Dervis - Il derviscio

Un film di Alberto Rondalli. Con Antonio Buil Puejo, Yuksel Arici, Soner Agin, Cezmi Baskin, Haldun Boysan Titolo originale Dervis. Storico, durata 133 min. - India 2001.
   
   
   

da "L'ombra scura della religione" di S. Socci Valutazione 4 stelle su cinque

di vetro


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giovedì 6 settembre 2007

Il derviscio (Dervis, 2001) di Alberto Rondalli, tratto da un romanzo di Mesa Selimovic, è ancora una vicenda di odio e solitudine, nonostante il protagonista sia uno sceicco della confraternita più pura dei Dervisci. La storia di Ahmed Nerudin (Antonio Buil Puejo) si svolge agli inizi del secolo scorso, nella periferia dell'impero ottomano, in una regione desertica e rocciosa. Il monaco vive poveramente e il suo ritratto è quello di un uomo accigliato e severo, concentrato su certezze assolute e verità eterne. Intorno a lui naturalmente fluisce un mondo crudele e imperfetto. Suo fratello è stato arrestato e ucciso benché fosse innocente, perciò Nerudin si vendica del qadi, il giudice musulmano, e prende il suo posto; in breve è costretto ad aprire gli occhi sulla realtà da cui si era staccato e a verificare il potere distruttivo delle azioni umane. Nel Derviscio i frammenti di religiosità islamica sono mescolati con alcune meditazioni sul senso generale della vita che ci sono rivelate mediante la voce fuori campo. Così il protagonista, reduce da un infruttuoso colloquio con il qadi, riflette cupamente: «Noi siamo il nulla in qualcosa. La terra è inabitabile come la luna e noi ci illudiamo che sia la nostra dimora. [ ...] Forse sarebbe meglio tornare indietro, ridiventare semplice energia». Una frase a cui subito si aggiunge uno scarno dato esistenziale: Nerudin ha quarant'anni, «una brutta età: sei ancora giovane per avere desideri e già vecchio per poterli realizzare». La crisi del monaco nasce quindi dalle amarezze della vita terrena, dall'angustia e dalla finitezza del mondo secolare, paragonate alla gloria e alla vastità di Dio. Eppure l'ascesi e la disciplina del derviscio, che risponde solo ad Allah e alla sua coscienza, non hanno alcun effetto sulla realtà. Quando il fratello Harun viene giustiziato, Nerudin può opporre, a tale notizia, un insegnamento del Corano, simile a un noto passo della Bibbia ebraica: «Chiunque uccida un uomo che non ha ucciso, è come se uccidesse l'umanità intera». Questo non impedisce che Nerudin sia arrestato e liberato senza spiegazioni. Il regista riesce a suggerire tutta l'ambiguità dell'esistenza posta a confronto con la religione: è Dio che decide come elevare e abbattere l'uomo o è quest'ultimo, ridicolo «nulla in qualcosa», a emulare Dio facendosi destino per gli altri uomini? Il quesito, posto da Rondalli nel quadro immobile e muto della pianura anatolica, trascende l'islamismo e concerne l'origine di qualsiasi pensiero religioso. A quarant'anni Nerudin attraversa una crisi spirituale che confina con l'eresia, ma questa eresia sembra più vicina alla verità dell'apparato esteriore di ogni religione e del modo con cui il potere politico amministra la fede. Veniamo a sapere, di sfuggita, che la madre del giovane derviscio Jusuf, uno scrivano abilissimo, è stata uccisa perché aveva accolto dei soldati cristiani nella sua locanda. L' odio, la matrice arcaica, si contrappone come sempre all'amore, legando un monoteismo all' altro, in una linea di sangue che cristiani o musulmani possono spezzare soltanto con l'esercizio del dubbio. La vicenda di Nerudin curiosamente ricorda quella di Padre Sergio nel Sole anche di notte dei Taviani e, ancora prima, il viaggio del monaco pittore Andrej Rublev nel film omonimo di Tarkovskij. Ahmed, Sergio e Andrej non riescono a capire l'imperfezione umana o, meglio, non sanno giustificare e perdonare neppure quella che individuano in se stessi. Sono ammalati di monoteismo, di dottrina incrollabile ed eterna; questo li acceca, inibendo loro la visione dell'inevitabile lato oscuro, dato che il regno terribile della divinità assoluta esiste grazie a eccidi, massacri e orrori complementari, vicendevolmente perpetrati dai santi eserciti e dagli scherani delle confessioni antagoniste. Nel caso dei tre monaci -islamico, cattolico e cristiano ortodosso - il volto nascosto di Dio si identifica anche con la crudele banalità degli altri uomini, con la giurisprudenza secolare, con una minuta corruzione che avvilisce lo spirito e destituisce il corpo da ogni sacralità. Rublev, dopo avere assistito alle atrocità di una scorreria di Tartari, si chiude nel silenzio e rinuncia alla pittura, convinto dell'assurdità della comunicazione e della creazione in un mondo dominato dalla violenza, in cui si è perso il valore della vita umana. Scioglie il voto solo dopo la miracolosa fusione di una grande campana a opera del giovane Boriska; questi ha detto di avere appreso il segreto della fusione dal padre morente, ma, riuscita l'impresa, rivela ad Andrej di non conoscere formula alcuna. Padre Sergio, invece, rifiuta il secolo e continua a fuggirlo dopo una delusione d'amore che gli ha svelato le bassezze e gli inganni del potere; si trasforma in un viandante senza meta, di cui si perdono definitivamente le tracce. Nerudin fa disseppellire Harun e celebra il funerale davanti ai fedeli che a gran voce garantiscono della sua bontà davanti a Dio, poi applica una strategia di vendetta coronata dal successo. Nonostante una premessa di fede totalizzante, identica a quelle di Andrej e Sergio, il derviscio rientra nel mondo con le armi del , mondo e diventa qadi. Ha rinunciato alla sua integrità mistica ma solo per sperimentare gli intrighi e il nonsenso della realtà circostante, che subito lo irretisce regalandogli il carcere e la pena capitale. Prima di essere strangolato, Nerudin chiama a testimoni l'alba e la luna, «che l'uomo è sempre in perdita». Il derviscio mostra come una fede cristallina e incontaminata sia impossibile sulla Terra, mentre unica verità del credente diventa l'interrogazione continua sull'essenza divina, il dubbio sistematico più che la peregrinazione di Rublev o la fuga di Padre Sergio. Nerudin ha in comune con loro un'uguale tensione verso il nulla, come se la ricompensa finale fosse per tutti e tre l'evanescenza, il salto nel vuoto, il sublime regresso all'energia primordiale. Questi film, partendo da una base monoteistica di accesso impervio, culminano in un evidente panteismo. La : soave festa boschiva dei pagani che, in Andrei Rublev, viene affogata nel sangue dagli armati di Dio, la giornata serena di una coppia di anziani contadini nel paesaggio aspro e puro della Basilicata del Sole anche di notte, il deserto orientale a cui come roccia probabilmente tornerà Nerudin da morto, sono una prospettiva migliore, un'accogliente, benevola e concreta latenza erotica in cui è più facile collocare il paradiso.

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