente. La Grecia affonda sotto il peso della crisi. Il Medioriente si infiamma. Il cinema diventa «conformista, consolatorio, facile», i fari della conoscenza si spengono e le ideologie crollano. I giovani non sanno chi è Bertold Brecht, nessuno legge più Joyce. «Sono sconcertato da quanto in fretta sia svanito tutto quel che abbiamo costruito in passato», dice lui. Che, come tutti i grandi, non si lascia abbattere. E allo sconcerto risponde con un film, La polvere del tempo, in sala dal 1 giugno.
Perché in questo film ha sentito il bisogno di riflettere sul secolo passato?
Angelopoulos: In realtà non ero partito con questa idea: il film arriva in ritardo rispetto a quando lo avevo pensato. L’accelerazione della storia è stata così repentina, che il mio film ha finito per diventare una sintesi del passato più che una fantasia sul futuro.
Non sarà che la storia del secolo passato è più interessante di quella contemporanea?
Uno scrittore giapponese in un libro ha sostenuto che con la fine del secolo scorso la storia del mondo è finita: per me è ovvio che non sia così. Possono avvenire cambiamenti straordinari, ma l’uomo resterà sempre al centro della storia. Del futuro parlerò nel prossimo film.
E del presente che ne pensa? Li ricorderemo come i giorni della grande crisi?
La crisi economica di oggi mi ricorda quella del ’29. Oggi come allora siamo tutti in mano alle banche e la finanza sta stringendo alla gola soprattutto i paesi che si sono comportati in maniera più allegra. Diceva Brecht: è meno criminale rubare a una banca che fondarne una.
Quanto c’è di Brecht nel suo cinema?
Negli anni ’70 Brecht era un punto di riferimento, anche se non credo che il suo modo di rappresentare il mondo sia stato così totalizzante nei miei film. In questo periodo sento piuttosto di essere tornato alla forma dell’antico atto tragico greco, quello che trova liberazione solo nella catastrofe finale: oggi l’analisi di Brecht non basta più a comprendere e rappresentare la disperazione della vita quotidiana, i tanti suicidi dei giovani, le piccole prostitute di 14 anni che in questi mesi affollano le strade di Atene…
La situazione in Grecia è così tragica?
Oltre alla tragedia c’è anche la speranza, quella rappresentata dai 100.000 giovani che stanno occupando pacificamente Piazza Sintagma, cioè la piazza del Parlamento, chiedendo un cambiamento totale. Così non si va avanti, è ora di cambiare tutto, e questa idea sta toccando tutti i paesi del Mediterraneo: Spagna, Grecia, Portogallo. E forse anche l’Italia, un giorno.
Godard nel suo Film Socialisme ha parlato anche di crisi greca: cosa ha pensato quando ha visto il film?
Che sono completamente d’accordo con lui.
Il suo prossimo film parlerà di crisi?
Sì, e si chiamerà L’altro mare. Sarà la storia di un gruppo di attori non professionisti e di scioperanti che cercano di mettere in scena L’opera da tre soldi di Brecht, ma insieme sarà anche la storia di un padre e una figlia. Un incontro tra due generazioni rappresentative: chi ha creato i problemi, e chi li sta scontando. Diciamo che sarà una sorta di “Brecht incontra Aristotele”. Per realizzarlo ho riunito una strana coproduzione tra paesi storicamente in conflitto: Cipro, Turchia, Grecia e Israele.
A proposito: il suicidio del personaggio di Jacob, nel film, è una metafora di Israele?
No. Il suicidio di Jacob ha due ragioni: la delusione amorosa e quella ideologico-politica.
Alla sceneggiatura, ancora una volta, c’è Tonino Guerra: come è nata la vostra collaborazione?
Ho conosciuto Tonino nel 1981 a Roma. Ero ospite di amici che lavoravano con Tarkovskij su Nostalghia. Mi parlarono di lui e mi procurai un incontro: dopo 5 minuti che lo conoscevo già stavamo lavorando, io in terrazza e lui seduto in salotto. Dice sempre di no, fa l’avvocato del diavolo: sono 25 anni che lavoro con lui e ormai non è un collaboratore, ma un amico di cui apprezzo la poesia quotidiana, l’umanità, il suo essere civile e colto.
Il suo cinema richiede pazienza allo spettatore: si sente fuori dal tempo?
Può darsi che io lo sia. Per me il cinema è rivoluzione, è linguaggio che cambia le situazioni sociali, mentre oggi è soprattutto conformismo. Preferisco provocare facendo qualcosa di diverso, fuori dagli schemi televisivi e consolatori. Davanti allo spettatore mi presento onestamente, come davanti a me stesso. Non sempre il film riesce, ma l’importante è provarci.
Come giudica il cinema italiano?
In passato c’erano grandi maestri come Fellini, Rossellini, Antonioni. Erano fari della conoscenza. Ci sono anche oggi dei film interessanti, ma non c’è una generazione esplosiva per quel che posso vedere. Ci sono dei piccoli bagliori, c’è Moretti che però appartiene a un altro tempo, e c’è Sorrentino che mi pare molto interessante. Spero che il cinema italiano torni ad essere quel che è stato tanti anni fa.